LAVORARE CON AMORE E' LAVORARE BENE
LA LUNA S'ACCENDE DI ROSSO QUANDO C'E AMORE PER IL PROPRIO LAVORO
domenica 26 luglio 2009
L'ordine benedettino
Ordine di San Benedetto
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San Benedetto da Norcia, Fondatore del'Ordine
L'Ordine di San Benedetto (in latino Ordo Sancti Benedicti o, semplicemente, O.S.B.), popolarmente denominato Ordine Benedettino, è un ordine monastico osservante la Regola dettata nel 534 da san Benedetto da Norcia e che conferì al monachesimo occidentale la sua forma definitiva.
Indice[nascondi]
1 Storia
2 Regola benedettina
3 Architettura ed organizzazione monastica
3.1 Architettura monastica
3.1.1 Chiesa
3.1.2 Chiostro
3.1.3 Capitolo
3.1.4 Biblioteca
3.1.5 Dormitorio e celle
3.1.6 Refettorio
3.1.7 Cimitero
3.1.8 Foresteria
3.1.9 Infermeria e giardino dei semplici
3.1.10 Cucine
3.1.11 Gabinetti
3.1.12 Scuole
3.1.13 Noviziato
3.1.14 Azienda agricola
3.1.15 Magazzini e laboratori
3.1.16 Appartamenti dell'abate
3.2 Organizzazione monastica
3.2.1 L'abate
3.2.2 Il priore
3.2.3 Il cantore
3.2.4 Il portinario
3.2.5 Il sagrestano
3.2.6 Il cellaro
3.2.7 Il refettorista
3.2.8 Il cuciniere
3.2.9 L'infermiere
3.2.10 L'elemosiniere
3.2.11 Il maestro degli ospiti
3.2.12 Il ciamberlano
3.2.13 Il maestro dei novizi
3.2.14 Il settimanale
3.3 La giornata del monaco
4 L'organizzazione dell'Ordine
5 Lo studio ed il lavoro
6 Benedettini e Benedettine celebri
7 Le abbazie
8 Benedettini al cinema e nella letteratura
9 Note
10 Voci correlate
11 Collegamenti esterni
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Storia [modifica]
I monaci Benedettini non rimasero chiusi nei loro monasteri, ma si dedicarono attivamente alla diffusione del messaggio cristiano e, anche con il sostegno di papa Gregorio Magno (590-604), si diffusero prima in Italia e poi al di là delle Alpi.
Molto conosciuto è il ruolo che svolsero in campo culturale: per quanto la regola benedettina non imponga direttamente e in modo coercitivo ore dedicate allo studio, ne accenna l'importanza. Da qui iniziò il processo di produzione di manoscritti, che sarebbe diventato in qualche modo precipuo durante il corso del medioevo. Alla produzione di codici di argomento religioso affiancarono il paziente lavoro di copiatura di testi antichi, anche scientifici e letterari. Tra l'altro il loro elevato livello culturale e la loro capillare diffusione sul territorio indusse Carlo Magno ad affidare proprio ai benedettini il compito di organizzare un sistema regolare di istruzione.
I benedettini prosperarono per tutto il medioevo, come testimoniano i circa 14.000 monasteri appartenenti all'ordine censiti prima del Concilio di Costanza tenutosi nel 1415, costruiti in luoghi isolati e lontani dalle città, alcuni dei quali erano così grandi che ospitavano oltre 900 monaci. L'ordine entrò però in crisi quando cominciarono a prendere piede le riforme avviate verso la fine dell'XI secolo che incoraggiavano il lavoro missionario e parrocchiale fuori dal monastero. Questa tendenza si accentuò ulteriormente nel XIII secolo con la nascita degli ordini mendicanti e di quelli predicatori: i Francescani fondati nel 1210, i Domenicani nel 1210 ed i Carmelitani nel 1250. A partire da quell'epoca il monachesimo di clausura così come era conosciuto prima cessò di esistere ed i monasteri non furono più costruiti extra moenia (fuori dalle mura delle città) ma direttamente nei centri abitati.
La riforma promossa a partire dal XV secolo da centri come quello di Santa Giustina di Padova e sanzionata nel secolo successivo dal Concilio di Trento (1545-1563) consentì il riprendersi dei centri monastici benedettini, sempre più spesso orientati a svolgere anche compiti di alta cultura, specie nel settore dell'erudizione storico-artistica e in quello musicale.
Regola benedettina [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Regola benedettina.
La Regola benedettina, in latino denominata Regula monachorum o Sancta Regula , dettata da San Benedetto da Norcia nel 534, consta di un Prologo e di settantatré capitoli. È una dettagliata regolamentazione dei diversi aspetti della vita monastica, che viene organizzata intorno a quattro assi portanti, volti a permettere di fare fronte alle tentazioni impegnando continuamente ed in modo vario il monaco: la preghiera comune, la preghiera personale, lo studio (non solo delle Sacre Scritture ma anche di scienza e arte) e il lavoro.
Architettura ed organizzazione monastica [modifica]
San Benedetto nella Regola menziona gli ambienti ed i ruoli chiave dell'organizzazione monastica con grande esattezza: l'oratorio, il dormitorio, il refettorio, la cucina, i magazzini, l'infermeria, il noviziato, gli ambienti per gli ospiti e indirettamente, il capitolo, l'abate, il priore, il cellario, l'infermiere ecc.
Architettura monastica [modifica]
L'ampiezza delle comunità monastiche variavano enormemente in funzione della ricchezza e del prestigio: alcune erano piccolissime, altre (poche) potevano accogliere anche 900 monaci. In media però ne riunivano da 10 a 50 perché l'Abate doveva conoscere e seguire i suoi monaci e guidarli come un padre spirituale.
Solitamente costruito vicino ad un corso d'acqua, l'intero complesso monastico era orientato in modo che l'acqua poteva essere convogliata verso le fontane e la cucina prima di raggiungere la lavanderia ed i bagni.
Le origini della struttura del tipico monastero rimangono oscure. Probabilmente i monaci si rifecero in parte alle ville romane, edifici a loro familiari e costruite su uno schema unico in tutto l'Impero. D'altra parte i monaci, quando potevano, stabilivano le loro comunità in edifici preesistenti, spesso proprio delle ville di origine romana che poi adattavano alle loro esigenze. A volte occupavano anche edifici precedentemente dedicati a culti pagani.
Il tempo, l'esperienza e le esigenze delle comunità monastiche lentamente influirono sull'impostazione originale dei monasteri che, essendo comuni a tutte le latitudini, portò a monasteri a rassomigliarsi tra loro.
Alla fine l'aspetto generale del convento risultò essere quello di una sorta di città con case divise da strade ed edifici, soprattutto nei grandi monasteri, divisi in gruppi. L'edificio della chiesa forma il nucleo e rappresenta il centro religioso della comunità. Perseguendo l'indipendenza dal mondo esterno, inoltre, i monaci si dotarono di mulini, forni, stalle, cantine e dei laboratori artigiani necessari per eseguire riparazioni e quant'altro fosse richiesto per soddisfare le esigenze della loro comunità.
Chiesa [modifica]
In altezza la chiesa di norma domina materialmente il resto dell'abbazia, inoltre è sempre molto ricca dimostrando la grande importanza che l'ufficio divino deve avere nella vita del monaco. La sua dimensione e ricchezza esprime anche la prosperità del monastero e spesso vi sono seppelliti i benefattori della comunità e conservate le reliquie dei santi.
Per la sua costruzione i monaci si rifecero soprattutto alle basiliche romane, molto diffuse in Italia: una navata centrale e due laterali illuminate da una fila di finestre sulle pareti, terminanti in un abside semicircolare.
Chiostro [modifica]
Il chiostro (dal latino claustrum, luogo chiuso), è stilisticamente ripreso dall'atrium delle ville romane ed è il luogo deputato alla meditazione (per questo vi vige la regola del silenzio) servendo ai religiosi da deambulatorio e riparo. È sempre circondato da portici sostenuti da colonne e pilastri ed è posizionato centralmente alle varie costruzioni del monastero di cui viene così a formare l'ossatura, infatti su di esso si affacciano gli edifici più importanti, come la chiesa, il capitolo per le riunioni della comunità monastica, il dormitorio (poi sostituito dalle celle), il refettorio.
Capitolo [modifica]
È il locale deputato alle riunioni della comunità monastica dove:
Il postulante si presenta a chiedere l'ammissione al monastero
l'abate impone il nome nuovo al postulante che così diventa novizio e, in segno di umiltà ed affetto, gli lava i piedi, seguito in ciò da tutti i fratelli;
Il novizio emette i voti divenendo monaco
l'abate convoca i suoi monaci per consultarli su questione importanti per la comunità .
funge anche da camera ardente per la veglia dei monaci deceduti.
Sebbene San Benedetto non abbia mai nominato esplicitamente il capitolo, non di meno egli aveva ordinato nella Regola dei momenti di riunione così, intorno al IX secolo, si cominciò ad adibire un apposito locale allo scopo scegliendolo sempre accanto al chiostro.
Inizialmente nel capitolo si ci riuniva solo per la distribuzione del lavoro manuale tra i monaci, solo con il tempo fu dedicato escusivamente alle riunioni ufficiali della comunità. Il suo nome deriva dalle letture (preghiere, sacre scritture e la regola dell'ordine) che accompagnavano abitualmente l'attribuzione delle varie incombenze. Benché il passo letto quotidianamente non corrispondesse sempre ad un capitolo, tuttavia questo nome restò attribuito alla sala.
Biblioteca [modifica]
Le biblioteche benedettine hanno svolto l'importantissima funzione di preservare, dopo la caduta dell'Impero Romano, le conoscenze antiche raccogliendo dalle rovine quello che veniva recuperato.
Anche ai giorni nostri la biblioteca di un monastero ha grande importanza, dato che la lettura e lo studio fanno parte integrante della vita monastica. Sono inoltre aperte e frequentate anche da studiosi esterni, che spesso solo lì possono reperire i documenti di cui necessitano.
Dormitorio e celle [modifica]
Il dormitorio era la camerata comune dove, secondo la Regola, una lampada era mantenuta sempre accesa. Quando i monaci erano tanti, erano divisi tra più dormitori.
Con gli anni si passò dalla camerata comune alle celle. Dapprima si praticarono delle divisioni di legno per isolare il monaco dalle inevitabili distrazioni di una sala comune, incompatibili con le esigenze dell'attività intellettuale (studio). In seguito la stanza fu chiusa da una porta e, in tal modo, si giunse al tipo di costruzione attuale divenuto di uso generale dal XV secolo.
Refettorio [modifica]
Il refettorio era la sala comune dove i monaci si riunivano per consumare i loro pasti. Originariamente costruito sul piano del triclinium romano, terminava in un'abside. I tavoli erano (e sono tuttora) normalmente disposti su tre lati lungo le pareti, lasciando il centro libero per gli inservienti. Vicino al refettorio c'era sempre una fontana dove si ci poteva/doveva lavare prima e dopo i pasti.
Per evitare che fosse solo un'occasione per appagare le proprie esigenza fisiologiche e rendere il tempo lì trascorso in un atto profondamente religioso, durante tutto il pasto un monaco a turno è incaricato di leggere brani tratti dalla Sacra Scrittura, per questa ragione vi vige regola del silenzio. Turni settimanali sono adottati anche per avvicendare i monaci nel servire gli altri in cucina.
Cimitero [modifica]
Alla loro morte, i monaci erano seppelliti nel cimitero interno al monastero.
Nei secoli passati, quando le difficoltà delle comunicazioni rendevano enormi le distanze, i monaci avevano trovato il mezzo di annunziarsi scambievolmente la morte di un confratello e assicurare così i reciproci suffragi: d'abbazia in abbazia, di provincia in provincia, peregrinava un religioso che portava con sé la lista dei morti dove erano annotati i defunti dell'anno con un breve curriculum vitae.
Questo uso ha perduto la sua ragion d'essere ma ancora oggi, quotidianamente ed all'ora prima, i monaci ricordano i religiosi ed i benefattori defunti e, una volta al mese, tutta la comunità va a benedire le salme che riposano nei sepolcri.
L'onore di essere sepolti tra i monaci era un privilegio che la comunità talvolta poteva concedere a vescovi, re e benefattori.
Foresteria [modifica]
Le comunità monastiche sempre ed ovunque hanno accordato una generosa ospitalità a tutti con spirito di servizio. Per questa ragione i monasteri costruiti lungo vie molto trafficate erano particolarmente attrezzati allo scopo e molto apprezzati. Spesso accoglievano anche ospiti di riguardo come re, principi e vescovi in viaggio insieme alle loro corti ed accompagnatori. Le infermerie erano collegate a queste ali del monastero per curare anche gli ospiti che ne avessero bisogno.
Gli edifici adibiti all'ospitalità erano spesso suddivisi in aree distinte in funzione del censo di chi dovevano accogliere: ospiti importanti, altri monaci o pellegrini e poveri viaggiatori. Erano, inoltre, posizionati dove meno interferivano con la privacy del monastero ed avevano anche una cappella perché gli estranei non erano ammessi nella chiesa utilizzata da monaci e monache.
Infermeria e giardino dei semplici [modifica]
L'infermeria era un edificio separato dedicato ad ospitare i monaci malati o deboli che erano affidati ad un monaco-medico. Era dotata di un orto per la coltivazioni delle erbe medicinali, il giardino dei semplici. Spesso erano poste vicino al dormitorio.
Cucine [modifica]
La cucina (dove i monaci servivano in turni settimanali) era naturalmente situata vicino al refettorio. Nei monasteri più grandi c'erano più cucine: per i monaci, i novizi e gli ospiti.
Gabinetti [modifica]
I gabinetti erano separati dagli edifici principali ed erano raggiungibili percorrendo un corridoio. Erano sempre disposti con grande cura verso l'igiene e la pulizia e forniti di acqua corrente ogni volta che era possibile.
Scuole [modifica]
Molti monasteri avevano scuole esterne per gli oblati, ragazzi destinati dai loro genitori alla vita monastica. In anni recenti alcuni hanno istituito anche scuole e collegi aperti a giovani che non hanno la chiamata religiosa.
Noviziato [modifica]
I novizi, non essendo ancora parte della comunità, non avevano il diritto di frequentare la zona di clausura. Avevano un posto nel coro durante gli uffici divini, ma trascorrevano il resto del tempo nel noviziato. Un monaco anziano, il prefetto o maestro dei novizi, li istruiva nei principi della vita religiosa e li sorvegliava. Il periodo di prova durava una settimana. I noviziati più grandi avevano propri dormitori, cucine, refettori, sale di lavoro ed anche chiostri.
Azienda agricola [modifica]
Le aziende agricole sono intese dalla regola da un lato come un'occasione di lavoro, dall'altro come un mezzo di sostentamento che assicurava al monastero l'autonomia alimentare.
Pur mantenendosi ben curata ed ordinata, oggi non ha più l'importanza dei secoli passati, quando la terra costituiva l'elemento quasi esclusivo della ricchezza monastica. Oggi la funzione della tenuta monastica, dove pure essa esiste, è quella di permettere al monastero di trarne, almeno in parte, i prodotti necessari al proprio sostentamento.
Magazzini e laboratori [modifica]
Nessun monastero era completo senza le sue dispense per conservare il cibo. C'erano, inoltre, granai, cantine e altri locali di servizio; tutto posto, insieme agli edifici delle fattorie, sotto la tutela del monaco cellaio.
Molti monasteri possedevano mulini per macinare il grano.
Appartamenti dell'abate [modifica]
A partire dal tardo Medioevo separati erano anche gli appartamenti del capo della comunità: l'abate.
Organizzazione monastica [modifica]
Per assicurare il buon funzionamento del monastero, soprattutto nei monasteri più grandi, l'abate si avvaleva di una serie di collaboratori che a lui rendevano conto per lo svolgimento di molte mansioni.
L'abate [modifica]
L'autorità massima del monastero è nelle mani dell'abate che può avere alle sue dirette dipendenze un priore ed un sotto-priore. Nei grossi monasteri, l'amministrazione spiccia è a carica di diversi altri monaci.
Il priore [modifica]
Il priore è il vice dell'abate che, tra l'altro, lo sostituisce durante le sue assenze. Se necessario può essere coadiuvato da un sotto-priore.
Il cantore [modifica]
Il cantore (o precentor) si occupa dei canti durante i servizi divini. Suo assistente è il succentor. È anche uno dei tre monaci che conserva le chiavi del monastero. Tra gli altri suoi compiti c'è
l'istruzione dei novizi
l'opera di libraio ed archivista e, quindi, la responsabilità della conservazione dei libri e di fornire i monaci con quelli necessari libri per le orazioni
la preparazione di brevi biografie dei monaci morti (che poi venivano portate di convento in convento per dar notizia di chi era venuto a mancare).
Il portinario [modifica]
Il portinario è il monaco responsabile dell'ingresso e dell'uscita dal monastero.
Il sagrestano [modifica]
Il sagrestano è incaricato di curare la Chiesa insieme con il suo arredo ed i paramenti sacri. Oltre a mantenere tutto in ordine e pulito e preparare la chiesa per le funzioni (ad es. accendendo le candele), tra le altre sue responsabilità c'è anche l'illuminazione interna al monastero e per questo sovrintendeva alla costruzione di candele e del cotone necessario per i malati.
Al fine di non lasciare la chiesa incustodita, mangiava e dormiva in appositi locali nei suoi pressi.
Il suo assistente principale era il revestarius che si occupava dei paramenti sacri e degli arredi dell'altare. Un altro era il tesoriere incaricato di reliquari, vasi sacri ecc.
Il cellaro [modifica]
Il cellaro si occupa del cibo e della sua conservazione. In caso di necessità è esentato dalla partecipazione ai cori. Tra le sue incombenze c'è anche la scelta degli inservienti laici dei servizio in refettorio. Era incaricato anche della legna, il trasporto di materiali (non solo cibo), la manutenzione degli edifici ecc. Suo aiutante è il vice-cellaro e, nel forno, il granatorius che si assicura della qualità delle granaglie.
Il refettorista [modifica]
Il refettorista è incaricato di curare il refettorio, assicurare la pulizia dei luoghi, degli arredi e delle posate. Si occupa anche del lavandino, delle relative tovaglie e, quando necessario, dell'acqua calda.
Il cuciniere [modifica]
Il cuciniere ha la grande responsabilità di fare le porzioni ed evitare sprechi. Fra i suoi collaboratori c'è l'ampor che si occupa degli acquisti all'esterno.
Fra gli altri compiti del cuciniere c'è il mantenimento di un registro delle spese e di un inventario dei beni a sua disposizione da illustrare settimanalmente all'Abate. È anche responsabile della pulizia delle posate e dei locali.
Per i suoi impegni è spesso esentato dai cori.
I frati che servono nel refettorio in turni settimanali sono sotto i suoi ordini. A conclusione dei loro turni, la domenica sera lavano i piedi ai confratelli.
L'infermiere [modifica]
L'infermiere doveva curare amorevolmente deboli e malati e, quando necessario, era esentato dalla partecipazione alle funzioni comuni. Dormiva sempre nell'infermeria, anche quando non c'erano malati, così da essere sempre reperibile in caso di emergenza.
L'elemosiniere [modifica]
L'elemosiniere era incaricato di distribuire le elemosine, in cibo e vestiti, con spirito di carità e discrezione.
Il maestro degli ospiti [modifica]
Nel Medioevo l'ospitalità ai viaggiatori da parte dei monasteri era così frequente che il maestro degli ospiti richiedeva grande tatto, prudenza e discrezione, così come affabilità, poiché la reputazione del monastero era nelle sue mani. Suo primo dovere era di assicurarsi che i locali erano sempre pronti per riceverli, che proprio lui doveva accogliere, secondo quanto espresso dalla Regola, come lo stesso Cristo, e durante la loro permanenza sopperire alle loro necessità, intrattenerli, condurli in chiesa per assistere alle funzioni, ed essere sempre a loro disposizione
Il ciamberlano [modifica]
Il ciamberlano sovrintendeva il guardaroba dei fratelli, il loro rammendo o rinnovo di quelli sdruciti, mettendo da parte quelli non più usati per distribuirli ai poveri. Supervisionava anche la lavanderia ed l'acquisto all'esterno del necessario per il confezionamento degli abiti. Sempre suo compito erano i preparativi per il bagno, il lavaggio dei piedi ed il taglio della barba dei confratelli.
Il maestro dei novizi [modifica]
Il maestro dei novizi era uno dei monaci più importanti. Nella chiesa, nel refettorio, nei chiostro o nel dormitorio sorvegliava i novizi e trascorreva il giorno ammaestrandoli e facendoli esercitare sulle regole e le pratiche tradizionali della vita religiosa, incoraggiando ed aiutando chi dimostrava una reale vocazione.
Il settimanale [modifica]
Il settimanale era incaricato di cominciare tutte le Ore canoniche, dare le benedizioni richieste e cantare nella messa solenne celebrata giornalmente.
I servizi settimanali includevano, oltre a quelli già ricordati, il lettore nel refettorio che era incoraggiato a prepararsi bene al fine di evitare errori durante l'ufficio. C'era anche l'antifono il cui dovere era di intonare la prima antifona dei salmi e guidare la recitazione delle funzioni.
La giornata del monaco [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Rito benedettino.
"Ti ho lodato sette volte al giorno", questo sacro numero di sette si esprime nei momenti di preghiera: Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta.
Prima dell'alba il monaco si alza al suono della campana e si reca in chiesa per la recita dell'ufficio notturno, che termina con le lodi mattutine.
Al termine di questo spazio di tempo riservato alla preghiera, il monaco inizia il proprio lavoro che non interrompe più sino alla Messa conventuale, centro di tutta l'ufficiatura e punto culminante della vita monastica.
La campana dell'Angelus ricorda l'ora del pranzo: nel refettorio l'Abate benedice la mensa ed il lettore che, come vuole la regola, leggerà un brano di Santa Scrittura durante il pasto.
Dalla lettura ad alta voce deriva naturalmente la legge del silenzio per evitare ogni diminuzione di raccoglimento.
A tavola ed a turni settimanali i monaci si servono a vicenda mentre uno legge la Sacra Scrittura.
Dopo il pranzo c'è un'ora di ricreazione comune. Pare che la ricreazione attuale dei monasteri benedettini non risalga alle origini dell'istituzione monastica, sebbene la Regola di San Benedetto assegnasse già ai monaci qualche momento al giorno per lo scambio delle parole necessarie: comunque, dal IX secolo, la ricreazione è ammessa ovunque ed attualmente avviene due volte al giorno, a mezzogiorno e alla sera.
Al termine della ricreazione i monaci ritornano al loro lavoro.
La campana della cena riunisce di nuovo la comunità monastica per un pasto rapido e frugale, seguito da una breve ricreazione. Quindi il monastero si immerge nel silenzio: è l'ora di compieta, la preghiera della sera, l'ultimo atto della giornata del monaco.
L'abate benedice i monaci e, dopo qualche altra preghiera per i morti o alla Vergine, dopo aver detto "il Signore ci conceda una notte serena ed un riposo tranquillo" tutto tace.
La lunga ed operosa giornata del monaco è chiusa.
Da compieta all'indomani mattina, finito l'ufficio notturno, nessuno può rompere il silenzio senza un grave motivo.
L'organizzazione dell'Ordine [modifica]
I monaci benedettini sono organizzati in monasteri canonicamente autonomi retti da un abate e federati in congregazioni con a capo un abate Presidente.
Attualmente l'ordine è suddiviso in 20 congregazioni (tra parentesi, l'anno della fondazione):
Congregazione Benedettina Cassinese (1408);
Congregazione Benedettina d'Inghilterra (1336);
Congregazione Benedettina di Ungheria (1500);
Congregazione Benedettina di Svizzera (1602);
Congregazione Benedettina d'Austria (1625);
Congregazione Benedettina di Baviera (1684);
Congregazione Benedettina del Brasile (1827);
Congregazione Benedettina di Solesmes (1837);
Congregazione Benedettina Americana Cassinese (1855);
Congregazione Benedettina Sublacense (1872);
Congregazione Benedettina di Beuron (1868);
Congregazione Benedettina Elveto-americana (1881);
Congregazione Benedettina di Sant'Ottilia (1884);
Congregazione Benedettina dell'Annunziata (1920);
Congregazione Benedettina Slava (1945);
Congregazione Benedettina Olivetana (1313);
Congregazione Benedettina Vallombrosana (1039);
Congregazione Camaldolese dell'Ordine di San Benedetto (980);
Congregazione Benedettina Silvestrina (1231);
Congregazione Benedettina della Santa Croce del Cono Sur (1970).
Nel 1893, per volere di papa Leone XIII, le congregazioni e gli altri monasteri dell'ordine non legati a nessuna di esse vennero riuniti in una Confederazione presieduta da un Abate Primate, eletto per dodici anni da tutti gli abati: l'abate Primate risiede presso il monastero di Sant'Anselmo di Roma.
Al 31 gennaio 2005 la confederazione contava 349 tra abbazie e priorati e 7.876 monaci, 4.350 dei quali sacerdoti.[1]
Tra le congregazioni soppresse o estinte si ricordano:
Congregazione Benedettina Cluniacense (931);
Congregazione Camaldolese di Santa Croce di Fonte Avellana (XI secolo);
Congregazione Benedettina di Montevergine (XII secolo);
Congregazione Benedettina dei Celestini (1264);
Congregazione Benedettina Portoghese;
Congregazione Benedettina di Valladolid;
Congregazione Benedettina dei Santi Vitone e Idulfo (1598);
Congregazione Benedettina di San Mauro (1618).
Lo studio ed il lavoro [modifica]
Con i Benedettini la cura del lavoro manuale ed intellettuale creò nel Medioevo una sinergia unica ed irripetibile: studiando i testi antichi recuperarono nozioni ormai dimenticate in campo scientifico ed agricolo che misero a frutto nei loro monasteri e, per imitazione, si diffusero anche fuori.
Ad esempio, è tutta da ascrivere a merito dei Benedettini la rinascita medioevale dell'interesse per la letteratura medica e la coltivazione di erbe medicinali per uso terapeutico. Agli insegnamenti del passato loro aggiunsero la pratica della medicina come dovere etico del cristiano. D'altra parte nella Regola si impone che almeno due monaci in ogni convento siano (dovevano essere) addetti alla cura degli infermi negli stessi locali del convento in una zona non frequentata dai frati. Tra i compiti assegnati ai monaci-medici c'è (c'era) anche il reperimento e lo studio delle opere mediche a disposizione nel convento per poter conseguire l'abilità necessaria per la loro attività.
Esemplare è, in proposito, il caso di Salerno dove, in un monastero nei pressi della città i Benedettini già nell'820 avevano istituito un'infermeria aperta anche all'estero e molto contribuirono alla nascita della famosa Scuola medica salernitana.
Per quanto riguarda l'agricoltura, introdussero la rotazione triennale (il primo riferimento storico è stato rintracciato in un documento del 763 conservato nel Monastero di San Gallo in Svizzera) che consentì di migliorare la resa dei campi, trasformando i monasteri in avviate aziende agricole.
Il progresso tecnico e scientifico era ulteriormente avvantaggiato dalla circolazione delle conoscenze da un monastero all'altro attuato attraverso lo scambio dei testi ricopiati dagli amanuensi.
Per tutte queste ragioni i monasteri benedettini vennero a svolgere un ruolo centrale nella società medioevale accogliendo personalità di primo piano. Così il numero crebbe insieme a quello dei monaci tanto che in quell'epoca non erano rari i monasteri che ospitavano oltre 900 individui ai quali occorre ancora aggiungere i numerosi dipendenti laici e le loro famiglie che vivevano nei paraggi. Considerando, inoltre, che i monasteri Benedettini erano sempre edificati in aree isolate e disabitate, essi spesso mettevano a frutto terreni abbandonati o boschivi da altri ignorati contribuendo ulteriormente alla crescita economia.
Benedettini e Benedettine celebri [modifica]
San Benedetto da Norcia (480circa-547)
Santa Scolastica (480circa-547)
Papa Bonifacio IV (608-615)
Papa Gregorio II (715-731)
Papa Pasquale I (817-824)
Papa Pasquale II (1050-1118)
Papa Gregorio VII (1073-1085)
Papa Vittore III (1086-1087)
Papa Urbano II(1088)
Papa Celestino V (1294)
Papa Clemente VI (1342-1352)
Benedetto d'Aniane (750-821)
Costantino l'Africano (1020 - 1087)
Guido Monaco
John Main
San Gustavo
San Domenico di Sora
San Romualdo
San Giovanni Gualberto
Dom Pérignon
Anselm Grün
Raffaele Stramondo
San Mauro abate
Le abbazie [modifica]
I primi due monasteri dell'ordine (uno maschile ed uno femminile) furono fondati da San Benedetto a Montecassino nel 529. Lui si occupò di quello maschile, mentre il femminile fu posto sotto la guida di Santa Scolastica, sua sorella.
Nel medioevo le più importanti abbazie benedettine italiane furono l'abbazia di Farfa, quella di Nonantola, la Novalesa e quella di San Vincenzo in Volturno; in Germania l'Abbazia di Fulda e quella di Reichenau; in Francia Tours, Saint-Denis e Cluny.
Altri monasteri benedettini italiani:
Abbazia di Monte Cassino
San Paolo Fuori le Mura
Badia Fiorentina
Badia di Cava de Tirreni
Abbazia di Fossanova
Abbazia di Pomposa
Abbazia di Casamari
Abbazia di Chiaravalle
Abbazia di Subiaco
Monastero di San Nicolò l'Arena a Catania
Monastero di San Nicolò l'Arena a Nicolosi
Abbazia dei Santi Nazario e Celso a San Nazzaro Sesia
Abbazia di San Benedetto in Polirone a San Benedetto Po
Badia Leonense
Abbazia di San Martino delle Scale a Monreale
Abbazia di Praglia (Padova)
Benedettini al cinema e nella letteratura [modifica]
Cadfael. Serie di romanzi d'investigazione di Ellis Peters, iniziata nel 1977, si svolge nell'Inghilterra del XII secolo, al tempo della guerra civile fra il re Stephen e la regina Maud, e ha per protagonista il benedettino gallese Cadfael. La televisione britannica ne ha tratto una serie, Cadfael - I misteri dell'abbazia, con protagonista Derek Jacobi.
Il nome della rosa. Romanzo di Umberto Eco, pubblicato nel 1980, si svolge nell'Italia del XIV secolo, in un'abbazia benedettina di fantasia dell'appennino ligure, ma ha per protagonista il frate francescano Guglielmo da Baskerville. Da questo romanzo è stato tratto il film omonimo diretto da Jean-Jacques Annaud con protagonista Sean Connery.
Note [modifica]
^ dati statistici riportati dall'Annuario Pontificio per l'anno 2007, Città del Vaticano, 2007, p. 1452
Voci correlate [modifica]
Rito benedettino
Cenobitismo
Erbe medicinali
Letteratura medica
Monachesimo
Ordini monastici
Collegamenti esterni [modifica]
Sito ufficiale dell'Ordine di San Benedetto
La regola commentata
Confoederatio Benedictina Ordinis Sancti Benedicti, Sito ufficiale della Confederazione Benedettina
Portale Cattolicesimo: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di cattolicesimo
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San Benedetto da Norcia, Fondatore del'Ordine
L'Ordine di San Benedetto (in latino Ordo Sancti Benedicti o, semplicemente, O.S.B.), popolarmente denominato Ordine Benedettino, è un ordine monastico osservante la Regola dettata nel 534 da san Benedetto da Norcia e che conferì al monachesimo occidentale la sua forma definitiva.
Indice[nascondi]
1 Storia
2 Regola benedettina
3 Architettura ed organizzazione monastica
3.1 Architettura monastica
3.1.1 Chiesa
3.1.2 Chiostro
3.1.3 Capitolo
3.1.4 Biblioteca
3.1.5 Dormitorio e celle
3.1.6 Refettorio
3.1.7 Cimitero
3.1.8 Foresteria
3.1.9 Infermeria e giardino dei semplici
3.1.10 Cucine
3.1.11 Gabinetti
3.1.12 Scuole
3.1.13 Noviziato
3.1.14 Azienda agricola
3.1.15 Magazzini e laboratori
3.1.16 Appartamenti dell'abate
3.2 Organizzazione monastica
3.2.1 L'abate
3.2.2 Il priore
3.2.3 Il cantore
3.2.4 Il portinario
3.2.5 Il sagrestano
3.2.6 Il cellaro
3.2.7 Il refettorista
3.2.8 Il cuciniere
3.2.9 L'infermiere
3.2.10 L'elemosiniere
3.2.11 Il maestro degli ospiti
3.2.12 Il ciamberlano
3.2.13 Il maestro dei novizi
3.2.14 Il settimanale
3.3 La giornata del monaco
4 L'organizzazione dell'Ordine
5 Lo studio ed il lavoro
6 Benedettini e Benedettine celebri
7 Le abbazie
8 Benedettini al cinema e nella letteratura
9 Note
10 Voci correlate
11 Collegamenti esterni
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Storia [modifica]
I monaci Benedettini non rimasero chiusi nei loro monasteri, ma si dedicarono attivamente alla diffusione del messaggio cristiano e, anche con il sostegno di papa Gregorio Magno (590-604), si diffusero prima in Italia e poi al di là delle Alpi.
Molto conosciuto è il ruolo che svolsero in campo culturale: per quanto la regola benedettina non imponga direttamente e in modo coercitivo ore dedicate allo studio, ne accenna l'importanza. Da qui iniziò il processo di produzione di manoscritti, che sarebbe diventato in qualche modo precipuo durante il corso del medioevo. Alla produzione di codici di argomento religioso affiancarono il paziente lavoro di copiatura di testi antichi, anche scientifici e letterari. Tra l'altro il loro elevato livello culturale e la loro capillare diffusione sul territorio indusse Carlo Magno ad affidare proprio ai benedettini il compito di organizzare un sistema regolare di istruzione.
I benedettini prosperarono per tutto il medioevo, come testimoniano i circa 14.000 monasteri appartenenti all'ordine censiti prima del Concilio di Costanza tenutosi nel 1415, costruiti in luoghi isolati e lontani dalle città, alcuni dei quali erano così grandi che ospitavano oltre 900 monaci. L'ordine entrò però in crisi quando cominciarono a prendere piede le riforme avviate verso la fine dell'XI secolo che incoraggiavano il lavoro missionario e parrocchiale fuori dal monastero. Questa tendenza si accentuò ulteriormente nel XIII secolo con la nascita degli ordini mendicanti e di quelli predicatori: i Francescani fondati nel 1210, i Domenicani nel 1210 ed i Carmelitani nel 1250. A partire da quell'epoca il monachesimo di clausura così come era conosciuto prima cessò di esistere ed i monasteri non furono più costruiti extra moenia (fuori dalle mura delle città) ma direttamente nei centri abitati.
La riforma promossa a partire dal XV secolo da centri come quello di Santa Giustina di Padova e sanzionata nel secolo successivo dal Concilio di Trento (1545-1563) consentì il riprendersi dei centri monastici benedettini, sempre più spesso orientati a svolgere anche compiti di alta cultura, specie nel settore dell'erudizione storico-artistica e in quello musicale.
Regola benedettina [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Regola benedettina.
La Regola benedettina, in latino denominata Regula monachorum o Sancta Regula , dettata da San Benedetto da Norcia nel 534, consta di un Prologo e di settantatré capitoli. È una dettagliata regolamentazione dei diversi aspetti della vita monastica, che viene organizzata intorno a quattro assi portanti, volti a permettere di fare fronte alle tentazioni impegnando continuamente ed in modo vario il monaco: la preghiera comune, la preghiera personale, lo studio (non solo delle Sacre Scritture ma anche di scienza e arte) e il lavoro.
Architettura ed organizzazione monastica [modifica]
San Benedetto nella Regola menziona gli ambienti ed i ruoli chiave dell'organizzazione monastica con grande esattezza: l'oratorio, il dormitorio, il refettorio, la cucina, i magazzini, l'infermeria, il noviziato, gli ambienti per gli ospiti e indirettamente, il capitolo, l'abate, il priore, il cellario, l'infermiere ecc.
Architettura monastica [modifica]
L'ampiezza delle comunità monastiche variavano enormemente in funzione della ricchezza e del prestigio: alcune erano piccolissime, altre (poche) potevano accogliere anche 900 monaci. In media però ne riunivano da 10 a 50 perché l'Abate doveva conoscere e seguire i suoi monaci e guidarli come un padre spirituale.
Solitamente costruito vicino ad un corso d'acqua, l'intero complesso monastico era orientato in modo che l'acqua poteva essere convogliata verso le fontane e la cucina prima di raggiungere la lavanderia ed i bagni.
Le origini della struttura del tipico monastero rimangono oscure. Probabilmente i monaci si rifecero in parte alle ville romane, edifici a loro familiari e costruite su uno schema unico in tutto l'Impero. D'altra parte i monaci, quando potevano, stabilivano le loro comunità in edifici preesistenti, spesso proprio delle ville di origine romana che poi adattavano alle loro esigenze. A volte occupavano anche edifici precedentemente dedicati a culti pagani.
Il tempo, l'esperienza e le esigenze delle comunità monastiche lentamente influirono sull'impostazione originale dei monasteri che, essendo comuni a tutte le latitudini, portò a monasteri a rassomigliarsi tra loro.
Alla fine l'aspetto generale del convento risultò essere quello di una sorta di città con case divise da strade ed edifici, soprattutto nei grandi monasteri, divisi in gruppi. L'edificio della chiesa forma il nucleo e rappresenta il centro religioso della comunità. Perseguendo l'indipendenza dal mondo esterno, inoltre, i monaci si dotarono di mulini, forni, stalle, cantine e dei laboratori artigiani necessari per eseguire riparazioni e quant'altro fosse richiesto per soddisfare le esigenze della loro comunità.
Chiesa [modifica]
In altezza la chiesa di norma domina materialmente il resto dell'abbazia, inoltre è sempre molto ricca dimostrando la grande importanza che l'ufficio divino deve avere nella vita del monaco. La sua dimensione e ricchezza esprime anche la prosperità del monastero e spesso vi sono seppelliti i benefattori della comunità e conservate le reliquie dei santi.
Per la sua costruzione i monaci si rifecero soprattutto alle basiliche romane, molto diffuse in Italia: una navata centrale e due laterali illuminate da una fila di finestre sulle pareti, terminanti in un abside semicircolare.
Chiostro [modifica]
Il chiostro (dal latino claustrum, luogo chiuso), è stilisticamente ripreso dall'atrium delle ville romane ed è il luogo deputato alla meditazione (per questo vi vige la regola del silenzio) servendo ai religiosi da deambulatorio e riparo. È sempre circondato da portici sostenuti da colonne e pilastri ed è posizionato centralmente alle varie costruzioni del monastero di cui viene così a formare l'ossatura, infatti su di esso si affacciano gli edifici più importanti, come la chiesa, il capitolo per le riunioni della comunità monastica, il dormitorio (poi sostituito dalle celle), il refettorio.
Capitolo [modifica]
È il locale deputato alle riunioni della comunità monastica dove:
Il postulante si presenta a chiedere l'ammissione al monastero
l'abate impone il nome nuovo al postulante che così diventa novizio e, in segno di umiltà ed affetto, gli lava i piedi, seguito in ciò da tutti i fratelli;
Il novizio emette i voti divenendo monaco
l'abate convoca i suoi monaci per consultarli su questione importanti per la comunità .
funge anche da camera ardente per la veglia dei monaci deceduti.
Sebbene San Benedetto non abbia mai nominato esplicitamente il capitolo, non di meno egli aveva ordinato nella Regola dei momenti di riunione così, intorno al IX secolo, si cominciò ad adibire un apposito locale allo scopo scegliendolo sempre accanto al chiostro.
Inizialmente nel capitolo si ci riuniva solo per la distribuzione del lavoro manuale tra i monaci, solo con il tempo fu dedicato escusivamente alle riunioni ufficiali della comunità. Il suo nome deriva dalle letture (preghiere, sacre scritture e la regola dell'ordine) che accompagnavano abitualmente l'attribuzione delle varie incombenze. Benché il passo letto quotidianamente non corrispondesse sempre ad un capitolo, tuttavia questo nome restò attribuito alla sala.
Biblioteca [modifica]
Le biblioteche benedettine hanno svolto l'importantissima funzione di preservare, dopo la caduta dell'Impero Romano, le conoscenze antiche raccogliendo dalle rovine quello che veniva recuperato.
Anche ai giorni nostri la biblioteca di un monastero ha grande importanza, dato che la lettura e lo studio fanno parte integrante della vita monastica. Sono inoltre aperte e frequentate anche da studiosi esterni, che spesso solo lì possono reperire i documenti di cui necessitano.
Dormitorio e celle [modifica]
Il dormitorio era la camerata comune dove, secondo la Regola, una lampada era mantenuta sempre accesa. Quando i monaci erano tanti, erano divisi tra più dormitori.
Con gli anni si passò dalla camerata comune alle celle. Dapprima si praticarono delle divisioni di legno per isolare il monaco dalle inevitabili distrazioni di una sala comune, incompatibili con le esigenze dell'attività intellettuale (studio). In seguito la stanza fu chiusa da una porta e, in tal modo, si giunse al tipo di costruzione attuale divenuto di uso generale dal XV secolo.
Refettorio [modifica]
Il refettorio era la sala comune dove i monaci si riunivano per consumare i loro pasti. Originariamente costruito sul piano del triclinium romano, terminava in un'abside. I tavoli erano (e sono tuttora) normalmente disposti su tre lati lungo le pareti, lasciando il centro libero per gli inservienti. Vicino al refettorio c'era sempre una fontana dove si ci poteva/doveva lavare prima e dopo i pasti.
Per evitare che fosse solo un'occasione per appagare le proprie esigenza fisiologiche e rendere il tempo lì trascorso in un atto profondamente religioso, durante tutto il pasto un monaco a turno è incaricato di leggere brani tratti dalla Sacra Scrittura, per questa ragione vi vige regola del silenzio. Turni settimanali sono adottati anche per avvicendare i monaci nel servire gli altri in cucina.
Cimitero [modifica]
Alla loro morte, i monaci erano seppelliti nel cimitero interno al monastero.
Nei secoli passati, quando le difficoltà delle comunicazioni rendevano enormi le distanze, i monaci avevano trovato il mezzo di annunziarsi scambievolmente la morte di un confratello e assicurare così i reciproci suffragi: d'abbazia in abbazia, di provincia in provincia, peregrinava un religioso che portava con sé la lista dei morti dove erano annotati i defunti dell'anno con un breve curriculum vitae.
Questo uso ha perduto la sua ragion d'essere ma ancora oggi, quotidianamente ed all'ora prima, i monaci ricordano i religiosi ed i benefattori defunti e, una volta al mese, tutta la comunità va a benedire le salme che riposano nei sepolcri.
L'onore di essere sepolti tra i monaci era un privilegio che la comunità talvolta poteva concedere a vescovi, re e benefattori.
Foresteria [modifica]
Le comunità monastiche sempre ed ovunque hanno accordato una generosa ospitalità a tutti con spirito di servizio. Per questa ragione i monasteri costruiti lungo vie molto trafficate erano particolarmente attrezzati allo scopo e molto apprezzati. Spesso accoglievano anche ospiti di riguardo come re, principi e vescovi in viaggio insieme alle loro corti ed accompagnatori. Le infermerie erano collegate a queste ali del monastero per curare anche gli ospiti che ne avessero bisogno.
Gli edifici adibiti all'ospitalità erano spesso suddivisi in aree distinte in funzione del censo di chi dovevano accogliere: ospiti importanti, altri monaci o pellegrini e poveri viaggiatori. Erano, inoltre, posizionati dove meno interferivano con la privacy del monastero ed avevano anche una cappella perché gli estranei non erano ammessi nella chiesa utilizzata da monaci e monache.
Infermeria e giardino dei semplici [modifica]
L'infermeria era un edificio separato dedicato ad ospitare i monaci malati o deboli che erano affidati ad un monaco-medico. Era dotata di un orto per la coltivazioni delle erbe medicinali, il giardino dei semplici. Spesso erano poste vicino al dormitorio.
Cucine [modifica]
La cucina (dove i monaci servivano in turni settimanali) era naturalmente situata vicino al refettorio. Nei monasteri più grandi c'erano più cucine: per i monaci, i novizi e gli ospiti.
Gabinetti [modifica]
I gabinetti erano separati dagli edifici principali ed erano raggiungibili percorrendo un corridoio. Erano sempre disposti con grande cura verso l'igiene e la pulizia e forniti di acqua corrente ogni volta che era possibile.
Scuole [modifica]
Molti monasteri avevano scuole esterne per gli oblati, ragazzi destinati dai loro genitori alla vita monastica. In anni recenti alcuni hanno istituito anche scuole e collegi aperti a giovani che non hanno la chiamata religiosa.
Noviziato [modifica]
I novizi, non essendo ancora parte della comunità, non avevano il diritto di frequentare la zona di clausura. Avevano un posto nel coro durante gli uffici divini, ma trascorrevano il resto del tempo nel noviziato. Un monaco anziano, il prefetto o maestro dei novizi, li istruiva nei principi della vita religiosa e li sorvegliava. Il periodo di prova durava una settimana. I noviziati più grandi avevano propri dormitori, cucine, refettori, sale di lavoro ed anche chiostri.
Azienda agricola [modifica]
Le aziende agricole sono intese dalla regola da un lato come un'occasione di lavoro, dall'altro come un mezzo di sostentamento che assicurava al monastero l'autonomia alimentare.
Pur mantenendosi ben curata ed ordinata, oggi non ha più l'importanza dei secoli passati, quando la terra costituiva l'elemento quasi esclusivo della ricchezza monastica. Oggi la funzione della tenuta monastica, dove pure essa esiste, è quella di permettere al monastero di trarne, almeno in parte, i prodotti necessari al proprio sostentamento.
Magazzini e laboratori [modifica]
Nessun monastero era completo senza le sue dispense per conservare il cibo. C'erano, inoltre, granai, cantine e altri locali di servizio; tutto posto, insieme agli edifici delle fattorie, sotto la tutela del monaco cellaio.
Molti monasteri possedevano mulini per macinare il grano.
Appartamenti dell'abate [modifica]
A partire dal tardo Medioevo separati erano anche gli appartamenti del capo della comunità: l'abate.
Organizzazione monastica [modifica]
Per assicurare il buon funzionamento del monastero, soprattutto nei monasteri più grandi, l'abate si avvaleva di una serie di collaboratori che a lui rendevano conto per lo svolgimento di molte mansioni.
L'abate [modifica]
L'autorità massima del monastero è nelle mani dell'abate che può avere alle sue dirette dipendenze un priore ed un sotto-priore. Nei grossi monasteri, l'amministrazione spiccia è a carica di diversi altri monaci.
Il priore [modifica]
Il priore è il vice dell'abate che, tra l'altro, lo sostituisce durante le sue assenze. Se necessario può essere coadiuvato da un sotto-priore.
Il cantore [modifica]
Il cantore (o precentor) si occupa dei canti durante i servizi divini. Suo assistente è il succentor. È anche uno dei tre monaci che conserva le chiavi del monastero. Tra gli altri suoi compiti c'è
l'istruzione dei novizi
l'opera di libraio ed archivista e, quindi, la responsabilità della conservazione dei libri e di fornire i monaci con quelli necessari libri per le orazioni
la preparazione di brevi biografie dei monaci morti (che poi venivano portate di convento in convento per dar notizia di chi era venuto a mancare).
Il portinario [modifica]
Il portinario è il monaco responsabile dell'ingresso e dell'uscita dal monastero.
Il sagrestano [modifica]
Il sagrestano è incaricato di curare la Chiesa insieme con il suo arredo ed i paramenti sacri. Oltre a mantenere tutto in ordine e pulito e preparare la chiesa per le funzioni (ad es. accendendo le candele), tra le altre sue responsabilità c'è anche l'illuminazione interna al monastero e per questo sovrintendeva alla costruzione di candele e del cotone necessario per i malati.
Al fine di non lasciare la chiesa incustodita, mangiava e dormiva in appositi locali nei suoi pressi.
Il suo assistente principale era il revestarius che si occupava dei paramenti sacri e degli arredi dell'altare. Un altro era il tesoriere incaricato di reliquari, vasi sacri ecc.
Il cellaro [modifica]
Il cellaro si occupa del cibo e della sua conservazione. In caso di necessità è esentato dalla partecipazione ai cori. Tra le sue incombenze c'è anche la scelta degli inservienti laici dei servizio in refettorio. Era incaricato anche della legna, il trasporto di materiali (non solo cibo), la manutenzione degli edifici ecc. Suo aiutante è il vice-cellaro e, nel forno, il granatorius che si assicura della qualità delle granaglie.
Il refettorista [modifica]
Il refettorista è incaricato di curare il refettorio, assicurare la pulizia dei luoghi, degli arredi e delle posate. Si occupa anche del lavandino, delle relative tovaglie e, quando necessario, dell'acqua calda.
Il cuciniere [modifica]
Il cuciniere ha la grande responsabilità di fare le porzioni ed evitare sprechi. Fra i suoi collaboratori c'è l'ampor che si occupa degli acquisti all'esterno.
Fra gli altri compiti del cuciniere c'è il mantenimento di un registro delle spese e di un inventario dei beni a sua disposizione da illustrare settimanalmente all'Abate. È anche responsabile della pulizia delle posate e dei locali.
Per i suoi impegni è spesso esentato dai cori.
I frati che servono nel refettorio in turni settimanali sono sotto i suoi ordini. A conclusione dei loro turni, la domenica sera lavano i piedi ai confratelli.
L'infermiere [modifica]
L'infermiere doveva curare amorevolmente deboli e malati e, quando necessario, era esentato dalla partecipazione alle funzioni comuni. Dormiva sempre nell'infermeria, anche quando non c'erano malati, così da essere sempre reperibile in caso di emergenza.
L'elemosiniere [modifica]
L'elemosiniere era incaricato di distribuire le elemosine, in cibo e vestiti, con spirito di carità e discrezione.
Il maestro degli ospiti [modifica]
Nel Medioevo l'ospitalità ai viaggiatori da parte dei monasteri era così frequente che il maestro degli ospiti richiedeva grande tatto, prudenza e discrezione, così come affabilità, poiché la reputazione del monastero era nelle sue mani. Suo primo dovere era di assicurarsi che i locali erano sempre pronti per riceverli, che proprio lui doveva accogliere, secondo quanto espresso dalla Regola, come lo stesso Cristo, e durante la loro permanenza sopperire alle loro necessità, intrattenerli, condurli in chiesa per assistere alle funzioni, ed essere sempre a loro disposizione
Il ciamberlano [modifica]
Il ciamberlano sovrintendeva il guardaroba dei fratelli, il loro rammendo o rinnovo di quelli sdruciti, mettendo da parte quelli non più usati per distribuirli ai poveri. Supervisionava anche la lavanderia ed l'acquisto all'esterno del necessario per il confezionamento degli abiti. Sempre suo compito erano i preparativi per il bagno, il lavaggio dei piedi ed il taglio della barba dei confratelli.
Il maestro dei novizi [modifica]
Il maestro dei novizi era uno dei monaci più importanti. Nella chiesa, nel refettorio, nei chiostro o nel dormitorio sorvegliava i novizi e trascorreva il giorno ammaestrandoli e facendoli esercitare sulle regole e le pratiche tradizionali della vita religiosa, incoraggiando ed aiutando chi dimostrava una reale vocazione.
Il settimanale [modifica]
Il settimanale era incaricato di cominciare tutte le Ore canoniche, dare le benedizioni richieste e cantare nella messa solenne celebrata giornalmente.
I servizi settimanali includevano, oltre a quelli già ricordati, il lettore nel refettorio che era incoraggiato a prepararsi bene al fine di evitare errori durante l'ufficio. C'era anche l'antifono il cui dovere era di intonare la prima antifona dei salmi e guidare la recitazione delle funzioni.
La giornata del monaco [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Rito benedettino.
"Ti ho lodato sette volte al giorno", questo sacro numero di sette si esprime nei momenti di preghiera: Lodi, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta.
Prima dell'alba il monaco si alza al suono della campana e si reca in chiesa per la recita dell'ufficio notturno, che termina con le lodi mattutine.
Al termine di questo spazio di tempo riservato alla preghiera, il monaco inizia il proprio lavoro che non interrompe più sino alla Messa conventuale, centro di tutta l'ufficiatura e punto culminante della vita monastica.
La campana dell'Angelus ricorda l'ora del pranzo: nel refettorio l'Abate benedice la mensa ed il lettore che, come vuole la regola, leggerà un brano di Santa Scrittura durante il pasto.
Dalla lettura ad alta voce deriva naturalmente la legge del silenzio per evitare ogni diminuzione di raccoglimento.
A tavola ed a turni settimanali i monaci si servono a vicenda mentre uno legge la Sacra Scrittura.
Dopo il pranzo c'è un'ora di ricreazione comune. Pare che la ricreazione attuale dei monasteri benedettini non risalga alle origini dell'istituzione monastica, sebbene la Regola di San Benedetto assegnasse già ai monaci qualche momento al giorno per lo scambio delle parole necessarie: comunque, dal IX secolo, la ricreazione è ammessa ovunque ed attualmente avviene due volte al giorno, a mezzogiorno e alla sera.
Al termine della ricreazione i monaci ritornano al loro lavoro.
La campana della cena riunisce di nuovo la comunità monastica per un pasto rapido e frugale, seguito da una breve ricreazione. Quindi il monastero si immerge nel silenzio: è l'ora di compieta, la preghiera della sera, l'ultimo atto della giornata del monaco.
L'abate benedice i monaci e, dopo qualche altra preghiera per i morti o alla Vergine, dopo aver detto "il Signore ci conceda una notte serena ed un riposo tranquillo" tutto tace.
La lunga ed operosa giornata del monaco è chiusa.
Da compieta all'indomani mattina, finito l'ufficio notturno, nessuno può rompere il silenzio senza un grave motivo.
L'organizzazione dell'Ordine [modifica]
I monaci benedettini sono organizzati in monasteri canonicamente autonomi retti da un abate e federati in congregazioni con a capo un abate Presidente.
Attualmente l'ordine è suddiviso in 20 congregazioni (tra parentesi, l'anno della fondazione):
Congregazione Benedettina Cassinese (1408);
Congregazione Benedettina d'Inghilterra (1336);
Congregazione Benedettina di Ungheria (1500);
Congregazione Benedettina di Svizzera (1602);
Congregazione Benedettina d'Austria (1625);
Congregazione Benedettina di Baviera (1684);
Congregazione Benedettina del Brasile (1827);
Congregazione Benedettina di Solesmes (1837);
Congregazione Benedettina Americana Cassinese (1855);
Congregazione Benedettina Sublacense (1872);
Congregazione Benedettina di Beuron (1868);
Congregazione Benedettina Elveto-americana (1881);
Congregazione Benedettina di Sant'Ottilia (1884);
Congregazione Benedettina dell'Annunziata (1920);
Congregazione Benedettina Slava (1945);
Congregazione Benedettina Olivetana (1313);
Congregazione Benedettina Vallombrosana (1039);
Congregazione Camaldolese dell'Ordine di San Benedetto (980);
Congregazione Benedettina Silvestrina (1231);
Congregazione Benedettina della Santa Croce del Cono Sur (1970).
Nel 1893, per volere di papa Leone XIII, le congregazioni e gli altri monasteri dell'ordine non legati a nessuna di esse vennero riuniti in una Confederazione presieduta da un Abate Primate, eletto per dodici anni da tutti gli abati: l'abate Primate risiede presso il monastero di Sant'Anselmo di Roma.
Al 31 gennaio 2005 la confederazione contava 349 tra abbazie e priorati e 7.876 monaci, 4.350 dei quali sacerdoti.[1]
Tra le congregazioni soppresse o estinte si ricordano:
Congregazione Benedettina Cluniacense (931);
Congregazione Camaldolese di Santa Croce di Fonte Avellana (XI secolo);
Congregazione Benedettina di Montevergine (XII secolo);
Congregazione Benedettina dei Celestini (1264);
Congregazione Benedettina Portoghese;
Congregazione Benedettina di Valladolid;
Congregazione Benedettina dei Santi Vitone e Idulfo (1598);
Congregazione Benedettina di San Mauro (1618).
Lo studio ed il lavoro [modifica]
Con i Benedettini la cura del lavoro manuale ed intellettuale creò nel Medioevo una sinergia unica ed irripetibile: studiando i testi antichi recuperarono nozioni ormai dimenticate in campo scientifico ed agricolo che misero a frutto nei loro monasteri e, per imitazione, si diffusero anche fuori.
Ad esempio, è tutta da ascrivere a merito dei Benedettini la rinascita medioevale dell'interesse per la letteratura medica e la coltivazione di erbe medicinali per uso terapeutico. Agli insegnamenti del passato loro aggiunsero la pratica della medicina come dovere etico del cristiano. D'altra parte nella Regola si impone che almeno due monaci in ogni convento siano (dovevano essere) addetti alla cura degli infermi negli stessi locali del convento in una zona non frequentata dai frati. Tra i compiti assegnati ai monaci-medici c'è (c'era) anche il reperimento e lo studio delle opere mediche a disposizione nel convento per poter conseguire l'abilità necessaria per la loro attività.
Esemplare è, in proposito, il caso di Salerno dove, in un monastero nei pressi della città i Benedettini già nell'820 avevano istituito un'infermeria aperta anche all'estero e molto contribuirono alla nascita della famosa Scuola medica salernitana.
Per quanto riguarda l'agricoltura, introdussero la rotazione triennale (il primo riferimento storico è stato rintracciato in un documento del 763 conservato nel Monastero di San Gallo in Svizzera) che consentì di migliorare la resa dei campi, trasformando i monasteri in avviate aziende agricole.
Il progresso tecnico e scientifico era ulteriormente avvantaggiato dalla circolazione delle conoscenze da un monastero all'altro attuato attraverso lo scambio dei testi ricopiati dagli amanuensi.
Per tutte queste ragioni i monasteri benedettini vennero a svolgere un ruolo centrale nella società medioevale accogliendo personalità di primo piano. Così il numero crebbe insieme a quello dei monaci tanto che in quell'epoca non erano rari i monasteri che ospitavano oltre 900 individui ai quali occorre ancora aggiungere i numerosi dipendenti laici e le loro famiglie che vivevano nei paraggi. Considerando, inoltre, che i monasteri Benedettini erano sempre edificati in aree isolate e disabitate, essi spesso mettevano a frutto terreni abbandonati o boschivi da altri ignorati contribuendo ulteriormente alla crescita economia.
Benedettini e Benedettine celebri [modifica]
San Benedetto da Norcia (480circa-547)
Santa Scolastica (480circa-547)
Papa Bonifacio IV (608-615)
Papa Gregorio II (715-731)
Papa Pasquale I (817-824)
Papa Pasquale II (1050-1118)
Papa Gregorio VII (1073-1085)
Papa Vittore III (1086-1087)
Papa Urbano II(1088)
Papa Celestino V (1294)
Papa Clemente VI (1342-1352)
Benedetto d'Aniane (750-821)
Costantino l'Africano (1020 - 1087)
Guido Monaco
John Main
San Gustavo
San Domenico di Sora
San Romualdo
San Giovanni Gualberto
Dom Pérignon
Anselm Grün
Raffaele Stramondo
San Mauro abate
Le abbazie [modifica]
I primi due monasteri dell'ordine (uno maschile ed uno femminile) furono fondati da San Benedetto a Montecassino nel 529. Lui si occupò di quello maschile, mentre il femminile fu posto sotto la guida di Santa Scolastica, sua sorella.
Nel medioevo le più importanti abbazie benedettine italiane furono l'abbazia di Farfa, quella di Nonantola, la Novalesa e quella di San Vincenzo in Volturno; in Germania l'Abbazia di Fulda e quella di Reichenau; in Francia Tours, Saint-Denis e Cluny.
Altri monasteri benedettini italiani:
Abbazia di Monte Cassino
San Paolo Fuori le Mura
Badia Fiorentina
Badia di Cava de Tirreni
Abbazia di Fossanova
Abbazia di Pomposa
Abbazia di Casamari
Abbazia di Chiaravalle
Abbazia di Subiaco
Monastero di San Nicolò l'Arena a Catania
Monastero di San Nicolò l'Arena a Nicolosi
Abbazia dei Santi Nazario e Celso a San Nazzaro Sesia
Abbazia di San Benedetto in Polirone a San Benedetto Po
Badia Leonense
Abbazia di San Martino delle Scale a Monreale
Abbazia di Praglia (Padova)
Benedettini al cinema e nella letteratura [modifica]
Cadfael. Serie di romanzi d'investigazione di Ellis Peters, iniziata nel 1977, si svolge nell'Inghilterra del XII secolo, al tempo della guerra civile fra il re Stephen e la regina Maud, e ha per protagonista il benedettino gallese Cadfael. La televisione britannica ne ha tratto una serie, Cadfael - I misteri dell'abbazia, con protagonista Derek Jacobi.
Il nome della rosa. Romanzo di Umberto Eco, pubblicato nel 1980, si svolge nell'Italia del XIV secolo, in un'abbazia benedettina di fantasia dell'appennino ligure, ma ha per protagonista il frate francescano Guglielmo da Baskerville. Da questo romanzo è stato tratto il film omonimo diretto da Jean-Jacques Annaud con protagonista Sean Connery.
Note [modifica]
^ dati statistici riportati dall'Annuario Pontificio per l'anno 2007, Città del Vaticano, 2007, p. 1452
Voci correlate [modifica]
Rito benedettino
Cenobitismo
Erbe medicinali
Letteratura medica
Monachesimo
Ordini monastici
Collegamenti esterni [modifica]
Sito ufficiale dell'Ordine di San Benedetto
La regola commentata
Confoederatio Benedictina Ordinis Sancti Benedicti, Sito ufficiale della Confederazione Benedettina
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IL LAVORO E S.BENEDETTO
Benedetto da Norcia
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San Benedetto da Norcia
San Benedetto da Norcia, dettaglio dall'affresco di Fra Angelico, San Marco, Firenze.
fondatore del monachesimo
Nascita Norcia 480
Morte Montecassino 547?
Venerato da Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi
Beatificazione
Canonizzazione
Santuario principale
Ricorrenza 21 marzo, 11 luglio
Attributi
Patrono di Europa, Subiaco (RM), Subiaco (Australia),Pomezia, Cassino, Ingegneri
San Benedetto da Norcia (Norcia, 480 circa – monastero di Montecassino, 547 circa) è stato un monaco e santo italiano, fondatore dell'ordine dei Benedettini. Viene venerato da tutte le chiese cristiane che riconoscono il culto dei santi.
San Benedetto da Norcia, fratello gemello di Santa Scolastica, nacque il 12 settembre 480 d.C., in un'agiata famiglia romana. Eutropio Anicio, il padre, era Capitano Generale dei romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Claudia Abondantia Reguardati, contessa di Norcia.
Qui trascorse gli anni dell'infanzia e della fanciullezza, avvertendo l'influsso di coloro che già dal III secolo erano giunti dall'Oriente lungo la valle del Nera e in quella del Campiano. Scampati alle persecuzioni, essi avevano abbracciato una vita di ascesi e di preghiera in diretto contatto con la natura, vivendo in "corone" di celle scavate nella roccia, facenti capo ad una piccola chiesa comune (Laure).
A 12 anni (secondo alcuni) fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi, ma, come racconta san Gregorio Magno nel II Libro de I Dialoghi, sconvolto dalla vita dissoluta della città ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell'immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e cercò l'abito della vita monastica perché desiderava di piacere soltanto a Dio.
All'età di 17 anni, insieme con la sua nutrice, Cirilla, si ritirò nella valle dell'Aniene presso Eufide (l'attuale Affile), dove secondo la leggenda devozionale avrebbe compiuto il primo miracolo riparando un vaglio rotto dalla stessa nutrice. Lasciò poi la nutrice e si avviò verso la valle di Subiaco, presso gli antichi resti di una villa neroniana della quale le acque del fiume Aniene alimentavano tre laghi (la città sorgeva appunto sotto, "sub", questi laghi). A Subiaco incontrò il monaco romano di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato, che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all'interno del Monastero del Sacro Speco) dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell'anno 500. Conclusa l'esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo un tentativo di avvelenamento, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trenta anni, predicando la "parola del Signore" ed accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci ed un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale.
Intorno al 529 a seguito di due tentativi di avvelenamento, il primo materiale con un pane avvelenato e il secondo morale chiamando delle prostitute per tentare i propri figli spirituali da parte di un tal prete Fiorenzo (la sua figura esemplifica l'ostilità del clero locale che Benedetto doveva aver subito), per salvare i propri monaci Benedetto decise di abbandonare Subiaco. Si diresse verso Cassino dove, sopra un'altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di san Giovanni Battista (da sempre ritenuto un modello di pratica ascetica) e di san Martino di Tours che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica.
Indice [nascondi]
1 La regola
2 Il mistero delle reliquie
2.1 Il ritrovamento di una reliquia
3 Bibliografia
4 Voci correlate
5 Altri progetti
6 Collegamenti esterni
La regola [modifica]
Nel monastero di Montecassino Benedetto compose la sua Regola verso il 540. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio (ma anche Pacobio, Cesario e l'Anonimo della Regula Magistri), egli combinò l'insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, nell'intenzione di fondare una scuola del servizio del Signore, in cui speriamo di non ordinare nulla di duro e di rigoroso.
La Regola, dotta e misteriosa sintesi del Vangelo, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci all'interno di una "corale" celebrazione dell'uffizio, diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l'obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso di monaci più o meno "sospetti") e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca e l'obbedienza all'abate, il "padre amoroso" (il nome deriva proprio dal siriaco abba, "padre") mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora ("prega e lavora")
I monasteri che seguono la regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto l'autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense e la congregazione sublacense, originatesi rispettivamente attorno all'autorità dei monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco.
A Montecassino Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l'omaggio dei fedeli in pellegrinaggio e di alcune personalità come Totila re degli Ostrogoti, che il monaco ammonì.
Qui Benedetto morì il 21 marzo 547, quaranta giorni circa dopo la scomparsa di sua sorella Scolastica con la quale ebbe comune sepoltura; secondo la leggenda devozionale spirò in piedi, sostenuto dai suoi discepoli, dopo aver ricevuto la comunione e con le braccia sollevate in preghiera, mentre li benediceva e li incoraggiava.
Le diverse comunità benedettine ricordano la ricorrenza della morte del loro fondatore il 21 marzo, mentre la Chiesa romana ne celebra ufficialmente la festa l'11 luglio, da quando papa Paolo VI ha proclamato san Benedetto da Norcia patrono d'Europa il 24 ottobre 1964. La Chiesa Ortodossa celebra la sua ricorrenza il 14 marzo.
Il mistero delle reliquie [modifica]
Da quando le reliquie erano considerate quasi indispensabili alla comune devozione nel Medioevo, e specialmente ai monaci, era naturale che fossero cercate e "trovate" dappertutto.
Il possesso della salma di san Benedetto è stato disputato per molti secoli (e in un certo senso è disputato ancora) tra Montecassino e Fleury-sur-Loire (detto anche Saint Benoît sur Loire) in Francia. Secondo il processo verbale circa la ricognizione delle reliquie del 9, 10 e 11 luglio 1881, firmato dal vescovo di Orléans e redatto dall'abate di Fleury, Dom Edmondo Sejourne, la maggior parte delle ossa attribuite a san Benedetto si trovano collocate nella grande teca del monastero di Fleury sur Loire; salvo una mandibola conservata in un reliquiario speciale, e un frammento importante della regione pareto-occipitale del cranio posto anch'esso in un reliquiario particolare. Si possono ricollegare altre reliquie a questo insieme di resti scheletrici, prelevate in diversi tempi da questo insieme, e perfettamente autenticate[senza fonte]. Ad esempio: un frammento di costola (Benedettine del Calvario di Orléans), altro frammento di costola (Benedettine del Santo-Sacramento di Parigi), estremità superiore di un radio sinistro (Grande seminario di Orléans), parte inferiore di un radio destro e parte inferiore di un perone sinistro (tutti due all'abbazia della Pierre-qui-Vire), frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Santa Marie di Parigi), estremità inferiore di una radio sinistro (abbazia di Saint-Wandrille), frammento di falange dell'alluce sinistro (abbazia Notre Dame de la Garde), frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Timadeuc), rotula sinistra (abbazia di Aiguebelle), frammento di omero sinistro (abbazia della Grande Trappe). Secondo i monaci benedettini di Montecassino, invece, le reliquie autentiche sono sempre restate a Montecassino.
Il ritrovamento di una reliquia [modifica]
Lo studioso e monaco benedettino Jean Mabillon (Saint-Pierremont, 1632 - Parigi, 1707) pubblicò nel 1685 la seguente narratio brevis ricavata da un manoscrittomedievale del monastero di San Emmeram situato a Ratisbona, che egli giudicò vecchio di 900 anni e perciò contemporaneo con la "traslazione" del corpo del santo.
« Nel nome di Cristo. C'era in Francia, grazie alla provvidenza di Dio, un Prete dotto che intraprese un viaggio in Italia, per poter scoprire dove fossero le ossa del nostro santo padre Benedetto, che nessuno più venerava. [Montecassino, monastero fondato da S. Benedetto su un rilievo roccioso dell'Appennino tra Roma e Napoli, era stato distrutto dai Longobardi nel 580 circa, e rimase disabitato fino a 718 ndr]. Alla fine giunse in una campagna abbandonata a circa 70 o 80 miglia da Roma, dove S. Benedetto anticamente aveva costruito un convento nel quale tutti erano uniti da una carità perfetta. A questo punto questo Prete ed i suoi compagni erano inquietati dall'insicurezza del luogo, dato che non erano in grado di trovare né le vestigia del convento, né quelle di un luogo di sepoltura, fino a quando finalmente un guardiano di suini indicò loro esattamente dove il convento era stato eretto; tuttavia fu del tutto incapace di individuare il sepolcro finché lui ed i suoi compagni non si furono santificati con due o tre giorni di digiuno. Allora il loro cuoco ebbe una rivelazione in un sogno, e la questione apparve loro chiara poiché al mattino fu mostrato loro, da colui che era sembrato più infimo di grado, che le parole di S. Paolo sono vere (I Cor. 1, 27): "Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti" o di nuovo, come il Signore stesso ha predetto (Matt. 20: 26): "Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo". Allora, ispezionando il luogo con maggiore diligenza, trovarono una lastra di marmo che dovettero tagliare. Finalmente, spezzata la lastra, rinvennero le ossa di S. Benedetto e, sotto un'altra lastra, quelle di suoi sorella; poiché (come pensiamo) il Dio onnipotente e misericordioso volle che fossero uniti nel sepolcro come lo furono in vita, in amore fraterno ed in carità cristiana. Dopo avere raccolto e pulito queste ossa le avvolsero, una ad una, in un fine e candido tessuto, per portarle nel loro paese. Non fecero menzione del ritrovamento ai Romani per paura che, se questi avessero saputo la verità, indubbiamente non avrebbero mai tollerato che reliquie così sante fossero sottratte al loro paese senza conflitti o guerre di reliquia, il che Dio ha reso manifesto, affinché gli uomini potessero vedere come grande era il loro bisogno di religione e santità, mediante il seguente miracolo. Avvenne cioè che, dopo un po', il lino che avvolgeva queste ossa fu trovato rosso del sangue del santo, come da ferite aperte di un essere vivente. Dalla qual cosa Gesù Cristo ha inteso mostrare che colui a cui appartengono quelle ossa è così glorioso che avrebbe vissuto veramente con Lui nel mondo a venire. Allora furono poste sopra un cavallo che le portò durante tutto quel lungo viaggio così agevolmente che non sembrava ci fosse nessun carico. Inoltre, quando attraversavano foreste o percorrevano strade strette, non c'era albero che ostruisse il cammino od asperità del percorso che impedissero loro di proseguire il viaggio; così che i viaggiatori hanno visto chiaramente come questo potesse avvenire grazie ai meriti di S. Benedetto e di sua sorella S. Scolastica, affinché il loro viaggio potesse essere sicuro e felice fino al regno di Francia ed al convento di Fleury. In questo monastero sono seppelliti ora in pace, finché sorgeranno nella gloria nell'Ultimo Giorno; e qui conferiscono benefici su tutti coloro che pregano il Padre tramite Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che vive e regna nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen. »
(Mabillon: Vetera Analecta, vol. IV, 1685, pag. 451-453))
.
Comunque sia la presenza delle reliquie, è certo che un culto di san Benedetto esisteva già a Montecassino fin dalla fine dell'VIII secolo, come testimoniano i quattro calendari pubblicati da Dom Morin che menzionano tutti la festa del 21 marzo. E la dedica di un altare a san Benedetto il 3 giugno nell'oratorio di San Giovanni Battista, menzionata da tre di questi calendari, permette di aggiungere che un culto esisteva già sul luogo che San Benedetto aveva scelto per essere inumato e dove il suo corpo tornò in polvere, luogo che resterà sempre santo e venerabile per ogni figlio del santo Patriarca.
Bibliografia [modifica]
Adalbert de Vogüé O.S.B.,"San Benedetto - Uomo di Dio"– Ed. San Paolo, 1999, ISBN 88-215-3870-2
Gregorio Magno, Vita di san Benedetto e la Regola, ed. Città nuova, 2001, ISBN 88-311-1403-4
(DE) Anselm Grün, Benedikt von Nursia, Freiburg in Breisgau 2006
Adalbert de Vogüé: Art. Benedikt von Nursia. In: Theologische Realenzyklopädie 5 (1980), S. 538-549
Benedikt von Nursia: Die Regel des heiligen Benedikt. Beuroner Kunstverlag, Beuron 1990. ISBN 3-87071-060-8
Heinrich Suso Mayer: Benediktinisches Ordensrecht in der Beuroner Kongregation. Beuron 1929 ff.
Raphael Molitor: Aus der Rechtsgeschichte benediktinischer Verbände - Untersuchungen und Skizzen. Münster 1929 ff.
Gregor der Große: Der Heilige Benedikt, Buch II der Dialoge. EOS Verlag, St. Ottilien 1995. ISBN 3-88096-730-X
SS. Patriarchae Benedicti Familiae Confoederatae: Catalogus Monasteriorum O.S.B., Editio XIX 2000. Centro Studi S. Anselmo, Rom 2000
Anselm Grün, Benedikt von Nursia, Freiburg in Breisgau 2006
Autour de saint Benoît. Aldebert de Vogüe. Vie Monastique n°4, Abbaye de Bellefontaine, 1975.
Saint Benoît. Dom Ildefons Herwegen, abbé de Maria Laach. Desclée de Brouwer. 1980 pour le 1500e anniversaire de la naissance saint Benoît.
Jacques de Voragine, La Légende dorée, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, 2004, publication sous la direction d'Alain Boureau.
Voci correlate [modifica]
Ordine di San Benedetto
Altri progetti [modifica]
Wikisource
Wikisource contiene opere originali di o su Benedictus de Nursia
Commons
Wikimedia Commons contiene file multimediali su Benedetto da Norcia
Collegamenti esterni [modifica]
(IT, LA) La Regola di San Benedetto - Testo critico
(IT) Ora-et-labora.net - Sito dedicato a San Benedetto
(IT) osbnorcia - Sito del monastero di San Benedetto
(IT) BenedettiniSubiaco - Sito dei Monasteri Benedettini di Subiaco
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San Benedetto da Norcia
San Benedetto da Norcia, dettaglio dall'affresco di Fra Angelico, San Marco, Firenze.
fondatore del monachesimo
Nascita Norcia 480
Morte Montecassino 547?
Venerato da Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi
Beatificazione
Canonizzazione
Santuario principale
Ricorrenza 21 marzo, 11 luglio
Attributi
Patrono di Europa, Subiaco (RM), Subiaco (Australia),Pomezia, Cassino, Ingegneri
San Benedetto da Norcia (Norcia, 480 circa – monastero di Montecassino, 547 circa) è stato un monaco e santo italiano, fondatore dell'ordine dei Benedettini. Viene venerato da tutte le chiese cristiane che riconoscono il culto dei santi.
San Benedetto da Norcia, fratello gemello di Santa Scolastica, nacque il 12 settembre 480 d.C., in un'agiata famiglia romana. Eutropio Anicio, il padre, era Capitano Generale dei romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Claudia Abondantia Reguardati, contessa di Norcia.
Qui trascorse gli anni dell'infanzia e della fanciullezza, avvertendo l'influsso di coloro che già dal III secolo erano giunti dall'Oriente lungo la valle del Nera e in quella del Campiano. Scampati alle persecuzioni, essi avevano abbracciato una vita di ascesi e di preghiera in diretto contatto con la natura, vivendo in "corone" di celle scavate nella roccia, facenti capo ad una piccola chiesa comune (Laure).
A 12 anni (secondo alcuni) fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi, ma, come racconta san Gregorio Magno nel II Libro de I Dialoghi, sconvolto dalla vita dissoluta della città ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell'immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e cercò l'abito della vita monastica perché desiderava di piacere soltanto a Dio.
All'età di 17 anni, insieme con la sua nutrice, Cirilla, si ritirò nella valle dell'Aniene presso Eufide (l'attuale Affile), dove secondo la leggenda devozionale avrebbe compiuto il primo miracolo riparando un vaglio rotto dalla stessa nutrice. Lasciò poi la nutrice e si avviò verso la valle di Subiaco, presso gli antichi resti di una villa neroniana della quale le acque del fiume Aniene alimentavano tre laghi (la città sorgeva appunto sotto, "sub", questi laghi). A Subiaco incontrò il monaco romano di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato, che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all'interno del Monastero del Sacro Speco) dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell'anno 500. Conclusa l'esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo un tentativo di avvelenamento, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trenta anni, predicando la "parola del Signore" ed accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci ed un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale.
Intorno al 529 a seguito di due tentativi di avvelenamento, il primo materiale con un pane avvelenato e il secondo morale chiamando delle prostitute per tentare i propri figli spirituali da parte di un tal prete Fiorenzo (la sua figura esemplifica l'ostilità del clero locale che Benedetto doveva aver subito), per salvare i propri monaci Benedetto decise di abbandonare Subiaco. Si diresse verso Cassino dove, sopra un'altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di san Giovanni Battista (da sempre ritenuto un modello di pratica ascetica) e di san Martino di Tours che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica.
Indice [nascondi]
1 La regola
2 Il mistero delle reliquie
2.1 Il ritrovamento di una reliquia
3 Bibliografia
4 Voci correlate
5 Altri progetti
6 Collegamenti esterni
La regola [modifica]
Nel monastero di Montecassino Benedetto compose la sua Regola verso il 540. Prendendo spunto da regole precedenti, in particolare quelle di san Giovanni Cassiano e san Basilio (ma anche Pacobio, Cesario e l'Anonimo della Regula Magistri), egli combinò l'insistenza sulla buona disciplina con il rispetto per la personalità umana e le capacità individuali, nell'intenzione di fondare una scuola del servizio del Signore, in cui speriamo di non ordinare nulla di duro e di rigoroso.
La Regola, dotta e misteriosa sintesi del Vangelo, nella quale si organizza nei minimi particolari la vita dei monaci all'interno di una "corale" celebrazione dell'uffizio, diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente. I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l'obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso di monaci più o meno "sospetti") e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca e l'obbedienza all'abate, il "padre amoroso" (il nome deriva proprio dal siriaco abba, "padre") mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora ("prega e lavora")
I monasteri che seguono la regola di san Benedetto sono detti benedettini. Anche se ogni monastero è autonomo sotto l'autorità di un abate, si organizzano normalmente in confederazioni monastiche, delle quali le più importanti sono la congregazione cassinense e la congregazione sublacense, originatesi rispettivamente attorno all'autorità dei monasteri benedettini di Montecassino e di Subiaco.
A Montecassino Benedetto visse fino alla morte, ricevendo l'omaggio dei fedeli in pellegrinaggio e di alcune personalità come Totila re degli Ostrogoti, che il monaco ammonì.
Qui Benedetto morì il 21 marzo 547, quaranta giorni circa dopo la scomparsa di sua sorella Scolastica con la quale ebbe comune sepoltura; secondo la leggenda devozionale spirò in piedi, sostenuto dai suoi discepoli, dopo aver ricevuto la comunione e con le braccia sollevate in preghiera, mentre li benediceva e li incoraggiava.
Le diverse comunità benedettine ricordano la ricorrenza della morte del loro fondatore il 21 marzo, mentre la Chiesa romana ne celebra ufficialmente la festa l'11 luglio, da quando papa Paolo VI ha proclamato san Benedetto da Norcia patrono d'Europa il 24 ottobre 1964. La Chiesa Ortodossa celebra la sua ricorrenza il 14 marzo.
Il mistero delle reliquie [modifica]
Da quando le reliquie erano considerate quasi indispensabili alla comune devozione nel Medioevo, e specialmente ai monaci, era naturale che fossero cercate e "trovate" dappertutto.
Il possesso della salma di san Benedetto è stato disputato per molti secoli (e in un certo senso è disputato ancora) tra Montecassino e Fleury-sur-Loire (detto anche Saint Benoît sur Loire) in Francia. Secondo il processo verbale circa la ricognizione delle reliquie del 9, 10 e 11 luglio 1881, firmato dal vescovo di Orléans e redatto dall'abate di Fleury, Dom Edmondo Sejourne, la maggior parte delle ossa attribuite a san Benedetto si trovano collocate nella grande teca del monastero di Fleury sur Loire; salvo una mandibola conservata in un reliquiario speciale, e un frammento importante della regione pareto-occipitale del cranio posto anch'esso in un reliquiario particolare. Si possono ricollegare altre reliquie a questo insieme di resti scheletrici, prelevate in diversi tempi da questo insieme, e perfettamente autenticate[senza fonte]. Ad esempio: un frammento di costola (Benedettine del Calvario di Orléans), altro frammento di costola (Benedettine del Santo-Sacramento di Parigi), estremità superiore di un radio sinistro (Grande seminario di Orléans), parte inferiore di un radio destro e parte inferiore di un perone sinistro (tutti due all'abbazia della Pierre-qui-Vire), frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Santa Marie di Parigi), estremità inferiore di una radio sinistro (abbazia di Saint-Wandrille), frammento di falange dell'alluce sinistro (abbazia Notre Dame de la Garde), frammento della parte centrale di un osso lungo (abbazia di Timadeuc), rotula sinistra (abbazia di Aiguebelle), frammento di omero sinistro (abbazia della Grande Trappe). Secondo i monaci benedettini di Montecassino, invece, le reliquie autentiche sono sempre restate a Montecassino.
Il ritrovamento di una reliquia [modifica]
Lo studioso e monaco benedettino Jean Mabillon (Saint-Pierremont, 1632 - Parigi, 1707) pubblicò nel 1685 la seguente narratio brevis ricavata da un manoscrittomedievale del monastero di San Emmeram situato a Ratisbona, che egli giudicò vecchio di 900 anni e perciò contemporaneo con la "traslazione" del corpo del santo.
« Nel nome di Cristo. C'era in Francia, grazie alla provvidenza di Dio, un Prete dotto che intraprese un viaggio in Italia, per poter scoprire dove fossero le ossa del nostro santo padre Benedetto, che nessuno più venerava. [Montecassino, monastero fondato da S. Benedetto su un rilievo roccioso dell'Appennino tra Roma e Napoli, era stato distrutto dai Longobardi nel 580 circa, e rimase disabitato fino a 718 ndr]. Alla fine giunse in una campagna abbandonata a circa 70 o 80 miglia da Roma, dove S. Benedetto anticamente aveva costruito un convento nel quale tutti erano uniti da una carità perfetta. A questo punto questo Prete ed i suoi compagni erano inquietati dall'insicurezza del luogo, dato che non erano in grado di trovare né le vestigia del convento, né quelle di un luogo di sepoltura, fino a quando finalmente un guardiano di suini indicò loro esattamente dove il convento era stato eretto; tuttavia fu del tutto incapace di individuare il sepolcro finché lui ed i suoi compagni non si furono santificati con due o tre giorni di digiuno. Allora il loro cuoco ebbe una rivelazione in un sogno, e la questione apparve loro chiara poiché al mattino fu mostrato loro, da colui che era sembrato più infimo di grado, che le parole di S. Paolo sono vere (I Cor. 1, 27): "Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti" o di nuovo, come il Signore stesso ha predetto (Matt. 20: 26): "Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo". Allora, ispezionando il luogo con maggiore diligenza, trovarono una lastra di marmo che dovettero tagliare. Finalmente, spezzata la lastra, rinvennero le ossa di S. Benedetto e, sotto un'altra lastra, quelle di suoi sorella; poiché (come pensiamo) il Dio onnipotente e misericordioso volle che fossero uniti nel sepolcro come lo furono in vita, in amore fraterno ed in carità cristiana. Dopo avere raccolto e pulito queste ossa le avvolsero, una ad una, in un fine e candido tessuto, per portarle nel loro paese. Non fecero menzione del ritrovamento ai Romani per paura che, se questi avessero saputo la verità, indubbiamente non avrebbero mai tollerato che reliquie così sante fossero sottratte al loro paese senza conflitti o guerre di reliquia, il che Dio ha reso manifesto, affinché gli uomini potessero vedere come grande era il loro bisogno di religione e santità, mediante il seguente miracolo. Avvenne cioè che, dopo un po', il lino che avvolgeva queste ossa fu trovato rosso del sangue del santo, come da ferite aperte di un essere vivente. Dalla qual cosa Gesù Cristo ha inteso mostrare che colui a cui appartengono quelle ossa è così glorioso che avrebbe vissuto veramente con Lui nel mondo a venire. Allora furono poste sopra un cavallo che le portò durante tutto quel lungo viaggio così agevolmente che non sembrava ci fosse nessun carico. Inoltre, quando attraversavano foreste o percorrevano strade strette, non c'era albero che ostruisse il cammino od asperità del percorso che impedissero loro di proseguire il viaggio; così che i viaggiatori hanno visto chiaramente come questo potesse avvenire grazie ai meriti di S. Benedetto e di sua sorella S. Scolastica, affinché il loro viaggio potesse essere sicuro e felice fino al regno di Francia ed al convento di Fleury. In questo monastero sono seppelliti ora in pace, finché sorgeranno nella gloria nell'Ultimo Giorno; e qui conferiscono benefici su tutti coloro che pregano il Padre tramite Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che vive e regna nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen. »
(Mabillon: Vetera Analecta, vol. IV, 1685, pag. 451-453))
.
Comunque sia la presenza delle reliquie, è certo che un culto di san Benedetto esisteva già a Montecassino fin dalla fine dell'VIII secolo, come testimoniano i quattro calendari pubblicati da Dom Morin che menzionano tutti la festa del 21 marzo. E la dedica di un altare a san Benedetto il 3 giugno nell'oratorio di San Giovanni Battista, menzionata da tre di questi calendari, permette di aggiungere che un culto esisteva già sul luogo che San Benedetto aveva scelto per essere inumato e dove il suo corpo tornò in polvere, luogo che resterà sempre santo e venerabile per ogni figlio del santo Patriarca.
Bibliografia [modifica]
Adalbert de Vogüé O.S.B.,"San Benedetto - Uomo di Dio"– Ed. San Paolo, 1999, ISBN 88-215-3870-2
Gregorio Magno, Vita di san Benedetto e la Regola, ed. Città nuova, 2001, ISBN 88-311-1403-4
(DE) Anselm Grün, Benedikt von Nursia, Freiburg in Breisgau 2006
Adalbert de Vogüé: Art. Benedikt von Nursia. In: Theologische Realenzyklopädie 5 (1980), S. 538-549
Benedikt von Nursia: Die Regel des heiligen Benedikt. Beuroner Kunstverlag, Beuron 1990. ISBN 3-87071-060-8
Heinrich Suso Mayer: Benediktinisches Ordensrecht in der Beuroner Kongregation. Beuron 1929 ff.
Raphael Molitor: Aus der Rechtsgeschichte benediktinischer Verbände - Untersuchungen und Skizzen. Münster 1929 ff.
Gregor der Große: Der Heilige Benedikt, Buch II der Dialoge. EOS Verlag, St. Ottilien 1995. ISBN 3-88096-730-X
SS. Patriarchae Benedicti Familiae Confoederatae: Catalogus Monasteriorum O.S.B., Editio XIX 2000. Centro Studi S. Anselmo, Rom 2000
Anselm Grün, Benedikt von Nursia, Freiburg in Breisgau 2006
Autour de saint Benoît. Aldebert de Vogüe. Vie Monastique n°4, Abbaye de Bellefontaine, 1975.
Saint Benoît. Dom Ildefons Herwegen, abbé de Maria Laach. Desclée de Brouwer. 1980 pour le 1500e anniversaire de la naissance saint Benoît.
Jacques de Voragine, La Légende dorée, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, 2004, publication sous la direction d'Alain Boureau.
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domenica 10 maggio 2009
venerdì 8 maggio 2009
IDI DI MARZO
L'Affare Moro: un caso divenuto storico
(gewollt erfolglos)
Le nuove scoperte a vent'anni dalla strage[ libro_ospiti forum mappa post-mail i vostri links cartolina foto-slideshow ]
Pellegrino (29 maggio 1999): «Siamo vicini ad una svolta, so cose che non posso
dire e che non direi neppure in seduta segreta alla commissione stragi»“.[1]
Indice (pross.mente cliccabile e seperato in un singolo frame)Le radici di Gladio – Un esempio di trasformismo _2Il perché del rapimento della persona di Moro. Un confronto tra le Br e il figlio dello statista Giovanni Moro _4La SIP e la SIP parallela _5Il "commando d'ombra", il "doppio stato", la P2 e i suoi infiltrati _6Le spie, gli infiltristi nelle Brigate rosse e la Moto Honda _9Markevitch, i partigiani, i partigiani finti infiltrati e il ruolo di Dalla Chiesa _11Il ruolo di Igor Markevitch fa riscrivere un capitolo? _12I possibili mandanti dell'assassinio di Moro, le "menti misteriose" _131. Le foto scattate dall?operaio Gerardo Lucci _132. In quanti erano in via Fani? _133. La richiesta delle foto _135. Le due parti separate delle Brigate rosse. _1410. "Più in alto" – La domanda ai santi _2011. L'aiuto negato _2012. Il rapimento anticipato _2113. I probabili mandanti – le forze oscure _2114. Guido Passalacqua, giornalista de La Repubblica sulla pista della falsa scuola di lingua per le Br _22Il ruolo della Chiesa cattolica _22Sulle tracce della nuova prigione nel ghetto - Mino Pecorelli ne parlò allusivamente su ?OP? _22Il partito della trattativa e il partito della fermezza; gli autogol visti da Pellegrino e Cipriani _25Gli Autogol secondo Cipriani _26Gli appartamenti di via Gradoli ed il ruolo del Sisde _27Il ruolo del Magistrato Luciano Infelisi _27Mino Pecorelli, l'OP, Dalla Chiesa e il ruolo del divo e Belzebú Giulio Andreotti _27Le "carte di Moro" e il delitto Pecorelli. Le dichiarazioni di Antonio Mancini _31Il ruolo del superpentito Buscetta _32Il processo Pecorelli a Perugia _33Il presidente della commissione Stragi Pellegrino e le sue tesi _34L'affermazione del giudice istruttore Ferdinando Imposimato, nei primi due processi Moro del 20 marzo 1999 _3520 marzo 1999 Il Tirreno pubblica un articolo sull'audizione di Flaminio Piccoli del 30 ottobre 1991, desecretata pochi giorni prima. _35Attualità - L'Anfitrione di Firenze, il 'Grande Vecchio' e il fumetto Metropoli _37L'Espresso del 10 giungo Br e Prima Repubblica / una testimonianza - Grande vecchio, I presume riscavando nella storia contemporanea, fa emergere il nome _37Conclusione _39Bibliografia _ home [paginaitaliana]
Quelle vicende di quasi ventuno anni fa sono scolpite nella memoriacollettiva e chi li visse non potrà più dimenticare i fatti inquietantiche segnarono i cinquantacinque giorni dalla strage di via Fani alritrovamento del cadavere dello statista democristiano, un corporannicchiato dentro una Renault R 4 rossa, parcheggiatasimbolicamente a metà strada tra via delle Botteghe Oscuree Piazza del Gesù, tra la sede della DC equella del PCI, in via Caetani.
Il presente lavoro cerca di ricostruirne le dinamiche utilizzando la grande ricchezza di fonti d’informazioni, nomi, luoghi, intrecci e fatti storico-politici. Le possibilità offerte dall’ipertesto fa del presente elaborato un lavoro che è continuamente possibile aggiornare, attraverso la rete si arriva, tramite links, direttamente su altri lavori dello stesso genere e si può offrire così un servizio gratuito a tutti gli utenti ovunque nel mondo. Si è cercato qui di integrare le fonti multimediali per rendere alcune sfumature ed immagini più facilmente recepibili.
Il rapimento dell’on. Aldo Moro ebbe tempi d´incubazione molto lunghi, Laura Braghetti ne parlò a fine novembre nel processo Moro quarter. Nel 1977 ella ricevette l’ordine dai suoi capi nelle Brigate rosse di acquistare un appartamento. Le istruzioni descrivevano precisamente le caratteristiche dell’appartamento che le Br avevano in mente. Le fu detto che sarebbe servito “ad un'azione delle Brigate rosse molto importante”. (Drake, p. 262).
Anche tra forze diverse dalle Br come il "partito occulto" P2 presumibilmente si compivano allo stesso modo i preparativi.
Poco prima del rapimento Moro erano stati sciolti apparati antiterrorismo come l’ispettorato antiterrorismo del questore Santillo ed il nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa, lasciando scoperta un’attività di intelligence assai importante. “Di chi fu l’iniziativa?” si chiede Paolo Bolognesi, vice presidente Associazione familiari vittime strage Bologna del 2 Agosto 1980.[2]
[Il documento e' stato terminato alla fine di giugno 1999e messo in rete il 31 gennaio 2000. Pross.mente lavoreròper una migliore userbility del documento ipertestuale.Nel frattempo abbiate un po' di pazienza!] inizioLe radici di Gladio – Un esempio di trasformismo
La parola Gladio deriva da un’antica spada corta usata dagli antichi romani. Nel 1942 il servizio segreto americano offrì al prigioniero super-mafioso Charles "Lucky" Luciano (detto Teflon-Lucky) la libertà, in cambio egli dovette riprendere i contatti con le vecchie amicizie in Sicilia. Grazie a queste ritrovate amicizie si preparò in Sicilia, l’anno seguente, lo sbarco degli alleati americani. Gli USA e i mafiosi siciliani diedero così inizio ad una lunga collaborazione. L’"Office of Strategic Services" (OSS), dopo CIA, si mise in contatto con i Cavalieri di Malta, che erano legati strettamente alla Chiesa cattolica. Cavaliere era, tra l’altro, il capo del OSS, William "Wild Bill" Donovan come anche il capo della CIA, William Casey. Figura chiave tra i cavalieri era lo stesso Licio Gelli, fondatore della Propaganda Due. Solo la fuga nelle mani dell’US-Army lo salvò dalla giustizia dei partigiani, egli aveva collaborato con i fascisti tedeschi, era diventato sottotenente delle SS naziste e spiava i partigiani e li denunciava ai tedeschi. Comunicava ai nazisti i nascondigli della Resistenza e poi avvertiva gli stessi partigiani consentendo loro di mettersi in salvo. Quindi un ufficiale di collegamento che presto si specializzò nel doppiogioco come scrive Coglitore.
Prima reclutato dalla "Counter Intelligence Corps" (CIC), poi nel 1950 dalla SIFAR Gelli diventò la figura chiave nei rapporti tra la CIA ed il primo capo del servizio segreto italiano, generale Giovanni De Lorenzo.[3] Subito dopo la seconda guerra mondiale, i servizi segreti italiani si sciolsero. Gli agenti del’OSS, di cui uno divenne capo della CIA, crearono una rete segreta che avrebbe costituito la base sulla quale sarebbe nata GLADIO. Miliardi di dollari cominciarono ad arrivare in Italia fin dall’inizio degli anni cinquanta. Nel 1949 l’Italia faceva parte della NATO, nacquero quindi il "Servizio Informazioni Forze Armata" (SIFAR), ad opera della CIA e del coordinamento della NATO. Nel 1956 il generale De Lorenzo diventa capo del SIFAR e grazie all’appoggio degli americani GLADIO nasce in quest’anno sotto il suo commando con “l’ufficio R" (come "Ricerche"). Nello stesso 1956 egli passò direttamente alle dipendenze dei servizi segreti italiani.[4]
Il nuovo servizio segreto nasce con gli ex-fascisti. Un primo piano di Strage di stato ("Piano Solo") sotto il generale De Lorenzo richiese una totale riorganizzazione.[5] Nasce il "Servizio Informazioni Difesa" (SID). Ad opera della SID furono compiute negli anni settanta innumerevoli stragi. Proprio nel 1977 si trasforma essa in SISDE ("Servizio Informazioni Sicurezza Democratica”) servizio che fece parte del Ministero dell'Interno e SISMI ("Servizio Informazioni Sicurezza Militare"). I nodi di collegamento rimangono gli stessi. Il capo della SISMI, Santoviti, e loggista della P2 come il suo sostituto Pietro Musumeci, vennero, come anche Gelli condannati per la strage della stazione di Bologna nel 1980.
31 Maggio 1972: vicino Trieste morirono tre Carabinieri a causa di un’autobomba. Grazie al magistrato Felice Casson, che riprese il processo nel 1990 fu scoperto lo scandalo di GLADIO.[6]
Ma tutto cominciò con una trasmissione del tg1 del luglio 1990, durante la quale il giornalista Ennio Remondino (oggi inviato Rai all'estero e allora in ricordo per le interviste, piene di retoriche domande a Curcio, Moretti e Faranda) intervista un agente della CIA, ben disposto a fare una serie di rivelazioni sconcertanti sui rapporti tra CIA, la destra italiana e la massoneria. Seppure una piccola parte della complessa struttura delle istituzionali italiane crolla, anche se con molto rumore. L'allora Presidente della Repubblica, Cossiga, si rivolge direttamente al direttore generale della Rai e chiede la testa del giornalista e del direttore del tg1.
Nuccio Fava, effettivamente rimosso dall'incarico a favore del più andreottiano Bruno Vespa.[7]
Vengono accusati il capo della SISMI, il loggista della P2 Santoviti. Alcuni membri di "Ordine Nuovo" furono condannati perché ritenuti responsabili. Il materiale della bomba si scoprì proveniente dai depositi di GLADIO. L’esperto Marco Morin, anche lui membro di "Ordine Nuovo", mise - con una falsa perizia – sulle tracce delle Br.
GLADIO riuscì a presentare alla giustizia, in veste di perito di armi, uno dei suoi, Marco Morin per ben due processi, cioè quello di Aldo Moro e quello del caso Dalla Chiesa. Un pentito mafioso Cessina preciserà in seguito in tribunale di aver sempre sentito dire, all’interno di Cosa Nostra, che uno dei canali per arrivare ad Andreotti era la Massoneria. Un altro cerchio si sta per chiudere.
Al processo di Perugia si cerca, ancora oggi, di capire quale fu il ruolo di Giulio Andreotti nel caso Aldo Moro e nel delitto Pecorelli.
inizio
Il perché del rapimento della persona di Moro. Un confronto tra le Br e il figlio dello statista Giovanni Moro
Per i brigatisti, come hanno più volte raccontato, la figura di Moro rappresentava il simbolo di quello Stato Democratico tanto aborrito. La macchina del sequestro, dell’interrogatorio fu messa in moto dai brigatisti non per ostacolare la formazione del governo di solidarietà nazionale, premessa del compromesso storico di cui Moro era fra gli ideatori, progettato per quel 16 marzo 1978 e che comunque andò in porto, ma perché le BR consideravano la DC facente parte del SIM, “Stato imperialista delle multinazionali” ed il così detto “compromesso storico” con il partito comunista al governo, strumento per manovrare la macchina di questo superpotere capitalista.
Con il fatto che alla base dei motivi del rapimento di Aldo Moro ci fosse il riconoscimento nella sua persona del simbolo dello Stato della DC non è d’accordo il figlio dello statista, Giovanni Moro, il quale dichiara:
“C’è una verità storica e riguarda il perché Moro: Abbiamo detto che si volle sventare un progetto politico [...] Molti dicono che Moro era un simbolo. No, era il catalizzatore, per non dire il demiurgo di un’operazione politica. E l’hanno fermato per questo, altro che simbolo... Poi c’è una verità politica. Che riguarda il comportamento dei partiti. In particolare della Dc e del Pci, d’accordo nella decisione di darlo morto fin dal primo giorno”.[8]
A salvare la vita di Moro sarebbe bastato, come afferma la Faranda, il riconoscimento delle Br come interlocutori politici. Un altro brigatista, Franceschini ricorda che loro, in altre parole le Br della prima ora, avrebbero offerto allo stato “mille soluzioni” come la liberazione di un prigionero in Uruguay, la liberazione di un prigioniero ammalato, ecc. Ma il sistema politico italiano non voleva trovare e far trovare una soluzione come sostiene pure il capo-mafia Cutolo in un’intervista. Tuttavia c’è chi, come Sabbatucci, sostiene che è molto improbabile che lo Stato potesse avere gli estremi per trattare, che la classe dirigente potesse compromettersi agli occhi dell’opinione pubblica e intavolare le trattative coi brigatisti.[9] Apparentemente più fondata appare la posizione di coloro che sostennero la linea della trattativa, i così detti trattativisti, che sarebbero state sufficienti poche concessioni, anche di facciata, a salvare la vita dello statista.[10] Ma un successo delle Br, anche simbolico, avrebbe prolungato la vita del fenomeno terroristico e avrebbe bloccato la valanga di pentimenti che di lì a poco si sarebbe scatenata.
E ancora Giorgio Bocca afferma:
“se non si vuol credere, come ha detto Moretti, che alcuni giovani di poca cultura e di pochi mezzi abbiano messo in fibrillazione lo Stato, se si vuol continuare a mettere assieme romanzi polizieschi sulla vicenda lo si faccia, si continui pure all'infinito.”[11]
inizio
La SIP e la SIP parallela
È utile cominciare con quello che avvenne il 15 marzo 1978, giorno precedente il rapimento di Moro: la SIP, o meglio quella che verrà in seguito ipotizzata come la SIP parallela, una struttura segreta esistente all’interno dell’azienda, venne messa in allarme. Verso le ore nove e qualche minuto del mattino del giorno seguente in via Fani è black-out dei telefoni. Una squadra della SIP viene immediatamente mandata sul luogo, i tecnici confermano, ma l’azienda assurdamente smentisce il fatto. È inutile precisare che l’interruzione delle linee telefoniche era di vitale importanza per l’esito del rapimento, nessuno anche tra gli abitanti della strada avrebbe così potuto telefonare alla polizia e avvertire dell’accaduto raccontando circostanze e particolari. A partire da questo episodio si susseguono, durante i 55 giorni di prigionia dell’on. Moro, strane quanto improbabili coincidenze legate all’azienda dei telefoni: il 14 aprile, alla redazione del Messaggero, è attesa una telefonata dei rapitori, vengono così raccordate in un locale della polizia, per poter stabilire la derivazione, le sei linee della redazione del giornale, ma al momento della chiamata la DIGOS accerta l’interruzione di tutte e sei le linee di derivazione e non può risalire al telefonista. L’allora capo della DIGOS parla, nelle sue dichiarazioni agli inquirenti, di totale non collaborazione della SIP. Nessuna volta fu individuata l’origine delle chiamate dei rapitori, eppure furono fatte due segnalazioni. Quest’assoluta non collaborazione, quando non si è trattato di vero e proprio sabotaggio, se si pensa alla straordinaria efficienza dimostrata dall’azienda in altre circostanze, ha compromesso in modo definitivo l’esito delle indagini. La Sip doveva essere denunciata.[12]
L’allora direttore generale della SIP era un iscritto alla P2, Michele Principe, si capisce come il non funzionamento della stessa fu reso con tanta efficienza. La SIP può essere annoverata insieme ad altri apparati che hanno di proposito dimostrato inefficienza anche se in grado di operare efficacemente.
A condurre l’operazione al centralino della SIP fu il commissario Antonio Esposito, iscritto alla P2 dunque presunto incaricato di Gelli, il suo numero di telefono venne trovato nell’abitazione del capo della colonna romana, Valerio Morucci durante il suo arresto, Morucci sarà proprio il brigatista che annuncerà, dalla stazione Roma Termini, la morte di Moro. I giudici non fecero mai particolari domande in merito a questo numero.
Il 28 marzo 1978 arrivò alla redazione de Il Messaggero una telefonata delle Br, la telefonata fu interrotta (dal commando d’ombra? vedi prossimo capitolo), di conseguenza fu impossibile scoprirne l’origine.
inizio
Il "commando d'ombra", il "doppio stato", la P2 e i suoi infiltrati
La Commissione strage ha presentato, durante la X legislatura un’ampia relazione stesa grazie all’approfondimento di elementi forniti dai processi Moro-ter e Moro-quater, dal ritrovamento di documenti in Via Monte Nevoso, dai contenuti di alcuni memoriali dei brigatisti. Grazie a questi apporti la Commissione ha potuto dichiarare ancora aperti problemi inerenti alla dinamica dell’agguato di Via Fani, alla scomparsa di documentazione fotografica dei luoghi della strage, al black-out dei telefoni, al numero degli attentatori e poi dei carcerieri, alla precisa identità del famoso ingegner Altobelli, al non autentico comunicato n. 7, conosciuto anche come “lago della Duchessa”. La relazione si chiude concludendo che queste ultime indagini, oltre ad aver individuato una realtà tutt’altro che definita, hanno aperto la strada all’ipotesi che alla base del rapimento Moro ci fosse un oscuro complotto in cui erano interessati i settori istituzionali, la criminalità organizzata siciliana, calabrese e romana. [13]
Il capo-mafia Bontate promosse personalmente un’iniziativa a favore di Moro all’interno dell’organizzazione. In una riunione di capi mafia, egli però la causa di Moro, ma fallì. “Uno dei boss che sulla questione si schierò contro di lui, Pippo Calò osservò: Stefano, ma ancora non l’hai capito, uomini politici di primo piano del suo partito non lo vogliono libero”. [14]
Il 22 aprile 1999 il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino comunica di aver avuto documenti che fanno chiarezza sulla vicenda riguardante le dimissioni del prefetto Gaetano Napoletano, segretario del Cesis, durante il rapimento Moro. La versione corrente è che Napoletano avesse avanzato le sue dimissioni proprio durante quei 55 giorni, fu invece l'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti a revocarlo dal suo incarico. Il prefetto Napoletano era l'unico dirigente dei servizi segreti dell'epoca che non apparteneva alla loggia P2.
"Oggi [22 aprile 99, n. mia] - ha detto Pellegrino - noi abbiamo acquisito dal presidente del Consiglio, che ringrazio, la copia del decreto di revoca dell'incarico di Napoletano da segretario del Cesis. In questa c'è un richiamo ad un parere del comitato, che dovremo acquisire per verificare quali siano state le ragioni per cui, in una fase così delicata, questa neonata struttura di coordinamento tra servizio civile e militare conobbe questo mutamento di vertice. Tutto ciò può non significare nulla, può significare qualcosa o può significare molto. Io non mi sento depositario di una verità acquisita a priori".
Quando si venne a sapere – tramite le Commissioni – che la lista degli iscritti alla P2 e la lista dei responsabili durante l’intera operazione era per una buona parte identica, si chiuse il cerchio. E come ciliegina sulla torta, negli ambienti del “commando d’ombra” aleggiava il fantasma di Michele Sindona, assassinio giacente ancora nel buio. Banchiere di fama internazionale ma anche della P2, era uomo di fiducia del Vaticano e insieme della mafia, pentito aveva iniziato la sua collaborazione con la giustizia. Egli aveva fatto luce sui legami tra mafia e P2, la sua eliminazione, avvenuta in carcere, fu decisa proprio in fase di pentimento con un caffè “corretto” al cianuro. Accusato di aver istigato l’assassinio dell’avvocato Ambrosoli, fu ritenuto responsabile della bancarotta del Banco Ambrosiano. L’avvocato scoprì il ruolo di Gelli e Andreotti negli intrecci tra cosche mafiose e P2, dunque anche l’eventuale responsabilità di Giulio Androtti nel caso Aldo Moro.
Sergio Flamigni sostiene la tesi secondo la quale esisteva un secondo staff[15] ufficioso, una sorta di commando d’ombra. Il suo ruolo sarebbe stato quello di contrapporsi alle indagini ufficiali per impedire che si trovasse la prigione di Moro. I membri di questo staff sarebbero stati Licio Gelli, un responsabile del ministero dell'Interno, Federico D’Amato e uno specialista americano, probabilmente un agente segreto che lavorava per conto di Henry Kissinger e Capo del dipartimento Anti-terrorismo dell’U.S. State Departement, Steve Pieczenik[16]. D’Amato e Pieczenik facevano parte anche dello staff ufficiale. D’Amato diresse per alcuni anni la sede centrale della CIA Europe a Berna. Visto che CIA e SISMI facevano parte della stessa “famiglia” P2 (furono mandanti e loggisti in una persona), era ovvio che nel tim del ministero dell'Interno non ci si occupava della telefonata anonima[17] che indicava cinque persone coinvolte nella strage di via Fani. Le tracce avrebbero per esempio portato alla macchina da scrivere di proprietà dei servizi segreti. Il comunicato telefonico passò alla polizia solo dopo 29 giorni. Si eseguì una prima perquisizione in una tipografia il giorno della morte di Moro. La pista americana viene ancora vivacemente discussa come dimostra una disputa tra Katz e Drake e pubblicata dallo stesso Drake, autore di “Aldo Moro The Murder case”, in una colonna chiamata "Katz 'Stones' Italian history, Guest Column by Richard Drake".[18]
Chotjewitz (1989) parla nell’appendice all’edizione tedesca Affäre Moro di Sciascia di due autori del delitto e scrive che l’autore che avrebbe un interesse alla morte di Moro non sarebbe identico a quello che avrebbe eseguito l’assassinio e aggiunge che la relazione tra autore immediato e mediato non sarebbe basata su un semplice rapporto tra committente ed esecutore (Chotjewitz, p. 124). Il più complesso intreccio sarà descritto in seguito.
inizio
Le spie, gli infiltristi nelle Brigate rosse e la Moto Honda
Il tenente colonnello Antonio Cornacchia, loggista e incaricato per il ritrovamento della prigione di Moro, non nega davanti alla Commissione parlamentare l’esistenza di informatori infiltrati nelle Br come sostiene anche Flamigni in un’intervista televisiva, ma aggiunge che non avrebbero potuto svolgere un ruolo attivo.[19]
Tra i membri iscritti alla loggia Propaganda Due, si trovano pure personaggi della CIA di Roma, una trentina di generali italiani, i capi di tutti i servizi segreti italiani e la maggior parte del comitato di crisi del Ministro Cossiga che si occupava dei fatti durante il rapimento di Moro. L’intera lista P2 è pubblicata sul sito di Clarence.[20]
Il colonnello Camillo Guglielmi, loggista e parte attiva di Gladio, esercito paramilitare segreto della NATO attivo in Italia con lo scopo di evitare la diffusione del comunismo nell’Europa occidentale[21], era presente in via Fani alle nove di mattina del 16 marzo. Egli giustifica la sua presenza grazie ad un invito a pranzo. La possibilità di un pranzo alle nove viene condivisa dal brigatista Moretti, uscito dal carcere dopo aver scontato neanche il terzo della pena prevista, in un’intervista televisiva con un “era possibilissimo”, eloquente risposta che la dice lunga sulle ipotizzate infiltrazioni nelle BR. Il dipendente ed agente di Guglielmi, Pier Luigi Ravasio, dirà davanti alla Commissione parlamentare che il suo Capo sarebbe stato informato prima della data e luogo del rapimento.
Quello che stupisce è la precisione con la quale sono stati uccisi i cinque agenti della scorta,[22] la metà dei proiettili risultano fatti esplodere dalla stessa arma. Moretti dichiara che tutte le Br avrebbero sparato da un lato[23], ma le indagini dimostrano il contrario. I proiettili provenienti da quell´arma presentavano una particolare vernice che si usa normalmente contro la ruggine. La verniciatura dei proiettili porterebbe ad ipotizzare che la provenienza delle armi fosse la stessa utilizzata da Gladio, e la necessità di proteggere i proiettili dalla ruggine fa pensare che le armi provenissero da depositi sotterranei. Dunque la “casuale” presenza del colonnello Guglielmi, come ufficiale di GLADIO responsabile dell’addestramento delle unità di combattimento «stay behind»[24] alla base NATO a Capo Marrargiu sull'isola sarda (come si seppe nel 1991 dalla Commissione strage Gladio).Egli incarnava all'agguato di via Fani la rappresentazione di GLADIO con il compito di verificare se il tutto andava bene.Moretti e Franceschini ammettono, durante un’intervista televisiva, che le Br, nonostante alcune esercitazioni nell’arte di sparare avevano gravi problemi con le armi e che non erano assolutamente in grado di sparare con precisione. In un conflitto a fuoco non si può essere sicuri di non subire perdite.Tanto più che, come ha rivelato il brigatista Bonisoli a Sergio Zavoli che lo intervistava in Televisione "Noi avevamo una preparazione militare approssimativa. C'eravamo allenati ogni tanto a sparare alle bottiglie, in periferia, il mio mitra si inceppò e io non sapevo cosa fare. Possibile che i brigatisti fossero solo in nove, ad affrontare una scorta composta da cinque uomini? L'agente Iozzino riuscì ad uscire dall'auto di scorta: e se fosse riuscito a colpire uno dei terroristi? Di qui la ragionata convinzione che, la dinamica dell'agguato ed il numero dei partecipanti debba ancora essere oggetto di accertamenti per raggiungere una verità piena e convincente. [25]Esiste un’importante informazione fornita da tre testimoni che parlano di una Honda presente sul luogo della strage, con due uomini a bordo. Uno dei testimoni, l'ingegner Alessandro Marini, si era visto addirittura arrivare una raffica di mitra addosso dall'uomo seduto sul sellino posteriore. I brigatisti però negano tutto e sostengono che non avrebbero avuto nessuna moto in via Fani.
Il Manifesto del 23 aprile 98 titola BR - "Peppe", "Peppa" e la Honda fantasma di via Fani :[26]
inizio
Markevitch, i partigiani, i partigiani finti infiltrati e il ruolo di Dalla Chiesa
Markevitch, negli anni 50, viveva in una dependance di villa Tatti, in casa del critico d'arte Bernard Berenson, sulle colline tra Fiesole e Settignano, oggi sede di un'università Usa. Poi soggiornò a Fiesole, nella villa dei misteri. Esiste solo un Anfitrione o c’è anche la mente strategica del sequestro? Certo non quella del “dinamitardo”, che poco si concilia con il suo stile di vita e con il segreto che ha tenacemente avvolto per vent’anni la sua identità di partigiano, ed è in questa parte della sua vita che va cercato il movente segreto del ruolo che oggi viene attribuito ad Igor Markevitch. Alberto Franceschini raccontò che i brigatisti consideravano gli ex partigiani un punto di riferimento, e il colonnello Niccolò Bozzo, stretto collaboratore di Dalla Chiesa, ha raccontato alla commissione Stragi che il generale poco tempo prima della morte inseguiva un’ossessione:
“Era convinto che a tirare le fila fosse una rete messa in piedi, durante la Resistenza, dagli Usa, uomini infiltrati nelle organizzazioni di sinistra come ex partigiani rossi, ma in realtà di opposta ideologia”.
I brigatisti storici appaiono imbarazzati da queste rivelazioni. Maccari[27], presunto quarto uomo, liquida la vicenda: “Sciocchezze, sono un testimone oculare, Moro fu assassinato in via Montalcini”. Morucci, che per primo ha messo sulla pista dell’Anfitrione, ora minimizza. Certo e´che molte pagine andranno riscritte. Il Ghetto pullulava di covi Br, a quanto si scopre oggi. Efisio Mortati, il primo pentito, raccontò di essere stato ospite di tal “Anna e Franco” in via dei Bresciani, vicino ai Banchi Vecchi.
E nel rapporto Sismi dell’80 si fanno i nomi di questi due brigatisti, come coloro che interrogarono Moro. Però la descrizione che ne fece Mortati non coincide con nessuno dei brigatisti noti.[28]
inizio
Il ruolo di Igor Markevitch fa riscrivere un capitolo?
Il 30 maggio 1999 quotidiani italiani, come Il Messaggero, hanno parlano del misterioso uomo di Firenze.
Il nome di Markevitch, morto nell’83, compariva già nell’80, quand’era all’apice della notorietà, in un rapporto del Sismi. Secondo il servizio segreto militare a condurre l’interrogatorio di Moro, nel carcere delle Br, era tal Igor Caetani, più tardi identificato come Markevitch, marito della principessa Topazia Caetani, proprietaria di un Palazzo nell´ omonima strada, sposata nel ‘48 in seconde nozze, principessa dell’omonima casata e proprietaria del palazzo nobiliare che si trova all’angolo tra via Caetani e via dei Funari, a venti metri da dove la mattina del 9 maggio ‘78 fu ritrovato, all’interno della Renault rossa, il cadavere di Aldo Moro. Un palazzo con il passo carraio e due leoni in pietra nel cortile, che corrispondono alle indicazioni fornite da Pecorelli, il giornalista poi assassinato.
Ora ci si chiede se la realtà non abbia superato l'immaginazione. Pellegrino, presidente della commissione Stragi, così si esprime:
“Alla luce di queste rivelazioni, molti messaggi del passato acquistano un nuovo significato”
Il volantino numero 7, ad esempio, messo a punto da Tony Chichiarelli, collaboratore del Sismi, ucciso dopo la miliardaria rapina alla Brinks, era stato finora considerato un depistaggio. Ma ci si chiede se invece non era una segnalazione, ahimè ignorata, proveniente da una frangia dei servizi segreti che indicava dove andare a cercare Moro, nel Lago (Palazzo?) della Duchessa, anticipandone la condanna a morte. La Duchessa è un personaggio ricorrente nelle allegoriche rivelazioni di Pecorelli che, due settimane dopo l’uccisione di Moro, sembrava conoscere l’ultima prigione: scrisse infatti che in via Caetani, dietro il muro dov’è stato trovata la Renault, la Duchessa vede “i ruderi del Teatro Balbo, il terzo anfiteatro dove un tempo antichi guerrieri scendevano nell’arena. Chissà cosa c’era nel destino di Moro, perchè la sua morte fosse scoperta contro quel muro”. Un’allusione alla Gladio di “Stay behind”, allora segretissima?[29]
inizio
I possibili mandanti dell'assassinio di Moro, le ”menti misteriose”
Probabili prove rafforzerebbero la tesi secondo la quale esistono dei mandanti che avrebbero affidato il compito a specialisti, dunque si trattò di strage di stato.
1. Le foto scattate dall’operaio Gerardo LucciTali foto scattate subito dopo la sparatoria, facevano forse vedere “lo specialista”. L’operaio si trovava casualmente la macchina fotografica che doveva utilizzare durante la sua giornata lavorativa di metalmeccanico. Le foto sviluppate e i negativi finiscono, dopo un incontro della moglie di Lucci con il magistrato Luciano Infelisi, nel buio della giustizia. I negativi spariscono per sempre. Solo alcune foto che fanno vedere la macchina vengono restituite.
2. In quanti erano in via Fani?
Nessuno si è mai interessato seriamente alla cifra esatta. Valerio Morucci ha diverse volte fatto i nomi di sette uomini: Mario Moretti, Raffaele Fiore, Bruno Seghetti, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari, Barbara Balzerani e lui stesso. In un’interrvista televisiva di molti anni dopo ha indicato altri due nomi: Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, il primo arrestato e processato in Svizzera dove si era rifugiato, il secondo mai catturato. È stato visto, intervistato e fotografato in Nicaragua, dove aveva aperto un ristorante, ma non ha mai scontato un solo giorno di galera.[30] Alla fine Morucci ha tirato fuori anche il nome di Rita Algranati, che a bordo di un motorino doveva segnalare al commando l'arrivo delle auto di Moro e della scorta.[31] Anche lei è stata segnalata in Nicaragua. Morucci adesso giura di aver davvero detto tutto, rimane insoluto il mistero della moto Honda.
3. La richiesta delle foto
Sei settimane dopo arriva una telefonata dal segretario di Moro, il deputato della DC, Cazora, chiede le foto scattate da Gerardo Lucci[32]. Questa telefonata fu registrata. Cazora ricorda che avrebbe ricevuto una telefonata dalla Calabria “perché mi hanno ... [parte cancellata sul nastro] ... telefonato dalla Calabria...”. Si potrebbe identificare sulla foto una persona, che si conoscerebbe in Calabria. Infatti il nastro è stato manipolato e casualmente (!) proprio quella parte che porterebbe probabilmente all’anonimo specialista.4. La ‘ndrangheta era probabilmente presente alla sparatoriaNell’ottobre 1993 emergono informazioni dettagliate che riguardano una spia, scarcerata nel momento della strage in via Fani, un boss della ‘ndrangheta, Antonio Nirta, che lavorava come spia per i carabinieri. Lui sarebbe stato presente in vi a Fani.[33] I contatti tra le cosche e lo stato venivano garantiti dal generale Delfino. Il tutto si venne a sapere grazie al pentimento di Severino Morabito, pentito della ‘ndrangheta del Nord. La famiglia calabrese Delfino teneva buoni contatti con la Dc, in particolare con l´on. Misasi. Proprio a Misasi scrisse Aldo Moro un’ultima disperata lettera d’aiuto.[34] Ci si chiede perché proprio a lui. Moro sapeva qualcosa che riguardava il rapporto tra DC e le cosche e tra politica e cosche/servizi segreti/forze maggiori.
5. Le due parti separate delle Brigate rosse.
Flamigni sostiene la tesi secondo la quale erano state date precise diposizioni affinche alcuni brigatisti non fossero arrestati. Gli elementi più duri come Moretti, i “falconi”, dovevano essere guidati per mezzo di persone terze e dovevano essere strumentalizzati a scopi come sparare e assassinare. I brigatisti “intellettuali” coloro cioè che non avevano mai ucciso dovevano essere separati dagli altri perché non erano in grado di eseguire un sanguinoso agguato come quello di via Fani. Questa tesi è sostenuta anche dal brigatista Franceschini, egli racconta anche, che dopo il suo arresto (avvenuto nel 1974) fu interrogato dal giudice Giancarlo Caselli che gli mostrò le foto degli incontri con «frate Mitra» [Silvano Girotto, l'infiltrato che nel '74 provocò l'arresto di Curcio e Alberto Franceschini[35]] "le foto in cui c'ero io - dice Franceschini - e una foto con Moretti indicato con un cerchietto. Caselli chiese lui:
"Lei conosce questa persona?". Erano le foto con Casaletti, quelle del primo incontro. Io rispondevo di no. Poi mi fece vedere le foto in cui c'ero io e una foto con Moretti indicato con un cerchietto. Mi chiese se lo conoscevo e risposi di no.”
Lui si mise a ridere e mi disse:
“Se non lo conosce, almeno si ponga il problema del perché l'operazione è stata fatta quando c'era lei e non quando c'era quella persona.”[36]
«Quando fui arrestato, il giudice Giancarlo Caselli nel corso dell'interrogatorio mi fece vedere una cinquantina di fotografie in bianco e nero, mescolate tra loro, sugli incontri con Frate Mitra».
La foto fu scattata durante uno dei primi due incontri ai quali si presentava una persona come “probabile” nuovo brigatista. Dopo l’interrogazione, il magistrato negò di aver fatto questa domanda. La foto fu fatta sparire nella nebbia del tribunale, essa faceva vedere inoltre una terza persona di particolare interesse che ovviamente doveva rimanere in incognita. Al terzo incontro fu arrestata la menta intellettuale della prima ora delle Br, Franceschini e Moretti non erano presenti. Flamigni si chiede come mai l’arresto avvenne solo in occasione di questo terzo incontro. Flamigni interroga Vincenzo Fragalà per dimostrare che uno dei “falconi” come Moretti serviva libero non solo durante, ma pure dopo la morte di Moro:
“Lei ha sostenuto che il suo arresto assieme a Curcio, nel settembre 1974, fu ritardato di una settimana dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per evitare che venisse catturato anche Moretti. Perché?”
«Fu ritardato di alcuni mesi. È un altro di quegli episodi strani di cui non ho mai trovato la spiegazione. Gli incontri con Frate Mitra [Silvano Girotto, ndr] furono tre, in mesi successivi. A tutti e tre andò Renato: al primo assieme ad Attilio Casaletti, che è un pentito; al secondo assieme a Moretti; al terzo andai anch'io, che pure non ci dovevo essere. Dalla Chiesa, di fronte alla commissione Moro, ha dichiarato espressamente che fece fotografare tutti e tre gli incontri: lo dichiarò a proposito del doppio arresto di Patrizio Peci.[37]
L’avvocato della difesa di Curcio, Giannino Guiso, sottolinea in un’intervista alla televisione tedesca che le Br non sarebbero state capaci di eseguire una tale operazione con la mostrata precisione senza l´appoggio da parte di terze persone.[38]
6. Il falso comunicato numero sette
Il falso comunicato numero sette (alias comunicato del Lago della Duchessa) e il finto scoppio di un tubo dell’acqua il 18 aprile in via Gradoli dimostra che da parte dei mandanti c’era un certo nervosismo e una certa fretta, perciò si volle creare un depistaggio e/o magari inviare un messaggio che anticipasse la morte dello statista.
Il rifugio di Mario Moretti e Barbara Balzerani infatti era «saltato» grazie a una fuga d'acqua che secondo i vigili del fuoco sembrava fosse stata provocata: uno scopettone era stato appoggiato sulla vasca e sopra lo scopettone qualcuno aveva posato il telefono della doccia (aperta) in modo che l'acqua si dirigesse verso una fessura nel muro.[39] Sull'ipotesi di Moro vittima della trattativa, Franceschini dice tra l'altro:
"Era difficile mantenere nascosto Moro per così tanti giorni in una città come Roma, perché se ci fosse stato anche un solo servizio, ad esempio il Kgb, che non era d'accordo, sarebbero stati scoperti. Questo significa che esisteva un accordo tra tutti quelli che contavano e che avevano deciso che Moro doveva morire. Quel tipo di strategia politica doveva finire. Il sequestro Moro aveva chiuso quel tipo di strategia politica."
Su quel 18 aprile (Via Gradoli- Lago della Duchessa) che è forse la giornata cruciale del rapimento, Franceschini dice:
"L'operazione Lago della Duchessa-via Gradoli (vanno sempre tenuti insieme) è un messaggio preciso a chi detiene Moro. Da lì c'è una svolta precisa. Gli dicono: «Noi vi abbiamo in mano, possiamo prendervi in qualsiasi momento». Inizia quindi, secondo me, una trattativa sotterranea tra chi detiene Moro e una parte dello Stato. Mi immagino questa trattativa come un braccio di ferro che alla fine produce certi risultati. Un risultato è: la morte di Moro, la salvezza dei brigatisti che lo avevano in mano. Probabilmente, all'interno dello schieramento che faceva la trattativa c'era anche chi pensava che Moro potesse essere liberato..." [40]
9 aprile 1999: Il settimanale «L'Espresso» pubblica, a cura di Antonio Padellaro, un resoconto dell'audizione di Alberto Franceschini in commissione stragi (17 marzo 1999).[41]
La polizia trovò un deposito di armi nell’appartamento dei brigatisti della prima ora.
7. Le informazioni trattenute
Secondo Flamigni la polizia giudiziaria sa chi ha scritto il comunicato del “Lago della Ducchessa”, ma l’informazione non viene passata né alla Commissione parlamentare né alla Magistratura. Il corpo di Aldo Moro giace sul fondo del lago della Duchessa[42], diceva il comunicato numero sette delle Br, fatto recapitare il 18 aprile, ma era un falso. L’autore del falso comunicato, si scopre successivamente, è Toni Chicchiarelli, un criminale della “Banda della Magliana” la quale veniva chiamata in causa, in certe occasioni, dai servizi segreti, per eseguire qualsiasi “lavoro sporco”. Ci si è chiesti chi fosse la mente che aveva ordinato di preparare quel comunicato. È chiaro che si trattò di un depistaggio. Chicchiarelli non può più rispondere, verrà ucciso qualche anno dopo. Le indagini finiscono nella sabbia della “Giustizia”.
8. Le minacce a Moro
Esse costituiscono un altro mistero mai chiarito. Lo statista aveva ricevuto intimidazioni già durante il suo viaggio ufficiale in America, e negli ambienti politici si aveva sentore che le Br stavano preparando un «attentato contro un esponente democristiano». Un agente della scorta dell’on. Moro si era reso conto, già alcune settimane prima del rapimento, che qualcuno seguiva la macchina dello statista, la segnalazione fu fatta pervenire alla polizia la quale non la prese in considerazione, tanto meno sembrò interessare a qualcuno e in seguito nessuno poté e/o volle ricordarsene. Fu questa una situazione che aveva comunque indotto Moro a pretendere una scorta per i figli, a mettere vetri blindati alle finestre del suo studio in via Savoia e il suo caposcorta Oreste Leonardi a chiedere inutilmente un'auto blindata per il suo protetto.
Il presidente Dc aveva ricevuto, dopo la decisione di «aprire» ai comunisti, in America durante un viaggio ufficiale, minacciosi avvertimenti di «altissimo livello» in cui lo si incitava ad abbandonare il suo piano di “compromesso storico” aggiungendo che avrebbe dovuto fermare il tutto o l’avrebbe pagata cara. Moro tornò dal nuovo Continente con una profonda insicurezza e confusione per questo voleva ritirarsi dalla politica per qualche anno. Egli ne aveva parlato - rompendo una ferrea tradizione di riserbo - con sua moglie Eleonora Moro che a sua volta ne parlò, in seguito, davanti alla Commissione. Non si sa se Moro ha saputo del fatto che Kissinger sosteneva con alta probabilità GLADIO e aveva contatti diretti con la CIA che a sua volta aveva piazzato i suoi fedeli nella Propaganda Due.[43]
Nel gennaio 1999 è venuto alla luce che Henry Kissinger informò il governo cinese nel 1974 che gli Stati Uniti avrebbero impedito ai comunisti italiani di entrare nel governo per non creare un precedente in Europa. Lo si apprende dai verbali di un colloquio tra Kissinger, che era allora segretario di Stato degli Stati Uniti, e il vice primo ministro cinese Deng Xiaoping. Il testo è stato pubblicato dai ricercatori della George Washington University che lo hanno ottenuto in base al “Freedom of Information Act”.[44]
A Washington, nel 1975, gli Stati Uniti preparavano un intervento militare in Jugoslavia ma diffidavano dell’aiuto da parte dell'Italia. [45]
«Dovete capire - disse Kissinger a Deng - che noi facciamo e diciamo cose destinate a paralizzare non soltanto la nostra sinistra ma anche la sinistra europea. Siamo contrari e resisteremo alla inclusione della sinistra nei governi europei. Faremo così in Portogallo perché non vogliamo che sia un modello per altri paesi. E lo faremo in Italia, e naturalmente in Francia» e prosegue con «La Democrazia ha dirigenti molto deboli».[46]
Poi scoppia in una risata e aggiunge:
«il presidente del Consiglio, Moro, ha la tendenza ad addormentarsi mentre gli si parla»[47]
Questo atteggiamento da parte di Moro accentuò ancora di più il conosciuto disprezzo di Kissinger nei suoi confronti.
Sull'eurocomunismo Deng Xiaoping mostrava invece un atteggiamento tollerante e spiega che può essere utile «come esempio negativo». Ma Kissinger ribatte che una vittoria elettorale dei comunisti in Francia o in Italia avrebbe «conseguenze gravi» per la Nato in quanto
«rafforzerebbe l'ala sinistra del partito socialdemocratico tedesco, fortemente influenzato dalla Germania dell'Est».[48]
Kissinger deplora la debolezza della Dc e racconta come Moro si sia addormentato mentre egli gli parlava.
«È sempre lo stesso gruppo, ribatte Kissinger «ma il gruppo di governo della Dc non è molto disciplinato. Noi siamo del tutto contrari a quello che in Italia si chiama compromesso storico e non diamo visti per gli Stati Uniti ai comunisti italiani. Ma loro hanno messo un comunista in una delegazione parlamentare che verrà a Washington e che noi non abbiamo scelto».
9. “Le carte” di Moro
Per tutti i 55 giorni della sua prigionia, Aldo Moro aveva scritto: lettere, appunti, ma anche una sorta di riassunto dell'interrogatorio al quale lo stava sottoponendo Mario Moretti. Quelle carte verranno ritrovate in due tempi, nella base Br di via Monte Nevoso a Milano: un primo ritrovamento fu fatto nel '78, ad opera dei carabinieri del generale Dalla Chiesa, un secondo, dodici anni più tardi. Si trattava di quarantatré pagine la prima volta e di 421 la seconda, più una serie di lettere inedite. Ma ci si può chiedere se c'era davvero tutto, e se mancava qualcosa, di cosa si trattava? Moro aveva parlato a Moretti di alcune pagine nere della vita politica di quegli anni e aveva fatto rivelazioni potenzialmente devastanti, che però le Brigate rosse sembrano non aver recepito o almeno così hanno dato ad intendere.[49] Moro traccia, tra altro, il bilancio di uno stato corrotto, parla della relazione di Andreotti con la CIA, dello stesso Andreotti che ha detenuto, più a lungo di chiunque altro, la carica di capo dei servizi segreti ed inoltre ha esposto fatti che riguardavano GLADIO e di certi particolari riguardanti assegni che passavano dalle mani di Andreotti, sarà proprio di questi assegni che parlerà Pecorelli (vedi capitolo).
Il presidente della Commissione strage, Giovanni Pellegrino, sta per presentare la sua relazione finale. Il Messaggero parla in un recente articolo di giovedì 29 Luglio 1999 a cura di Massimo Martinelli, intitolato La relazione della Commissione stragi: più che la vita dello statista, si volle salvaguardare la riservatezza - Caso Moro, sui segreti lo Stato trattò con le Br, di un nuovo scenario, che arriverebbe dopo 21 anni: Aldo Moro fu costretto a svelare segreti di Stato e particolari imbarazzanti legati a circostanze talmente riservate da essere motivo di preoccupazione dei servizi segreti di altri paesi. E quando fu chiaro che egli stava cedendo agli interrogatori sempre più pressanti, la trattativa «vera» non riguardò più la sua vita, ma la restituzione dei verbali con le sue dichiarazioni.
Ma a tutt’oggi le autorità giudiziarie non sono in possesso dell’originale completo di quel documento. Giovanni Pellegrino individua, nella sua relazione, un momento preciso in cui le Br cambiarono atteggiamento:
“accade subito dopo il comunicato numero 6, che precede immediatamente il falso comunicato della Duchessa e la contemporanea «scoperta» del covo brigatista di Via Gradoli. Fu allora che cominciò l’«oscura partita», come la chiama Pellegrino, tra alcuni dei brigatisti e apparati dello Stato. Pellegrino ricorda, come il falso comunicato sul lago della Duchessa e anche i riferimenti a Gradoli (dove era una delle prigioni di Moro), erano in realtà solo messaggi che spezzoni di qualche servizio segreto inviarono ai brigatisti per piegarli alla trattativa sui verbali di Moro. Quei messaggi miravano a far capire ai brigatisti che, se lo Stato avesse voluto, poteva annientarli. Tanto valeva scendere a patti. E la posta in gioco, a quel punto, non era più la vita di Moro, quanto la segretezza delle sue rivelazioni.“[50]
La suocera di Dalla Chiesa, la Signora Setti Carraro, sostiene la tesi secondo la quale Dalla Chiesa non avrebbe consegnato l’interno materiale ad Andreotti per una necessaria precauzione. Si ricorda di aver sentito dire dalla figlia:
”Io so delle cose tremende, ma non posso dirtele. Se te le raccontassi, non ci potresti credere. Carlo mi ha fatto giurare di non dirle a nessuno”[51]. Dopo il suo assassinio, questi documenti, che egli conservava in una cassetta, scomparvero misteriosamente. (Cfr. Drake, p. 257)
Richard Drake ricorda che Franco Evangelisti, allora senatore DC, parlò del suo ruolo di messaggero tra Andreotti e Dalla Chiesa.
“Descrisse una visita alle due di notte quando Dalla Chiesa si presentò con un dattiloscritto che diceva provenisse dalla prigione di Moro. Mele concluse su quel documento che “potrebbe trattarsi del cosiddetto memoriale”[52].
Drake dimostra un’altra prova: “Il testimone Ezio Radaelli sostenne che un emissario di Andreotti aveva cercato di fare pressioni su di lui perché cambiasse la sua deposizione riguardo ai movimenti finanziari del senatore.” (Cfr. Drake, p. 257)
10. “Più in alto” – La domanda ai santi
Il generale Dalla Chiesa e Cossiga sembra abbiano avuto un incontro, non è ancora chiaro però chi dei due sia andato a far visita all’altro. Dalla Chiesa voleva informare Cossiga di una certa possibilità con la quale si sarebbe potuto scoprire la prigione di Moro. In quell’occasione Cossiga cercò informazioni “più in alto ”.
11. L’aiuto negato
Durante una breve intervista nel carcere napoletano (il Ministero di Grazia e Giustizia negò comunque l’intervista) Raffaele Cutola, capo della Camorra, rispose alla domanda circa l´aiuto prestato nel caso Cirillo, il quale era stato sequestrato dalle Brigate rosse nel 1981. Grazie alla intercenzione di Cutolo, richiesta da parte della politica, Cirillo deputato della Dc, era stato infatti liberato. Nel caso di Moro un avvocato si mise in contatto con Cutola. Niccolino Senso, amico dello stesso e malavitoso della Banda della Magliana scoprì per caso il covo di Moro, Cutola fece sapere il fatto a diversi personaggi politici, ma gli venne subito fatto capire che non si doveva occupare del fatto, in altre parole le autorità si rifiutarono di prestare qualsiasi aiuto.
Drake scrive:
“Buscetta era stato personalmente coinvolto nel piano fallito, della mafia per salvare Moro. Mentre scontava una pena detentiva a Cuneo, al mafioso era stato chiesto dall’organizzazione di contattare i detenuti delle Brigate rosse [nel carcere di Torino, n. mia] per ottenere il rilascio dell’Ostaggio. Egli accettò di farlo, ma prima di tutto doveva ottenere un trasferimento a Torino, dove i capi delle Br erano sotto processo. Il trasferimento non ebbe mai luogo. Fu bloccato da politici, seppe più tardi: “Questi non lo vogliono liberare Moro.“[53] (Drake, p. 251)
12. Il rapimento anticipato
Due significativi avvenimenti accaduti PRIMA del rapimento di Aldo Moro:a.) Roma. Due donne della polizia sentono mezz’ora prima del rapimento di Aldo Moro su una stazione radio privata (Radio Radicale?) che lui sarebbe stato rapito.b.) Siena. Una persona cieca ascolta casualmente, la sera prima della strage, il 15 marzo 1977, verso le ore venti, un dialogo tra due persone, probabilmente due carabinieri, prima che si allontanino in macchina. I due parlarono del fatto che Aldo Moro sarebbe stato rapito e la scorta uccisa. Il cieco corse in un bar e raccontò l’accaduto.
13. I probabili mandanti – le forze oscure
Sui mandanti della strage di stato esistono varie tesi:
a.) “Si ritengo infatti che le Br nell’operazione Moro siano state uno strumento, forse anche inconsapevole, di un progetto nelle mani di forze straniere che hanno agito in connessione con gli apparati piduisti dello Stato”[54]
b.) Sergio Flamigni:
"Mi sono convinto che i misteri insoluti siano da ricercare più nei Palazzi che non tra le Brigare Rosse".[55]
Durante un’intervista televisiva Flamigni parla di una “strumentalizzazione” delle Br e avanza alcune dimostrazioni che sostengono la sua tesi.
Pellegrino incalza ancora Signorile e gli chiede prima se ha letto il memoriale di Moro poi se sa chi poneva le domande all'ostaggio. E aggiunge:
«Poiché le Brigate rosse hanno giustificato il fatto di non aver pubblicato il memoriale dicendo che il prigioniero non disse cose utili alla loro analisi, perché gli venivano rivolte quelle domande?».
Risposta di Signorile:
«Da quel poco che ricordo, le domande erano precostituite, nel senso che erano costruite fuori».
E il presidente: «Sembrerebbe che chi fa quelle domande non appartiene al gruppo conosciuto dei brigatisti». (Il Messaggero, 10.06.1999)
Secondo Pellegrino, l'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga ebbe questo sospetto fin dai giorni del sequestro:
"Cossiga non era tra quelli che non volevano salvare Moro. Ma certamente ha la coscienza che molte delle persone che gli erano vicine in quei drammatici giorni non si muovevano per salvarlo. E probabilmente era sovrastato da forze più grandi di lui".[56]
14. Guido Passalacqua, giornalista de La Repubblica sulla pista della falsa scuola di lingua per le Br
Guido Passalacqua, giornalista de La Repubblica, si mise sulla pista dell’influenza del cosiddetto Superclan e la finta scuola di lingua parigina Hyperion.[57] Il 12 aprile 1980 scrisse che sarebbero state una, due o tre persone a decidere sulle azioni di terrore e che sarebbero state proprio quelle del vero commando delle Br. Quando tempo dopo Passalacqua annunciò che avrebbe pubblicato altre rivelazioni venne ucciso nel maggio 1980.inizio
Il ruolo della Chiesa cattolica
A 20 anni dal rapimento, nel marzo 1998 Andreotti racconta in un'intervista al «Giornale» per la prima volta un clamoroso risvolto della tragedia. Paolo VI voleva pagare 10 miliardi per Moro.
Andreotti rivela:
«Fra le iniziative del Vaticano per ottenere la liberazione del presidente della Dc ci fu l'offerta di un fortissimo riscatto. Il tramite con cui cercavano di arrivare ai brigatisti era un cappellano delle carceri. Era Paolo VI che si muoveva, io non frapposi alcuna difficoltà. Ho sperato con tutte le mie forze che quel tentativo portasse alla liberazione di Moro »[58]
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Sulle tracce della nuova prigione nel ghetto - Mino Pecorelli ne parlò allusivamente su “OP”
Un interrogativo che si aggiunge ai tanti: dal perché Pecorelli parlò di un misterioso Igor e di una contessa dai capelli biondi, al perché in via Gradoli fu trovato il numero di telefono dell'Immobiliare Savelli, proprietaria di Palazzo Orsini.[59]Il Messaggero pubblicò il 29 maggio 1999 un articolo intitolato “L‘inchiesta mai chiusa - A parlarne fu il giornalista Mino Pecorelli su un bollettino di “OP”, pochi giorni prima di essere assassinato.” Secondo Giovanni Pellegrino la nuova prigione dalla quale uscì la Renault rossa con il cadavere di Moro non sarebbe in via Montalcini, 8 come i brigatisti hanno sempre fatto credere, si troverebbe invece nel centro storico, precisamente al Ghetto ebraico, a pochi passi da via Caetani, dove l‘auto fu fatta trovare. Esistono presupposizioni secondo le quali l’ultima prigione di Moro possa essere anche stata all’interno di Palazzo Orsini,[60] sede diplomatica di banche ed agenzie. In passato, durante il sequestro Moro, la magistratura aveva indagato sul palazzo; il primo ad occuparsene fu il consigliere istruttore Ernesto Cudillo, che il 22 aprile ’78 fece fare un’intercettazione telefonica su un residence dello stabile. Tale decisione fu presa in seguito al ritrovamento, nel covo di via Gradoli, di una piantina topografica di Palazzo Orsini comprensiva di tutte le entrate e le uscite, dal complesso immobiliare. La registrazione tuttavia, non a caso, non compare agli atti del processo.
La storia ha insegnato l’utilità di non rendere pubbliche le prove. Fine maggio 1999 Pellegrino afferma:
«Siamo vicini ad una svolta, so cose che non posso dire e che non direi neppure in seduta segreta alla commissione stragi»”.[61]
Particolare importante appare il fatto che il palazzo è dotato di cantina e garage e sulla piantina trovata nel covo di via Gradoli compaiono dettagliate indicazioni sulla consistenza delle mura esterne e sulle parti sotterranee e degli scavi del teatro Marcello che arrivano fin sotto la nobile residenza. È incredibile come, a questo punto volutamente, non si sia collegato il tutto a Moretti com’è logico che fosse e che sia stata autorizzata una completa ristrutturazione del palazzo prima di un’esauriente indagine. In un appunto scritto da Mario Moretti compariva il nome della titolare dell’agenzia Savellia, che curava la gestione dell’immobile di proprietà della marchesa Rossi di Montelera. Nessuno non ha mai indagato più di tanto su questo strano collegamento tra la Savellia e Mario Moretti, e adesso (nel 1999) nessuno potrà farlo più. La contessa è deceduta qualche tempo fa. Accanto al numero di telefono c’era anche una misteriosa nota circa 15 gocce d’atropina, noto anestetico.
Nell’appunto di Moretti c’era una frase un po' criptica: “Marchesi Liva mercoledì 22 ore 21 e 15 - atropina.”Massimo Martinelli scrive su Il Messaggero un articolo dal titolo «Io, il portiere del palazzo dei misteri»“ che se letto con attenzione, conferma l’esistenza di un filo che conduce a Moretti:
“... oggi il suo appartamento al terzo piano del primo stabile di Palazzo Orsini è passato di mano. È lo stesso appartamento che ventuno anni fa era intestato all’Immobiliare Savellia” - [...] - «Che c’è di strano? - dice il portiere [che difende tutti e afferma che non lasciò mai passare nessuno (tranne le gocce di Atropina?, n. mia)- la contessa non si era voluta intestare la casa e l’aveva lasciata a nome di quella società. Lo fanno in tanti.». [...] Di strano c’è che durante i tempi di piombo [...] il numero telefonico dell’Immobiliare Savellia, lo 06-659127, lo trovarono nel covo brigatista di via Gradoli, sulla Cassia. Era in un appunto scritto da Mario Moretti in persona, quello che secondo molti investigatori conosce i «dietro le quinte» del caso Moro che non conosciamo noi. “ [62]
Esiste un’altra persona, un brigatista pentito del nord-Italia, Efisio Mortati, che si ricorda di un covo nel Ghetto e ciò conferma l’ipotesi sovraformulata:
“ [....] il presidente della commissione Stragi, Imposimato e Priore ricordano invece di quando, durante l’inchiesta Moro-quater, furono fotografati da un’ignota mano mentre notte tempo si aggiravano per il Ghetto, in compagnia di un brigatista pentito del nord-Italia, Efisio Mortati, che ricordava di essere stato ospitato in un covo br che si trovava nei pressi di piazza Argentina, ma non conoscendo l’indirizzo e non essendo romano non riusciva a ritrovare la strada. Covo e prigione nella stessa zona. Qualcuno fece recapitare le foto a Palazzo di Giustizia, un’intimidazione dice ora Imposimato. Non delle Brigate Rosse, sembra di capire.[63]
Se il covo e la prigione si trovavano nella stessa zona questo pezzo della storia delle Br dovrebbe essere riscritto per capire la verità.
A parlare della prigione al Ghetto, di un passo carraio e dei leoni di pietra al cancello d‘ingresso fu Mino Pecorelli su Op, pochi giorni prima di essere ucciso, in un trafiletto dal titolo «Vergogna buffoni» che pesantemente alludeva ai troppi punti oscuri del sequestro Moro, e ora sappiamo, grazie al processo Andreotti, che Pecorelli per queste sue elucubrazioni, o che tali apparivano, aveva una fonte di prestigio, il generale Dalla Chiesa. In uno degli ultimi scritti Pecorelli attribuisce ad una misteriosa duchessa romana, presente in via Caetani, riflessioni che egli scrisse due settimane dopo l’uccisione di Moro. Sembrava che egli conoscesse l’ultima prigione: scrisse infatti che in via Caetani, dietro il muro dov’è stato trovata la Renault, la Duchessa vede:
“i ruderi del Teatro Balbo, il terzo anfiteatro dove un tempo antichi guerrieri scendevano nell’arena. Chissà cosa c’era nel destino di Moro, perché la sua morte fosse scoperta contro quel muro”.
Un chiaro riferimento a Gladio, dicono gli esperti, ma anche al Lago della Duchessa, il falso volantino numero 7.[64] Seguendo le indicazioni seppure cifrate di Pecorelli, si giungerebbe sulle tracce di Palazzo.
Se tutto ciò è vero, i misteri hanno le ore contate. Tuttavia manca ancora il nome dell‘„anfitrione“ che a Firenze, durante il caso Moro, ospitava la direzione strategica delle Br. È sempre a Firenze il luogo dove vennero prese le decisioni sul destino di Aldo Moro e dove furono battuti a macchina i nove comunicati Br, non è ancora chiaro come Azzolini perse il borsello che conteneva le chiavi del covo di via Monte Nevoso a Milano, ritrovato dai carabinieri di Dalla Chiesa che riuscirono ad aprire la porta senza (!) conoscerne l’indirizzo.
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Il partito della trattativa e il partito della fermezza; gli autogol visti da Pellegrino e Cipriani
Durante i 55 giorni della prigionia due opposti schieramenti, il “partito della trattativa” (i trattativisti) e il “partito della fermezza”, si fronteggiarono. Tra coloro che si schierarono dalla parte dei trattatitivisti c’è chi sostiene, ancora oggi, che le autorità dello Stato si siano gravate di trascurare concrete e reali possibilità di salvare Moro. Ma come è possibile credere alla fermezza? Si interroga Luigi Cipriani, quando mai i democristiani sono stati fermi su qualcosa? Come mai, continua ancora Cipriani, quando viene colpito Cirillo patteggiano coi deprecati eversori? Come mai dopo il sequestro Dozier, non appena gli americani lamentano che l’Italia è un paese dove “quattro straccioni” si possono permettere di rapire un generale americano, i nostri scattano sull’attenti e liberano l’ostaggio in due secondi, senza spargere sangue?
Subito dopo l’uccisione di Moro i brigatisti vengono arrestati, ma non sarebbe stato più facile arrestarli prima? La destrezza militare dimostrata nell’agguato di via Fani stride con l’approssimativo addestramento all’uso delle armi dei brigatisti, tanto più che quello di via Fani rimane magari unico episodio nella storia del terrorismo sia per la complessità dell’azione, sia per il successo con cui si concluse. È difficile credere nella straordinaria potenza delle Br che tiene sotto tiro le istituzioni e i servizi segreti internazionali quando poi in via Fani le loro armi s’inceppano. Risulta fondata l’ipotesi che abbiamo concorso, sia alla programmazione, sia alla gestione del sequestro Moro, “forze diverse” dalle Brigate Rosse.[65]
In un attuale articolo de «L’Espresso» del 10.06.1999 viene descritto un colloquio tra Pellegrino e l'ex ministro socialista Claudio Signorile nel quale si chiedono notizie del vero regista.[66]
Signorile diceva d'essersi sempre chiesto perché mai il cadavere dello statista Dc fosse stato collocato a via Caetani proprio la mattina in cui si sarebbe riunita la direzione democristiana:
«Dopo il rapimento il 9 maggio 1978 si riuniva per la prima volta non la delegazione, ma la direzione Dc ed io avevo notizia [da Amintore Fanfani, ndr], che telefonicamente trasmettevo imprudentemente, di un segno di novità che si sarebbe manifestato in quella sede. Moro venne ucciso in quel momento e mi sono sempre chiesto perché, perché non due giorni prima o un giorno dopo».
Alla commissione strage interessava il ruolo politico avuto dal Psdi nelle trattative durante il rapimento di Moro e il cosiddetto partito della fermezza. Era inoltre interessante capire l’entità degli contatti, durante i 55 giorni, tra il Psi e Franco Piperno e Lanfranco Pace e di quest'ultimo con Valerio Morucci e Adriana Faranda. Pellegrino osserva, durante la seduta, che ci sono stati degli incontri, i quali consentivano ufficiosamente ad una parte delle Br di avere un interlocutore politico e chiede perché mai di tutti questi incontri non venne mai informata né la polizia né la magistratura: sarebbe bastato un pedinamento di Pace per arrivare prima al covo di via Gradoli e forse anche alla prigione di Moro.[67]
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Gli Autogol secondo Cipriani
Luigi Cipriani sintetizza molto bene la questione parlando di una serie di autogol:
«Il primo lo fece il protagonista della vicenda la cui politica aperturista, dieci anni prima della caduta del Muro, riuscì del tutto indigesto agli americani e gli procurò nel suo paese le reazioni più disparate. [...] Un secondo autogol è attribuibile all’on. Enrico Berlinguer, sostenitore entusiasta della fermezza contro gli eversori - non capì che la fermezza non era contro di loro, ma contro Moro - e scaricato subito dopo. Il terzo ai brigatisti, che per colpire l’uomo simbolo della normalizzazione innescarono un clima di repressione, legalitarismo, caccia alle streghe che in Italia ha pochi precedenti; e, credendo di attaccare il regime, gli fecero un favore della madonna. Il capitalismo italiano reagì al delitto dello statista con una ventata di felicità, il rifiorire dell’attività economica, la borsa alle stelle con rialzi mai visti. Questa pompata di ottimismo, la sterzata a destra del quadro politico seguita al delitto, la quasi unanimità attorno alla politica della fermezza, le interferenze dei servizi e della mafia per giungere all’esito letale rendono l’idea di un blocco di potere tremendo che certamente trascende da un „pezzo deviato“ a cui addossare le colpe: la congiura trovò in quel blocco un contesto molto, ma molto favorevole, anche se naturalmente non tutti vi parteciparono: Ed era un blocco che negli stessi limiti ma altrettanto, poteva schiacciare la piccola armata che cominciò la vicenda ed è lecito dubitare l’abbia chiusa»[68].
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Gli appartamenti di via Gradoli ed il ruolo del Sisde
Gli appartamenti di via Gradoli erano di proprietà di società che erano legate al Sisde come società di copertura, come sostiene Flamigni.[69]
Di questa traccia si trovano vari documenti ipertestuali. Ne cito uno di Haganah:
“Craxi osserva che se Flamigni può documentare che a via Gradoli c’era un appartamento di proprietà del Sisde, allora «tutta la tragica vicenda andrebbe riletta da cima a fondo: se fosse vero sarebbe una verità esplosiva».”[70]
La Repubblica chiede ironicamente “Che pensare degli investigatori che nel corso di un sopralluogo nell'appartamento di via Montalcini non notano nulla di strano, mentre sul pavimento ci sono, belle evidenti, le tracce del muro che occultava la cella di Moro?” [71]
Due sono le rivelazioni principali del libro Convergenze parallele di Sergio Flamigni:la prima è che a via Gradoli 96, dove Moretti collocò la base operativa delle Br romane, c'erano 20 appartamenti intestati a società di copertura del Sisde. La seconda è che nelle Br di Curcio, l'Ufficio Affari Riservati del Viminale era riuscito ad infiltrare un suo uomo, Francesco Marra, un ex parà che fece parte del commando che rapì il giudice Mario Sossi. E poi i documenti della scoperta del covo di via Gradoli 96 scomparsi financo dal commissariato Flaminio così come non esistono più nemmeno le piantine di quell'appartamento presso il Catasto.[72]
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Il ruolo del Magistrato Luciano Infelisi
La totale indifferenza dello Stato nei confronti del Caso Aldo Moro è dimostrata ancora una volta dopo la morte dello statista. È utile sottolineare che solo un magistrato si occupava del caso, Luciano Infelisi, quando solitamente vi è un’intera commissione.
Mino Pecorelli, l’OP, Dalla Chiesa e il ruolo del divo e Belzebú Giulio Andreotti
Nel 1979 si ritrovarono i memoriali o meglio la versione “censurata” a Milano in Via Monte Nevoso.[73] Erano le 400 pagine mancanti del memoriale che riguardavano GLADIO. Il generale Dalla Chiesa prese in mano personalmente il materiale e affidò il tutto ad Andreotti personalmente. Tutto? Egli sarebbe stato stupido se avesse dato gli originali e non le fotocopie. Moro accennò in una lettera a Cossiga che era diventata una vittima:
"Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità [...] è inammissibile."[74]
Il visionario Moro immaginava, a ragione, una catena logica che partiva dal suo dialogo con quell’individuo molto vicino a Kissinger e si snodava con Andreotti come capo dei servizi segreti, la relazione di Andreotti con l’intelligence CIA e quella italiana, la “strategia della tensione” da parte della P2 e GLADIO. Moro con il suo “compromesso storico” tra DC e comunisti costituiva il problema più spinoso che disturbava troppa gente. Infatti, Moro parlò nei memoriali di un “accordo segreto” tra la DC ed i vari organi dello Stato.
Pecorelli attaccò duramente, in un suo scritto, Andreotti per i suoi rapporti con Sindona e per il suo ruolo nella vicenda Arcaini-Caltagirone-Italcasse.
“Ora – scrive la Procura di Palermo - proprio questa complessa vicenda era risultata connessa a quella dei c.d. "assegni del Presidente", di cui si parlerà oltre; e su entrambe aveva messo gli occhi Pecorelli, il quale ne aveva colto i collegamenti, come dimostra un appunto ritrovato tra le sue carte, del seguente testuale tenore: "È una bomba! L’Italcasse non è finita / è appena iniziata - Ai primi dell’anno verrà fuori chi ha preso gli assegni". Quegli assegni, in realtà, erano soltanto la punta di un iceberg. E la parte sommersa dell'iceberg era costituita dalla convergenza di interessi di Cosa Nostra, proprio nelle vicende sulla base delle quali Mino Pecorelli andava svolgendo il suo attacco contro Andreotti, nel periodo immediatamente antecedente alla sua morte.”[75]
Pecorelli aveva già preparato la copertina e l'articolo, che non furono mai
pubblicati perché la sua morte venne decisa prima.
Pecorelli, usato come loggista P2 dai servizi segreti per diffondere messaggi cifrati si esponeva coraggiosamente ma anche ingenuamente. Richard Drake descrive il giornalista molto bene:
„Lo stile di Pecorelli era allusivo e criptico, ed egli si serviva di oscuri riferimenti che soltanto chi era introdotto nell’ambito dei servizi poteva cogliere. Il giornalista mescolava fatti e invenzioni, ma articolo stranamente profetico sul caso Moro fece una profonda impressione su Mele“[76]
Vittorio Mele, il procuratore della Repubblica di Roma, parla pure del fatto che Andreotti abbia pagato a Pecorelli 30 milioni di Lire per non pubblicare scandali su "OP”. Pecorelli ha ricevuto questi soldi un giorni prima della sua morte.[77]
Infatti, per quanto riguarda la vicenda Italcasse e gli assegni della SIR (e cioè gli "assegni del Presidente"), era stato oggettivamente accertato l'inserimento degli interessi di Cosa Nostra, rappresentati da Giuseppe Calò. E le "indagini" di Pecorelli rischiavano di portare alla luce un collegamento (realizzato, come sempre, in forma non diretta, ma mediata) tra Andreotti, fatti e persone che conducevano con certezza nella direzione di un investimento di capitali provenienti da esponenti di Cosa Nostra.[78]
Ed è significativo il fatto che proprio su questo collegamento aveva messo gli occhi Pecorelli, il quale - con il suo consueto stile giornalistico, intessuto di segnali e di allusioni comprensibili appieno soltanto da determinati destinatari - lo aveva prospettato fin dal 14 ottobre 1977, in una nota di "OP Agenzia" dal titolo "Presidente Andreotti, questi assegni a Lei chi glieli ha dati?", e che iniziava con queste parole: "Questo è un primo elenco di assegni bancari rappresentanti un pagamento effettuato personalmente, "brevi manu", dal Presidente del Consiglio (attuale) On.le Giulio Andreotti per un ammontare complessivo che supera i 2 miliardi di Lire".
Dei memoriali Moro mancanti fino al 1979, in altre parole dei documenti originali scomparsi contenenti la trascrizione dei «verbali» degli «interrogatori» a Moro da parte delle Br, ne sono stati copiati una parte, un’altra parte è stata omessa per far sparire quello che ora è chiaro a tutti. Comunque ne mancavano ancora più di 400 pagine interamente.
Pellegrino afferma: “Perché non corrispondono le due copie del memoriale? Questa è una cosa che francamente per quanto io mi sforzi di credere a Bonisoli ed Azzolini trovo estremamente illogico. Io trovo estremamente logico che fossero stati i carabinieri a selezionare attentamente il materiale e a depurarlo delle parti...” [79]
E qui riprende l’attività giornalistica ed indagativa di Mino Pecorelli nel soprannominato articolo che uscì su “OP Osservatore Politico” con il titolo: “Caso Moro: Memoriali veri – Memoriali falsi – Gioco al massacro.” Lo stesso Pecorelli aveva un secondo articolo da pubblicare sempre su OP:
“Gli assegni del presidente” [Andreotti, n. mia]. In questo articolo Pecorelli chiede a chi sarebbero stati destinati questi assegni. La risposta all’interrogativo di Pecorelli poteva avere solo una fonte: i memoriali mancanti di Moro. Pecorelli aveva già preparato la copertina e l'articolo che non poté però pubblicare, verrà ucciso il 3 settembre 1979.
L'ultima pista del giornalista porterebbe alla lista dei 500 e ai misteri ancora irrisolti dell'affare Sindona. Pecorelli era ormai diventato un esplosivo vivente.
Due anni prima del delitto di Moro esce su OP un articolo: La caricatura[80] accompagnato dal seguente testo: “Il santo del compromesso: vergine, martire e ... dimesso” Nel contenuto del “RR 19877 del 2.7.75 si legge
“oggi, assassinato con Moro l’ultimo centrosinistra possibile, muore insieme con il leader pugliese ogni possibilità di sedimentazione indolore delle strategie berlinguerriane. “ R. Drake
e con la data del 30.10.75 con RR21044
“Basta con quei due: Fuori Moro o fuori Zac - e più in avanti - in quell’occasione, se Moro vivrà ancora, ...”
Pecorelli scisse su OP (7/75 e 9/76):
“Esistono prove documentabili che il presidente del Consiglio [Andreotti] ha percepito un miliardo da Michele Sindona. Un altro miliardo ... 15 miliardi ...” Insomma, la testa di Sidona è troppo decisiva per gli squilibri del Mediterraneo perché possa restare ancora troppo a lungo ancorata sulle sue spalle ...”[81]
Sindona venne assassinato e tacque per sempre.
L’importanza di frenare con urgenza Pecorelli è dimostrato dal luogo del delitto. Solo pochi minuti dopo la sua morte si “incontrano” nel posto dove era avvenuta l’uccisione, la polizia, TUTTI i servizi segreti, la DIGOS ed un magistrato.
Nell’agendina di Pecorelli si poté leggere che aveva fissato un appuntamento, per la mattina, con Dalla Chiesa (che prima andò da Cossiga? Ma Cossiga volle prima consultarsi “più in alto”). Dalla Chiesa prese i memoriali (o – meglio - le fotocopie?) e affidò il tutto ad Andreotti (tutto?). Ovviamente tenne gli originali e ne nascose una parte. Pecorelli scrisse degli assegni di Andreotti nel nominato articolo. [82]
Dalla Chiesa era probabilmente giunto, secondo le persone “più in alto”, vicino a quel momento delicatissimo della consegna dell’esplosiva parte mancante dei memoriali in cui si parlava di GLADIO e degli assegni. Dalla Chiesa pagò le sue conoscenze con la sua vita. Il tramite tra Dalla Chiesa e Pecorelli sarebbe stato secondo il Pm Cardella il generale dei Cc Galvaligi, assassinato la sera dell’ultimo dell’anno del 1980.[83] Nel 1993 Andreotti ammette “Si, ho mentito”. Nell'agosto 1993 il Senato concede l'autorizzazione a procedere contro Andreotti e il mafioso Calogero Ganci ammette nel giungo ’98 di aver ucciso Dalla Chiesa.
Franco Evangelisti, allora senatore DC parlò del suo ruolo come messaggero tra Andreotti e Dalla Chiesa. Descrisse una visita alle due di notte quando Dalla Chiesa si presentò con un dattiloscritto che diceva provenisse dalla prigione di Moro. Mele concluse su quel documento che
“potrebbe trattarsi del cosiddetto memoriale”[84].
Il testimone Ezio Radaelli sostenne che un emissario di Andreotti aveva cercato di fare pressioni su di lui perché cambiasse la sua deposizione riguardo ai movimenti finanziari del senatore. (Drake, p.257)
Andreotti voleva Dalla Chiesa morto come dichiara Buscetta (vedi prossimo capitolo).
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Le "carte di Moro" e il delitto Pecorelli. Le dichiarazioni di Antonio Mancini[85]
Tommaso Buscetta, uno dei più importanti pentiti per la Giustizia, accusa Andreotti di essere il mandante di Pecorelli e sostiene che quello di Moro fu un assassinio politico ordinato a causa della paura che si scoprissero “certe cose”. In un articolo di Panorama, Buscetta viene citato con:
“quello di Pecorelli era stato “fatto” da Cosa Nostra, ... su richiesta dei cugini Salvo[86].”
e prosegue
“quello di Pecorelli era stato un delitto politico voluto dai cugini Salvo, in quanto a loro richiesto dall’onorevole Andreotti.” E più in avanti “sembra che Pecorelli stesse appurando “cose politiche” collegate al sequestro Moro. E Giulio Andreotti era appunto preoccupato che potessero trapelare quei segreti, inerenti al sequestro dell’onorevole Moro, segreti che anche il generale Dalla Chiesa conosceva. Pecorelli e Dalla Chiesa sono infatti “cose che si intrecciano tra loro”. Badalamenti mi disse anche che verso la fine del terrorismo, il generale Dalla Chiesa era stato promosso per “toglierlo dai piedi”.[87]
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Il ruolo del superpentito Buscetta
Nel 1979 Buscetta era ancora in prigione, egli fu ancora una volta incaricato di contattare le Brigate rosse, in questo caso riguardo alla possibilità che l’organizzazione si assumesse la responsabilità dell’uccisione di Dalla Chiesa. Andreotti lo voleva vedere morto, ma la mafia non aveva, nel 1979, un motivo plausibile agli occhi degli altri per questa operazione in quanto il generale non aveva ancora al suo attivo nessuna azione repressiva nei confronti dei mafiosi.
Buscetta doveva convincere la mafia ad eseguire l’omicidio a condizione però, che le Br, che ne avevano i motivi migliori, lo rivendicassero.
In questo modo la mafia avrebbe evitato le indagini che potevano condurre alla scoperta dell’intreccio, dal quale dipendeva la protezione politica dell’associazione criminale. Andreotti non poté realizzare il suo desiderio di vedere Dalla Chiesa ucciso fino al 1982. (Drake, p. 251-2). A quel tempo, con il generale in Sicilia per una missione espressamente antimafia, una copertura del tipo prospettato nel 1979 non era più necessaria.Ci si chiede, (anzi sembra chiaro) se Dalla Chiesa è stato trasferito di proposito in Sicilia. Tommaso Buscettaha riferito che
"lo avevano mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui".[88]
Lo Stato lo accompgno alla morte con la sua “generosità” assegnandoli la macchina blindata e l´aereo.
Buscetta comunque ribadì che era Andreotti che voleva Dalla Chiesa morto, per porre fine ai suoi timori riguardo a ciò che il generale avrebbe potuto fare con certe carte di Moro. (Drake, p. 252).
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Il processo Pecorelli a Perugia
28 aprile 1999: Processo Pecorelli a Perugia: proseguendo la loro requisitoria, i pm del processo ribadiscono l'attendibilità delle affermazioni di Tommaso Buscetta, secondo il quale il movente del delitto Pecorelli va cercato nei "segreti inconfessabili" custoditi dal giornalista sul rapimento di Aldo Moro, segreti che anche il gen. Dalla Chiesa conosceva e per questo i due omicidi "si intrecciano fra loro". Buscetta è stato il primo a parlare di quanto riferitogli da Gaetano Badalamenti e cioè del legame fra l’omicidio del giornalista, dell'alto ufficiale e dei "segreti" del rapimento del presidente democristiano, e a riferire che entrambi i delitti erano stati eseguiti dalla mafia "ma non per interesse della mafia". Che Pecorelli fosse bene informato sul caso Moro è provato - secondo l'accusa - dagli stessi articoli di "Op". In merito ai rapporti fra il direttore di Op e il generale dei carabinieri, il pm Alessandro Cannevale ha detto:
"tali rapporti erano di natura diversa da quelli che un cronista può avere con un personaggio utile al suo lavoro, anche perché Dalla Chiesa non era persona facilmente avvicinabile".
30 aprile 1999. Processo Pecorelli a Perugia: Secondo i giudici quello di Pecorelli è un omicidio voluto dal presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e da un magistrato, Claudio Vitalone e dal gruppo politico-finanziario nel quale era inserito; disposto dai boss mafiosi Giuseppe Calò e Gaetano Badalamenti; eseguito da un killer di Cosa nostra, Michelangelo La Barbera, e da un estremista nero, Massimo Carminati, considerato vicino alla Banda della Magliana.
Tali elementi di prova risultano, innanzi tutto, dalle dichiarazioni di vari collaboratori di Giustizia, già appartenuti alla Banda della Magliana. Si tratta di Antonio Mancini, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino, Vittorio Carnovale, i quali hanno riferito le informazioni in tempi diversi sia alla Procura di Roma sia alla Procura di Perugia. Attraverso la testimonianza di Mancini l’Accusa cerca di ricostruire i fatti accaduti.
Secondo la Procura di Perugia Pecorelli è stato ucciso perché era entrato in possesso di notizie "inedite e pericolose" che potevano arrecare "grave danno" ad Andreotti e l’anello di collegamento con l'omicidio del giornalista sono le carte di Aldo Moro, i memoriali recuperati nel 1978 in via Monte Nevoso, o meglio quel "passo" che si troverà solo nel 1990, nelle quali Moro svelava ai suoi carcerieri i retroscena delle nomine dei vertici bancari, dell’Italcasse in particolare (la successione ad Arcaini decisa da Caltagirone con l’appoggio di Andreotti). Carte letali, per i giudici di Perugia, quelle di Moro, tanto da unire in un unico destino non solo Pecorelli, ma anche il generale Dalla Chiesa e Francis Turatello.[89]
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Il presidente della commissione Stragi Pellegrino e le sue tesi
Sabato 10 Luglio 1999: Pellegrino, presidente della Commissione stragi, afferma:
«Il rapimento di Moro fu un doppio rapimento».
Al momento non vuole aggiungere altro, ma s’intuisce che le “importanti novità” cui sarebbe giunto in quest’ultimo periodo l’organo bicamerale d’inchiesta riguardano i nuovi personaggi che s’intravedono dietro la strategia terrorista.[90]
1 marzo 1999. Il presidente della commissione Stragi Giovanni Pellegrino insiste:
“se si vuole cercare di capire meglio il caso Moro occorre approfondire la pista del Mossad, sulla quale sta già lavorando da tempo la sua commissione.”
Pellegrino ripropone anche il mistero sull"anfitrione", colui cioè che a Firenze ospitò e protesse i vertici delle Br durante il sequestro Moro.[91]
"Morucci in una sua audizione disse che avremmo fatto dei passi avanti se Moretti ci avesse detto chi era il padrone della casa di Firenze dove si riuniva il comitato esecutivo delle Br durante i 55 giorni."
E questo, per Pellegrino è un dato di fatto così come lo è la traccia che parte da Firenze e arriva a Via Monte Nevoso a Milano. Secondo Pellegrino sono molti gli elementi che provano che:
"a Firenze c'è qualcosa di importante che ancora non si è conosciuto".
E a proposito di questo dichiara che Flaminio Piccoli[92], in una sua audizione, fece dell'anfitrione "un identikit estremamente preciso tanto da far pensare che ne conoscesse il nome" (Piccoli definì l'anfitrione "un vip del culturame". La pista che porta al Mossad, per Pellegrino, è legata alla sentenza del giudice Mastelloni su Argo 16 e il recente libro del generale Delfino nel quale si legge di un "referente delle Br rimasto occulto e dietro il quale ci sarebbe un intreccio di servizi: Cia, Kgb e Mossad".[93]
Giovedì 18 marzo 1999. Il sen. Giovanni Pellegrino, in un'intervista al quotidiano Il Tirreno, rilasciata il 17 marzo, il giorno prima dell’audizione di Franceschini, dice:
"Il contatto tra Mossad e Brigate Rosse emerge dagli atti giudiziari.”
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L’affermazione del giudice istruttore Ferdinando Imposimato, nei primi due processi Moro del 20 marzo 1999
"Quello che ha detto Alberto Franceschini è vero. Anche io ho avuto conferme che le Br, sin dalla loro nascita, ebbero contatti con il Mossad. All'epoca rimasi persino stupito del fatto che i servizi israeliani arrivarono a contattare le Br prima di quelli italiani. Sin dall'80 ebbi la conferma di questi contatti tra Mossad e Br avvenuti grazie alla mediazione di un avvocato penalista milanese che poi in seguito individuai, senza averne peraltro mai la prova certa, in Spazzali. Il primo brigatista a parlare del Mossad fu Patrizio Peci e dopo ... Sarebbe interessante, ad esempio, leggere i verbali che durante i famosi 55 giorni il comitato di crisi avrebbe dovuto redigere e che invece risultano scomparsi.”
Sarebbe fondamentale conoscere chi ospitò a Firenze la direzione strategica delle Br. E ricordarsi che l’esperto americano della intelligence Pieczenik[94], che di recente ha dichiarato che in Italia Moro non lo si volle liberare, era stato mandato da Kissinger apposta per impedire che Moro fosse salvato.
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20 marzo 1999 Il Tirreno pubblica un articolo sull’audizione di Flaminio Piccoli del 30 ottobre 1991, desecretata pochi giorni prima.
«Piccoli è stato il primo a sostenere la presenza di una figura anomala nell'ambito dei brigatisti che gestivano il sequestro Moro, tracciandone un identikit piuttosto preciso. Durante l'audizione il misterioso personaggio successivamente indicato come "l'anfitrione" viene chiamato "il quarto uomo". Per Piccoli, il quarto uomo rappresenta "la mente" del nucleo di individui che gestivano il sequestro. "Quelli che sono stati imprigionati - spiega Piccoli - eramo i militanti e non i cervelli". Secondo Piccoli, quella sorta di suggeritore "frequentava i salotti bene ed era collegato ad ambienti diversi da quelli che frequentavano le Br. Ho sempre dichiarato che vi era un uomo collegato ad altri ambienti, direi un vip". «Questo quarto nome che lei è convinto fosse presente durante gli interrogatori - chiese la commissione a Piccoli - dato che esclude l'ipotesi di convolgimento di servizi segreti stranieri, pensa che fosse un intellettuale italiano»? E Piccoli rispose: "L'onorevole Scelba parlava di 'culturame'". "C'è stato un giornalista - continuano i membri della commissione - che ebbe un colloquio a Arezzo in cui gli venne detto che il generale Dalla Chiesa aveva avuto questi documenti di via Monte Nevoso. Il discorso è fatto da un carabinieri che li aveva asportati di soppiatto, senza farli risultare dai verbali di perquisizione e di sequestro. Dalla Chiesa li avrebbe poi portati a qualcuno e non li avrebbe mai più potuti vedere. Lei ha già detto che a questo non crede minimamente. È anche vero che su questo punto sono stati costruiti molti discorsi. Uno di questi è che Dalla Chiesa li avesse dati a qualcuno rimasto misterioso, una persona importantissima". Piccoli risponde: "Di questi ritrovamenti, ne sono sempre stato convinto e lo resto, ne potremo avere ancora.
C'è chi ha interesse - e potrebbe essere questo quarto uomo - e chi ha avuto interesse a creare macchinazioni e confusione per togliere alla vicenda Moro la sua tragicità di dramma politico e farla diventare una tragedia alla Mayerling. Dentro la vicenda ci saranno stati anche masnadieri, ma non i lazzaroni da trivio".
Un altro articolo de "Il Tirreno" si occupa del covo fiorentino e dell’audizione di Alberto Franceschini in commissione stragi. che indaga sul caso Moro. L'ex Br ha espresso dubbi sul ritrovamento del borsello che apparteneva ad Azzolini e che fu scoperto dentro un autobus della zona di Careggi nell’agosto del 1978.
All'interno c'erano, tra le altre cose, biglietti e un mazzo di chiavi del portone del covo di via Monte Nevoso.
"Al di là delle versioni contrastanti fornite fino a oggi - spiega il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino - sta emergendo la possibilità che a consegnare il borsello e a indicare il covo sia stata una fonte coperta, e rimasta tale, dai carabinieri". Può esistere un collegamento tra questa ipotetica fonte coperta e l'attività dell’anfitrione? "Franceschini non ha saputo dirci nulla. Il vero problema, se e quando scopriremo l'identità di questa persona, sarà possibile renderci conto fino a che punto non fosse già conosciuta ma soprattutto da chi. Potrebbe essere un personaggio talmente autorevole che da Firenze potrebbe aver parlato a nome dell'intero comitato esecutivo».
Un problema che la commissione si pone è ad esempio come la direzione strategica formata da Moretti, Bonisoli, Azzolini e Micaletto, persone che abitavano tutte in città diverse e che per riunirsi si spostavano in treno, riuscissero in così breve tempo a produrre e diffondere nella penisola i comunicati (tutti e nove scritti a Firenze e con la stessa testina rotante, anche questa mai trovata, di una Ibm elettrica). Era una delle attività affidate all'anfitrione? Ma la pista che collega Firenze a Roma e a via Monte Nevoso conduce, secondo il presidente Pellegrino, anche ad un'altra riflessione. "Sì, a quella sulle dinamiche interne al movimento Br. La modalità della scoperta di via Monte Nevoso può indicare una lotta serrata per la leadership dell'organizzazione. Mario Moretti conduceva una battaglia per tenere saldo il controllo». Franceschini ha detto in commissione: "Moro è morto perché ha detto alcune cose negli interrogatori. Su quelle cose si è aperta una contrattazione segreta. Si conosceva la prigione e si credeva possibile la liberazione, ma per le cose che lui disse, inaccettabili per il sistema politico, il suo destino divenne mortalmente segnato". Ma le questioni trattate da Moro, nota "Il Tirreno", divennero pubbliche solo dopo la scoperta delle carte conservate in via Monte Nevoso. L'anello fiorentino che ancora manca collega Br, settori delle istituzioni e personaggi ambigui che avrebbero giocato su più tavoli? Secondo Franceschini tratti di ambiguità li avrebbe presentati lo stesso Moretti. "Il primo a dire che Moretti era spia - ha detto - è stato Curcio". "Franceschini ci ha fatto capire - ha spiegato Pellegrino - che Moretti era collegato a Hyperion che ha definito "tecnostruttura" e che Moretti la percepiva come centrale del controllo rivoluzionario. In pratica Moretti potrebbe aver rappresentato qualcosa di più delle sole Br proprio per il contatto con quella struttura".»
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Attualità - L‘Anfitrione di Firenze, il “Grande Vecchio” e il fumetto Metropoli
Chi è l‘anfitrione? L‘anfitrione di Firenze è il proprietario della casa fiorentina dove si riuniva la direzione strategica brigatista durante il sequestro. È ancora un uomo oscuro indicato con tanti sinonimi.
"Il Tirreno" pubblica sulla vicenda anche altri articoli. Antonio Marini, il magistrato che come sostituto procuratore della Repubblica di Roma ha indagato sul caso Moro fino al 1998, dice:
"Da sempre sappiamo che buona parte del sequestro Moro è stata gestita da Firenze, ma non siamo mai riusciti a trovare elementi". Marini ricorda l'audizione in cui Valerio Morucci parla di Mario Moretti defininendolo "la sfinge" e invita a capire cosa avvenisse a Firenze, dove si riuniva il comitato esecutivo e chi fosse il personaggio che ospitava i dirigenti brigatisti. Per Marini l'"Anfitrione" è un intellettuale, che non parla il linguaggio delle Br "e che oltre a ospitare i membri del comitato esecutivo probabilmente ricopriva anche il ruolo di suggeritore".
L’Espresso scrive:
“Da quando Valerio Morucci, nel giugno di due anni fa, parlò in Commissione dell'anfitrione, è sceso un silenzio di tomba. Anche le persone che avevano dato cenni di disponibilità - mi riferisco a Mario Moretti, a Bonisoli, Azzolini e a Laura Braghetti - dopo quel momento si sono rifiutati di venire in commissione. Stessa questione per quanto concerne il possibile contatto con il Mossad. È calato un silenzio totale anche in quelle persone che almeno per chiarire la proprio posizione, prima intervenivano."
L’Espresso del 10 giungo Br e Prima Repubblica / una testimonianza - Grande vecchio, I presume riscavando nella storia contemporanea, fa emergere il nome di colui che Pecorelli aveva indicato come Igor.
Martedì 20 aprile 1999. Alcuni parlamentari chiedevano notizie del vero regista del caso Moro. Il presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi Giovanni Pellegrino ha interrogato l'ex ministro socialista Claudio Signorile introducendo il discorso sul famoso fumetto del mensile "Metropolis" che a suo tempo pubblicò un'inquietante ricostruzione del delitto Moro.[95]
Il fumetto fa vedere un volto nascosto che partecipò all’interrogatorio di Moro. Si suppone che le domande sarebbero state precostituite, cioè formulate in ambienti esterni alle Br. Con ciò la possibilità di riconoscere in una persona precisa l’ombra del “grande vecchio”, molti giorni prima che lo stesso Pellegrino si interrogasse sulla figura e il ruolo di Igor Markevitch come possibile anfitrione delle Br nei giorni del sequestro Moro. Per questo sembrava a L’Espresso interessante rileggere le dichiarazioni di Signorile e le domande che Pellegrino gli fa forse già informato della nuova pioggia di presunte rivelazioni.
Pellegrino chiese a Signorile se avesse riferito a qualcuno l'esito dei suoi colloqui con Fanfani. «Sì, a Franco Piperno», era la risposta. E Pellegrino, di rimando:
«Metropolis è Piperno e quindi è lui che dà i contenuti al fumetto».
Signorile giura di non averlo mai visto, Pellegrino ribatte che i commissari lo studiano perché «è pieno di strani messaggi». E finalmente giunge la domanda:
«Lei ci ha detto di non credere al Grande Vecchio. Tuttavia, nel fumetto di "Metropolis", che è estremamente realistico, si rileva una singolarità che è quasi un messaggio: dell'uomo che interroga Moro non viene disegnato il volto».
Signorile risposta con: «Evidentemente è un volto collettivo»[96].
Infatti, pure la magistratura di Brescia[97] è tornata sulla vecchia pista tracciata in maniera enigmatica da Mino Pecorelli su "Op" subito dopo l'assassinio di Aldo Moro. L’anonimo ospite ed Igor sono state ipotizzate come unica persona. La pista è quella che porterebbe ad Igor Markevitch, come persona che secondo ricostruzioni avrebbe ospitato i capi Br nella sua villa in Toscana.[98]
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Conclusione
Mario Scialoja scrive su L’Espresso del 02.07.1998 un articolo dal titolo Caso Moro / Dietro i sospetti di Scalfaro C‘era un covo a Firenze, nel quale parla dell’intervista a Scalfaro al Quirinale dove ci fu un incontro tra Oscar Luigi Scalfaro e il senatore Giovanni Pellegrino.
Il brigatista Morucci raccontò alla Commissione stragi che, secondo lui, Moretti riceveva direttive da terze persone e alla base di queste affermazioni il capo dello stato, in occasione del ventennale della morte di Aldo Moro, all’Università di Bari fa il 9 maggio del 1998 dichiarazioni che darà vita ad una disputa.
Un insieme di processi è riuscito ad arrivare ai responsabili del terribile crimine, ma Scalfaro, e la sua è opinione comune, dubita che la Giustizia sia riuscita o abbia avuto l’intento di colpire le menti che diressero l’intero scenario. Sulla domanda di Pellegrino:
“le intelligenze criminose che scelsero e centrarono il bersaglio, in quel momento politico essenziale, sono comprese in questi processi? ...”
La risposta sottintesa di Scalfaro era un "no" e che ha dato vita ad un'aspra polemica con il senatore Francesco Cossiga, all'epoca del caso Moro ministro degli Interni, convinto che non vi siano altri livelli nascosti del partito armato.
Scalfaro sostiene che si ha “la sensazione che loro non furono altro che dei colonnelli. I generali, secondo lui, devono essere ancora individuati”. Quella di Scalfaro somiglia molto all'ipotesi del Grande Vecchio che avrebbe tirato i fili delle Br. La tesi di Scalfaro sarebbe quella dell’esistenza di un livello "superiore" di Br. Tuttavia la commissione si allontana dall’opinione di Scalfaro: Scialoja chiede a Pellegrino se la sua analisi andrebbe nella direzione di quella del capo dello Stato. La risposta è definitiva:
“No. Siamo arrivati alla conclusione che il delitto Moro sia stato un delitto poco contrastato: nel senso che non c'era un vertice misterioso sopra le Br, ma che c'era nello Stato qualcuno che ha favorito l'azione delle Brigate rosse. E più andiamo avanti nelle indagini, più questa convinzione si rafforza.”
Il 5 dicembre 1998 chiede Andrew Gumbel del “The Independent” di Londra in un articolo dal titolo „The riddle of Aldo Moro: was Italy's establishment happy to see him die? Many say the police did not do all they could to save the ex-PM kidnapped 20 years ago“ se sarebbe piaciuto allo stato italiano vedere morto Moro. Nel giugno 1980 occorreva l’iniziativa del giornalista Luca Villoresi de „La Repubblica“ per arrivare alla tanto desiderata scoperta: Grazie ad un „tip anonimo“ telefonico scoprì il luogo dell’appartamento romano in Via Montalcini.[99]
Grazie alle iniziative di un giornalista come Pecorelli che fece prendere la cornetta in mano a polizia, magistrati, politici ed altri giornalisti riuscì a superare l’inerzia dello Stato, ma lo stesso non riuscì a giungere a niente.
Una parte dello Stato (i trattativisti) non fecero infatti niente per salvare Moro, perché non solo in tanti avevano sfiducia negli apparati di sicurezza ma ne temevano l'inefficienza e l'inaffidabilità. Come dire che se fosse stata tentata un'operazione per salvare Moro si sarebbe potuta concludere tragicamente.Gli altri pensarono di non fare nulla che potesse favorire la liberazione di Moro adottando la strategia della fermezza, in maniera gewollt erfolglos (volutamente fallita).Infatti, l’ufficiale di Gladio, Roberto Cavallaro ammette, durante un’intervista a L’Espresso nel novembre 1990, che durante la strategia della tensione furono integrate anche le organizzazioni dell’estrema sinistra e che una buona parte dei terroristi, indifferentemente dal fatto che fossero rossi oppure neri, lavoravano su delega o spinta dei servizi segreti.
Il settimanale romano Europeo svelò, il 27 ottobre 1978, l’esistenza di un manuale contenente istruzioni per attacchi terroristici, che era stato presentato nel novembre 1970 dal Pentagon: »Field manuel« 30-31. Il ‘manuale del campo di guerra’ illustrava pure come ci si mette su piste finte, come si usano gli infiltristi e con quale esplosivi si lavora. In pratica costituiva la base per la strategia della tensione di Gladio.
Puro Moro (che previde la sua fine e la fina del sistema politoco) si chiede nell’ultima lettera che scrive a Riccardo Mesasi:
“Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va invece che in prigione, in esilio?”
ed in un’altra lettera afferma:
“il mio sangue ricadrà su di loro”.[100]
Insieme a Moro, un altro visionario, Pecorelli aveva anticipato con le sue parole gli avvenimenti che si sarebbero succeduti di lì a poco.
Da una lettera che inviò Moro a Zaccagnini veniamo a sapere:
"Ma è soprattutto alla DC che si rivolge il Paese per le sue responsabilità, per il modo come ha saputo contemperare sempre sapientemente ragioni di Stato e ragioni umane e morali. Se fallisse ora, sarebbe per la prima volta. Essa sarebbe travolta dal vortice e sarebbe la sua fine [...] se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d'Italia. Il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul Paese". [101]
Perciò Villoresi, Pecorelli e Moro dovevano pagare – come anche Dalla Chiesa e tanti altri – per tacere con il prezzo più alto, la loro vita.
Pellegrino afferma, il primo maggio 1999 a proposito della verità ricercata tramite le sue indagini, che per lui è come
“vivere una condizione di solitudine, fra una sinistra che sembra abbastanza disinteressata al problema e una destra che invece tende a dimostrare che è tutto sbagliato, che sono solo teoremi giudiziari".
Un pensiero già anticipato dal visionario Moro. Il 24 aprile 1978 egli scriveva:
”Non creda la D.C. di aver chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della D.C. si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per un’evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini del partito."[102]
E ancora in una lettera di Moro del 30 aprile 1978 c’è una frase che merita in particolare la nostra attenzione:
“Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli... Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la DC, né per il Paese: ciascuno porterà la sua responsabilità.“
Moro era ormai certo che nulla sarebbe stato fatto per salvarlo.Cossiga conferma questa preoccupante tesi di Moro. Al tempo del processo Moro quarter, alla fine di novembre 1993 Cossiga rilasciò la sua prima (!) intervista alla televisione circa il caso Moro e le Br. Stranamente occorrevano dei giornalisti stranieri (della tivù tedesca WDR) per sapere l’esistenza di un piano. Egli parlò di due piani, Moro-Mike e Moro-Victor: il primo nel caso che Moro morisse, il secondo nel caso che Moro uscisse vivo[103]. Drake commenta questi piani con:
”Il solo fatto che un tale piano fosse esistito rafforzava l’immagine di un governo italiano che mancava dell’intelligenza, della capacità e dell’integrità necessarie in una vera democrazia.”[104]
Occorre ancora l’impegno di individui come il figlio di Moro, per poter portare avanti la questione. Il figlio ha, nel marzo 1999 per la commissione stragi, fatto un lungo elenco di "buchi" nella vicenda per poi chiedere luce su quelle piste “possibili, vere o verosimili” per dimostrare come altri, per l’ennesima volta, che non tutto è stato chiarito.
Anzi, secondo lo storico americano Richard Drake, gli americani si attivarono, e inviarono in Italia uno dei maggiori esperti del terrorismo mondiale: Steve Pieczenik. Giunto a Roma in mezzo a gente che sembrava non sapere cosa fare, si ritrovò invece scomodo quando suggeriva la strategia e le tattiche da seguire per portare a termine con successo il negoziato con le Br. In seguito scriverà: "Troppe scuse furono addotte per giustificare il perché i miei suggerimenti non potevano essere seguiti. Presto ho avuto la sensazione che non vi fosse la volontà politica di salvare Aldo Moro, e ho intuito che la mia presenza in veste di esperto serviva solo a legittimare le indagini del governo italiano; per questo me ne sono andato prima del previsto". Drake cita Katz, il quale riferisce che Pieczenik sarebbe rimasto sbalordito (“amazed”) nello scoprire che i generali e gli uomini politici al Viminale non vedevano di buon occhio Moro.[105]
Morucci e con lui gli altri brigatisti che hanno depositato in tribunale sono stati spesso contraddittori e comunque non hanno rivelato per intero quello che sanno. Sommando la mancanza dell’interezza delle rivelazioni delle Br davanti alla giustizia ai segreti “inconfessabili” che più di qualcuno custodisce, il caso Moro rimane imperdonabilmente aperto.
... e:
Roma, Sabato 14 Agosto 1999
“Il Messaggero”: il sostituto procuratore generale: ridurre la presunzione di innocenza e cancellare le attenuanti generiche
«Troppi condannati in libertà»
Il pm Marini: dopo il primo grado si dovrebbe finire in cella, ma non è cosìdi Massimo Martinelli.
“ [...] Scusi, ma la Procura generale non viene consultata prima di concedere benefici ai detenuti. Lei cosa ha fatto?
Il magistrato della Procura Generale di Roma, Marini:
«Io molto spesso mi sono opposto a concedere benefici, anche a personaggi illustri. Mi opposi alla semilibertà a Toni Negri; dopo sei mesi ho saputo che ha rifatto la domanda e gliela hanno concessa. Vuole altri esempi? Germano Maccari, l’ho fatto condannare in primo e secondo grado a trent’anni per il delitto Moro. Ha pure confessato. Ma per la legge è un presunto innocente. E anche lui è a casa, come tanti».[106]
inizio
Note a piè di pagina (pross.mente e seperate in un proprio frame)[1] Cfr. Il presidente della Commissione stragi, Pellegrino in: Il Messaggero, Sabato 29 Maggio 1999 “L’inchiesta mai chiusa/ A parlarne fu il giornalista Mino Pecorelli su Op pochi giorni prima di essere assassinato“.
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm
[2] Bolognesi, Paolo, Vice presidente Associazione familiari vittime strage Bologna del 2 Agosto 1980 Bologna in: http://www.comune.bologna.it/iperbole/2agost80/pellegr.htm, 14 febbraio 1996.
[3] Mario Coglitore, autore del libro “La notte dei gladiatori, omissioni e silenzi della Repubblica”, (Calusca edizioni, Padova 1992) scrive: “Diamo un rapido sguardo alla situazione delle forze di Polizia negli anni '50: su 64 prefetti di primo grado, 64 prefetti non di primo grado e 241 prefetti, soltanto due non erano di provenienza fascista; di 135 questori e 139 vicequestori, soltanto 5 avevano avuto rapporti con la Resistenza; e, infine, su 603 commissari, commissari aggiunti e vicecommissari, solo 34 erano stati in contatto con i partigiani.” Cfr. http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm
[4] “Aveva già acquisito l'esperienza sufficiente per destreggiarsi nelle situazioni più difficili, i suoi rapporti con l'intelligence americana erano solidi e le sue finanze, frutto di numerose rapine di guerra, robuste. La sua ascesa ai vertici del potere politico occulto fu inarrestabile.” aggiunge Coglitore. Cfr. http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm
[5] Cfr. http://www.clarence.com/memoria/stragi/5.htm
[6] Nel febbraio 1972 ad Aurisina, vicino a Trieste, i carabinieri della stazione locale scoprono per caso un deposito sotterrato di armi, esplosivo in grossa quantità, ecc. I carabinieri avevano involontariamente riportato alla luce uno dei 139 depositi di Gladio, distribuiti ed nascosti in punti strategici del territorio italiano.
Cfr. Coglitore, Operazione Gladio http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html
[7] Cfr. Coglitore, Operazione Gladio http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html
[8] La Repubblica - 14.03.98, Intervista al figlio dello statista, Giovanni Moro. Che accusa il "partito della fermezza" di aver ucciso suo padre, "Ma la verità vera ancora non c'è" A cura di Mazzocchi,
Silvana. http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/R140398b.html
[9] Cfr. Lunedi, 16 marzo 1998, Il Messaggero, Sabbatucci
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19980316/01_NAZIONALE/1/SAB.htm
[10] Martinazzoli: “Se volevate un riconoscimento, la lettera di papa Montini "agli uomini delle Br", sia pure con la precisazione "rilasciatelo senza condizioni", non era un gesto sufficiente a soddisfarvi?..” e Morucci risponde con: “L'effetto della lettera fu pessimo. Già, come comunisti, del papa ci importava poco, ma la sua posizione non era neanche aperturista. Ripeto, le Br volevano da parte della Dc un riconoscimento come quello espresso nell'appello del segretario dell'Onu Kurt Waldheim..” Cfr. L’Espresso, 07.05.1998, Troppo deboli per salvare Moro, http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=20515&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=&chiave2=&chiave3=
[11] Cfr. Giorgio Bocca in: La Repubblica: “Delitto Moro - Nessun mistero”, 11 maggio 98.
[12] Cfr. L. Cipriani, L’Affare Moro, http://www.ilblack.html. Moro, /ilblack.html.
[13] Cfr. Il caso Moro, Commissione stragi, /17.htm
[14] Cfr. Drake, p. 249 e Panorama, Dossier Andreotti, 1993, p.43.
[15] Flamigni, Sergio: Trame atlantiche. Storia della Loggia massonica segreta, Milano, 1996, p. 244.
[16] E ricordarsi che l’esperto americano della intelligence Pieczenik ha di recente nel 1999 dichiarato che in Italia Moro non lo si volle liberare. Il sito di Steve Pieczenik, l’esperto mandato dagli Usa come consigliere, ora affermato scrittore: http://www.stevepieczenik.com/
[17] L‘anonimo disse: ”Controllate l’identità delle seguenti cinque persone!”
[18] http://www.umt.edu/kaimin/oldkaimins/04-17-96/O.gcolumn.html
[19] Flamigni riferì le parole di Cornacchi: “Perchè non era possibile”.
[20] Cfr. http://www.clarence.com/memoria/p2/iscritti.htm
[21] Cfr. pure il capitolo “Le radici di Gladio – Un esempio di trasformismo”.
[22] http://www.cronologia.it/storia/a1978t.htm
[23] Cfr. Moretti, Mario (1994) [Interview di Rossanda, Rossana; Mosca, Carla], p. 145.
[24] Stay Behind è il nome americano per la sua sezione italiana, GLADIO. E’ anche attiva in molti altri paesi europei, risulta, come ha osservato lo stesso giudice Casson nella sua indagine, da accordi intercorsi tra servizi segreti, nel nostro caso CIA e SIFAR, scavalcando qualsiasi decisione del parlamento, l'unico organismo in grado di ratificare trattati internazionali di questa natura, qualora essi fossero ritenuti legittimi. Cfr. Coglitore su http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm
[25] Cfr. Relazione della Commissione Gualtieri in : http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm
[26] “Lui lo chiamavano "Peppe", lei "Peppa". Militavano in autonomia, nel circolo Mario Salvi attivo a Roma nord nei tardi anni '70. Raimondo Etro, brigatista arrestato di recente, ricorda di averli visti una sera dalle parti del ristorante "La sora Assunta". Proprio dove, il giorno dopo l'avvistamento, fu ucciso Mario Amato mentre cenava a fianco dell'amico Domenico Velluto, l'agente che aveva ucciso Mario Salvi, il vero bersaglio della sparatoria dalla quale invece uscì indenne.
[...] Al contrario, partendo da tanta base il giudice Antonio Marini, un professionista dell'antiterrorismo nel senso che al termine dava Leonardo Sciascia, ... [...] Rita Algranati, allora moglie di Alessio Casimirri, presente in via Fani nella veste di vedetta, avrebbe detto allo stesso Etro: "Poi sono passati in moto due cretini". (Ma forse la formula precisa era "i due cretini", Etro non ricorda). L'articoletto fa la differenza. Senza, i motociclisti diventano due passanti qualsiasi. In caso contrario eccoli trasformati in due brigatisti piombati in via Fani senza essere stati convocati dall'organizzazione, secondo la bizzarra ipotesi che va per la maggiore fra gli inquirenti.[...] Passi la moto fantasma, passino i curiosetti che piombano in mezzo a una sparatoria per diletto [...]. Incontrollate e incontrollabili, come quella messa in giro dal solito Etro sull'omicidio Calabresi, poi smentita da quel Casimirri indicato da Etro come fonte (peraltro a sua volta indiretta).[...] “
Cfr. Il Manifesto del 23.04.98 http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/M230498c.html
[27] Maccari confessa «Ero io il carceriere Così fu ucciso Moro» Cfr. http://www.mclink.it/unita/960620/uni06.htm
[28] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm
[29] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm
[30] Un interrogativo sollevato da Marini riguarda la mancata richiesta di estradizione di Alessio Casimirri, militante brigatista latitante in Nicaragua e presente in via Fani. Il nome di Casimirri come partecipante alla strage di via Fani è stato fatto per la prima volta da Morucci, nel suo più che noto "memoriale". Sospetti a suo carico erano però già esistenti da tempo. Ciononostante Casimirri per sedici anni ha potuto vivere del tutto tranquillamente in Nicaragua, dove aveva anche aperto un ristorante nella capitale del paese, senza che la magistratura italiana abbia fatto nulla per perseguirlo. Cfr. http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm
[31] 16 luglio 96. Germano Maccari viene condanato ad ergastolo per la partecipazione al rapimento e l'uccisione di Moro.
[32] Benito Cazora muore il 21 febbraio 1999 a Roma e non può più rispondere alle domande della Commissione.
[33] Saverio Morabito, un pentito, presentò in una dichiarazione queste informazioni.
[34] http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/69.htm
[35] http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=30019&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=terrorismo&chiave2=brigate
[36] http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=27968&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=terrorismo&chiave2=franceschini&chiave3=
[37] Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=27968&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31
[38] La tesi di Franceschini è che i capi storici delle Brigate Rosse, Renato Curcio e lui, sarebbero stati "bruciati" e arrestati per aver rifiutato le offerte di armi, soldi e informazioni venute dal Mossad, tramite intermediari milanesi, nel maggio-giugno del 1974, subito dopo il sequestro del giudice Mario Sossi. http://www.senato.it/notes/ODG_COM5/28d3a.htm ; L‘Intervista di Ettore Bernabei con Giorgio Dell’Arti: "Lei non ha mai creduto alla tesi secondo la quale i brigatisti agirono da soli" chiede Dell’Arti e Bernabei risponde:" No, come abbiamo già avuto modo di dire, io penso che alle loro spalle agissero molti grandi vecchi. Ho sempre creduto ad un concerto internazionale che aveva come obiettivo di contrastare l’unità europea, di destabilizzare l’Italia, anche perchè in Italia ha sede il vertice di una Chiesa universale ed autonoma"Bernabei, Ettore: L’uomo di fiducia [intervista con Giorgio Dell’Arti], Milano, Mondadori, 1999..
[39] Il Corriere della Sera, 16.03.98: Moro: cinque misteri, il caso resta aperto. Dal covo di via Gradoli alle carte segrete dell'ostaggio. I buchi neri dell'inchiesta; Il magistrato che indaga sulla strage: «I brigatisti continuano a proteggere qualcuno». Articolo a cura di Giuliano Gallo, Paolo Menghini.
[40] L’Espresso" del 9 aprile 1999 resoconto dell’audizione di Alberto Franceschini in commissione stragi (17 marzo 1999).
[41] Cfr. Pure L’Espresso del 15.04.1999 “ Brigate losche” http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=27968&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31
[42] E forse era invece una segnalazione ignorata, proveniente da una frangia dei servizi segreti che indicava dove andare a cercare Moro, nel Lago (casa?) della Duchessa, anticipandone la condanna a morte.Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm
[43] Il Corriere della Sera, 16.03.98
[44] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990114/01_NAZIONALE/10/B.htm
[45] Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22%2D01%2D99/22%2D01%2D99%5Fest01%5Fa01.3.html
[46] Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22%2D01%2D99/22%2D01%2D99%5Fest01%5Fa01.3.html
[47] Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22%2D01%2D99/22%2D01%2D99%5Fest01%5Fa01.3.html
[48] Il Messaggero, giovedì, 14 gennaio 1999
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990114/01_NAZIONALE/10/B.htm
[49] Morucci: ”Pertanto, non riesco a capire perché mai il materiale non dovesse essere convogliato tutto in quella base, non c'era alcun motivo. Peraltro, appunto, per le Brigate rosse si trattava di materiale poco interessante.” Cfr. Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª seduta mercoledì, 18 giugno 1997, http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22.htm
[50] http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990729/01_NAZIONALE/9/E.htm
[51] Dossier: Delitto Pecorelli/la richiesta integrale di autorizzazione a procedere, Il Messaggero, 11 giugno 1993, p.5.
[52] Dossier Messaggero, p.5
[53] Il Messaggero/Dossier, „Il caso Andreotti“, p.52.
[54] Antonio Cipriani, L'Unità 28 maggio 1999 "Br come la Raf, isolate e superclandestine"
(intervistato dall’ex parlamentare Sergio Flamigni su
http://www.democraticidisinistra.it/interviste/intervista_flamigni2805.htm
[55] Flamigni, sergio: Covergenze parallele
[56] Cfr. La Repubblica, 09.05.98.
[57] Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª seduta, mercoledì 18 giugno 1997 http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22.htm eppure Panorama, 04 giugno 1999. “ 'Ha operato una struttura esterna alle Brigate rosse i cui contorni non sono ancora stati delineati' sostiene il giudice di Venezia Carlo Mastelloni, lo scopritore della scuola di lingue francese Hyperion, sospettata di vicinanza con i servizi segreti e di aver diretto da Parigi le azioni più eclatanti delle Br.” http://www.mondadori.com/panorama/art4doss/2457_1.html
[58] Andrea Tornielli, http://www.abramo.it/service/rassegna/ARTICOLI.HTM/GIORNALE/98031702.HTM
[59] Cfr. L’Espresso, 10.06.1999: “Br e prima Repubblica / Una testimonianza Grande Vecchio, I Presume”
http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=29398&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31
[61] Cfr. Il Messaggero, Sabato 29 Maggio 1999 “L’inchiesta mai chiusa/ A parlarne fu il giornalista Mino Pecorelli su Op pochi giorni prima di essere assassinato“.
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm
[62] Ne cito alcuni brani importanti. Il portiere dice: „ «Qui è tutto come prima. Oggi come nel 1978. Ci sono io a controllare e ci sono gli stessi inquilini di quei tempi di piombo». ..... «Sto qui dal 1977, da un anno prima del sequestro di Moro. Ventidue anni davanti a questo cancello, dalle set te e mezza di mattina alle sette e mezza di sera. E questa è l’unica entrata per salire a Palazzo Orsini: lo scriva che non ci sono sotterranei o ingressi secondari, quelle sono tutte frescacce. Chi entra deve passare qui davanti. E io non ho mai fatto entrare nessun brigatista». ... Ma poi, mentre si sale la rampa che porta alla parte alta della Residenza, viene da pensare che sotto i vecchi sampietrini del cortile, proprio lì sotto, ci sono gli scavi del teatro Marcello, cunicoli, segrete, sentieri che secondo le mappe di Roma antica passano pure sotto il Tevere, verso l’isola Tiberina, fino a Trastevere. Scusi signor Aldo, dove sono i garage in cui, forse, hanno tenuto Moro? «Ancora con questa storia? Non c’è nessun garage. Anzi ce n’è uno, ma la proprietaria ci tiene la macchina».
Ma alla fine viene fuori che un cambiamento, uno solo, c’è stato ... All’appello manca la contessa Rossi di Montelera, che è deceduta qualche tempo fa; oggi il suo appartamento al terzo piano del primo stabile di Palazzo Orsini è passato di mano. È lo stesso appartamento che ventuno anni fa era intestato all’Immobiliare Savellia” - e prosegue - «Che c’è di strano? - dice il portiere - la contessa non si era voluta intestare la casa e l’aveva lasciata a nome di quella società. Lo fanno in tanti.». Di strano c’è che durante i tempi di piombo (come li chiama questo portiere-mastino che in buona fede difende tutti) il numero telefonico dell’Immobiliare Savellia, lo 06-659127, lo trovarono nel covo brigatista di via Gradoli, sulla Cassia. Era in un appunto scritto da Mario Moretti in persona, quello che secondo molti investigatori conosce i «dietro le quinte» del caso Moro che non conosciamo noi. “
[63] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990601/01_NAZIONALE/11/AA.htm
Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm
[64] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm.
Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990601/01_NAZIONALE/11/AA.htm
[65] Cfr. Commissione stragi - Il caso Moro, /17.htm
[66] L’Espresso, 10.06.1999: “ BR E PRIMA REPUBBLICA / UNA TESTIMONIANZA Grande vecchio, I presume Già prima che spuntasse il signor Igor, iparlamentari chiedevano notizie del vero regista del caso Moro all'ex ministro signorile. E lui. ”
Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate
[67] Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate
[68] Cfr. L’Affare Moro, http://www.unlibro.html
[69] Sei parlamentari dell’allianza del centro-destra comunicarono nel 1997, che l’edificio faceva parte di una società prestanome del SISDE; Cfr. Pure la Repubblica, 9 novembre 1997.
[70] Cfr. http://www.haganah.org/homepage_it/aldo_moro/moro_9.htm
[71] La Repubblica, 13 febbraio 1998
[72] Cfr. Paolo Mondani, COMinform, n.115 del 5 - 12 maggio 1998 Moro, caso aperto,
http://www.comunisti.org/115/mondani115.html eppure Cfr. http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/R090598b.htm
[73] E quella integrale, piena di accuse contro la DC e Andreotti, si scoprirà forse non casualmente, soltanto nel 1990.
[74] http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/3.htm
[75] Cfr. Paragrafo 16°, “Le "Carte di Moro" E il delitto Pecorelli, Le dichiarazioni di Antonio Mancini” http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html
[76] Drake, (1995), p. 256.
[77] Drake (1995), p. 237-239.
[78] Cfr. http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html
[79] Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª SEDUTA MERCOLEDÌ 18 GIUGNO 1997
Cfr. http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22b.htm
[80] caricatura http://
[81] cfr. L’Espresso, Nr. 44 199?.
[82] Il 3 agosto, ben conscio del fatto che l'indagine del giudice veneziano Casson (che si occupava in quel momento della strage di Peteano e che aveva avuto accesso agli archivi dell'ex SIFAR di Forte Braschi) sta comunque approdando a qualche significativo risultato, Giulio Andreotti dichiara davanti alla Commissioni Stragi che è esistita fino al 1972 una struttura segreta all'interno degli stessi servizi i cui scopi e la cui organizzazione sarebbero stati successivamente definiti in un apposito documento.
Questo fascicolo di dodici pagine viene in effetti inviato alla Commissione il 18 ottobre dallo stesso Andreotti e sparisce il giorno dopo con ogni probabilità per quella tipica caratteristica dei dossier riservati, che tutti conoscete e che consiste nel loro essere dei veri e propri giochi di prestigio. Il rapporto ricompare quattro giorni più tardi debitamente ripulito dallo scrupoloso Presidente del Consiglio, che afferma di aver riconsegnato le carte a Casson su sua esplicita richiesta, circostanza smentita dallo stesso giudice. Come si può facilmente capire dalla comparazione tra i due documenti proposta dal settimanale Avvenimenti che possiede anche la versione originale, il lavoro di ritocco, con cancellazione di interi periodi, rimodella il complesso delle dichiarazioni e ne fornisce una versione largamente edulcorata. Gli omissis sono parecchi: nell'originale si parla del controllo esplicito da parte dei servizi segreti sull'intero gruppo Gladio, nel secondo rapporto non si fa accenno ad alcun controllo; nella prima versione si sostiene che la pianificazione geografica ed operativa era concordata con il servizio informazioni americano, nella seconda versione la riga salta interamente. Lo stravolgimento completo tocca il suo punto più alto quando nel documento rivisto scompare ogni accenno agli stanziamenti previsti per l'organizzazione che costituiscono un apposito capitolo di bilancio. Assenza totale, infine, delle notizie precedentemente fornite su modalità operative del gruppo, addestramento presso la scuola dei servizi americani, materiali in dotazione e, particolare interessante, neanche una parola sui depositi di armi ed esplosivo che nella versione del giorno 18 si dicevano smantellati e ricostituiti altrove. Cfr. Operazione Gladio, di Mario Coglitore http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html
[83] Perugia, aprile 1999, processo Pecorelli. Cfr.
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990430/01_NAZIONALE/10/C.htm
[84] Dossier Messaggero, p.5.
[85] Cfr. http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html
[86] E si continua “Per il delitto si sarebbero serviti dei loro legami con Nino ed Ignazio Salvo. I cugini di Salemi avrebbero poi attivato Badalamenti e Stefano Bontate. Questi avrebbe fatto da tramite con Pippo Calò, personaggio di raccordo tra mafia e banda della Magliana. In cambio del suo impegno nel delitto la banda della Magliana avrebbe ricevuto favori giudiziari per il tramite di Vitalone.” Per questo sembra che diventi fondamentale stabilire se i cugini siciliani e il senatore si conoscessero.
[87] Cfr. Panorama, ... (?)
[88] Cfr. Paragrafo 16°, Le "Carte Di Moro" e il Delitto Pecorelli/ Le dichiarazioni di Antonio Mancini http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html
[89] Mancini, il pentito più importante della Banda della Magliana, dice: "Disse (Renato De Pedis, altro esponente della Magliana n.d.r.) che l'eliminazione di Pecorelli era stata fatta nell'interesse della mafia siciliana e di gruppi di potere massonico, ed era stata ordinata da Vitalone, il magistrato...Ovviamente non intendeva dire che il Vitalone avesse direttamente a lui commissionato l'omicidio, ma che lo aveva fatto attraverso altre persone ... Abbruciati mi disse qualcosa circa i motivi del delitto per quelli che lui sapeva e cioè che Pecorelli era venuto in possesso o a conoscenza di documenti o fatti riguardanti il sequestro dell'on. Moro che avrebbero arrecato danno al magistrato Vitalone e al gruppo politico e finanziario di cui egli faceva riferimento". Maurizio Abbatino (altro uomo della banda della Magliana), interrogatorio del 27 maggio 94: "Giuseppucci mi disse che Massimo Carminati era quello che aveva ucciso Pecorelli e conversando spiego' ulteriormente quello che mi aveva detto prima in carcere: l'omicidio del giornalista Pecorelli era stato richiesto dai "siciliani" (esponenti di cosa nostra)... Aggiunse Giuseppucci che il Pecorelli era un giornalista e che era stato eliminato perchè aveva fatto troppe indagini e stava ricattando un personaggio politico". Cfr. Avvenimenti, 15 marzo 1995,
http://www.citinv.it/pubblicazioni/AVVENIMENTI/AVVE39/S003001.HTM
[90] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990710/01_NAZIONALE/8/E.htm
[91] A Firenze vennero prese le decisioni sul destino di Aldo Moro, qui furono battuti a macchina i nove comunicati Br.
[92] Pellegrino: «Fu Flaminio Piccoli per primo a fornire l’identikit di Markevitch, parlando di un uomo di grande cultura»
Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm
[93] Cfr. Al-Ahram Weekly “ Did Mossad murder Moro? “ http://www.ahram.org.eg/weekly/1999/420/in1.htm
[94] “Comunica infine che il signor Steve Pieczenik, che si era dichiarato disponibile ad essere audito dalla Commissione con sua lettera del 9 aprile 1999, ha successivamente rinunziato all'audizione stessa, senza specificarne i motivi, con sua lettera del 14 aprile 1999.” Commissione Parlamentare stragi, Martedì, 20 Aprile 1999.
[95] http://www.ecn.org/zip/moro.htm ed intero fumetto è scaricabile sotto
http://www.ecn.org/zip/16marzo.zip
[96] 16marzo.pdf , p. 13/20 , http://www.ecn.org/zip/moro.htm E’ scaricabile il file zippato 16marzo.zip. Una volta decompresso il file del tipo “pdf” diventa leggibile con l’Acrobat Reader di Adobe, preferibilmente con la versione 4.0.
[97] Il procuratore capo bresciano Giancarlo Tarquini si è trincerato dietro un «non posso dire nulla». Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/30%2D05%2D99/30%2D05%2D99%5Fest01%5Fa00.html
[98] Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate
[99] Gumbel, Andrew in: The Independent: “The riddle of Aldo Moro: was Italy's establishment happy to see him die? Many say the police did not do all they could to save the ex-PM kidnapped 20 years ago.” , 05/12/1998.
[100] Lettera di Aldo Moro a Zaccagnini, Segretario della DC, pubblicata il 12 Aprile 1978: E‘ un‘ora drammatica–. Io lo dico chiaro: per parte mia non assolverò e giustificherò nessuno. Attendo tutto il partito ad una prova di profonda serietà e umanità– Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell‘interesse della DC– Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia‚ Italia. Il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani ma al dopodomani. Pensaci soprattutto tu Zaccagnini, massimo responsabile. Aldo Moro: Lettera a Benigno, Segretario della DC, pubblicata il 12 Aprile 1978: in : http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/26.htm .
[101] Recapitata tramite Don Mennini il 20 aprile 1978 http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/27.htm
[102] Aldo Moro “A Benigno Zaccagnini” http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/52.htm
[103] « I piani “Victor e Mike”» “Una vicenda che con molta enfasi è stata portata all'attenzione dell'opinione pubblica nel corso del mese di novembre del 1993 ha avuto origine dalla notizia dell'esistenza di piani predisposti da autorità italiane in previsione di un'eventuale liberazione dell'onorevole Moro, ovvero della sua uccisione da parte delle Brigate rosse. Più precisamente, il 29 novembre 1993 fu diffuso in Italia il contenuto di un'intervista che il senatore a vita, Francesco Cossiga, ministro dell'interno all'epoca del sequestro Moro, aveva rilasciato mesi addietro a due giornalisti, Michael Busse e Maria Rosa Bobbi, che si erano presentati a nome di un'emittente tedesca, la Westdeutscher Rundfunk. Nell'intervista il senatore Cossiga, tra gli altri argomenti, ricordava come in previsione della conclusione del sequestro fossero stati elaborati due differenti scenari: il primo nell'eventualità che Moro fosse stato rilasciato vivo (piano Victor), il secondo qualora lo statista fosse invece stato ritrovato morto (piano Mike).Il piano Mike, dal contenuto alquanto scontato, prevedeva che dopo il ritrovamento del corpo di Moro scattasse immediatamente una serie di misure repressive, contro simpatizzanti e fiancheggiatori delle Brigate rosse. Se, di fatto, il 9 maggio 1978 l'operazione di rastrellamento ad ampio raggio, non ci fu, ciò avvenne - come ha dichiarato, a questo.” Cfr. Relazione della Commissione Gualtieri, p. 41in: http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm
[104] Drake, op. cit., p. 265.
[105] Drake, p. 306.
[106]http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990814/01_NAZIONALE/8/A.htm
inizio
(gewollt erfolglos)
Le nuove scoperte a vent'anni dalla strage[ libro_ospiti forum mappa post-mail i vostri links cartolina foto-slideshow ]
Pellegrino (29 maggio 1999): «Siamo vicini ad una svolta, so cose che non posso
dire e che non direi neppure in seduta segreta alla commissione stragi»“.[1]
Indice (pross.mente cliccabile e seperato in un singolo frame)Le radici di Gladio – Un esempio di trasformismo _2Il perché del rapimento della persona di Moro. Un confronto tra le Br e il figlio dello statista Giovanni Moro _4La SIP e la SIP parallela _5Il "commando d'ombra", il "doppio stato", la P2 e i suoi infiltrati _6Le spie, gli infiltristi nelle Brigate rosse e la Moto Honda _9Markevitch, i partigiani, i partigiani finti infiltrati e il ruolo di Dalla Chiesa _11Il ruolo di Igor Markevitch fa riscrivere un capitolo? _12I possibili mandanti dell'assassinio di Moro, le "menti misteriose" _131. Le foto scattate dall?operaio Gerardo Lucci _132. In quanti erano in via Fani? _133. La richiesta delle foto _135. Le due parti separate delle Brigate rosse. _1410. "Più in alto" – La domanda ai santi _2011. L'aiuto negato _2012. Il rapimento anticipato _2113. I probabili mandanti – le forze oscure _2114. Guido Passalacqua, giornalista de La Repubblica sulla pista della falsa scuola di lingua per le Br _22Il ruolo della Chiesa cattolica _22Sulle tracce della nuova prigione nel ghetto - Mino Pecorelli ne parlò allusivamente su ?OP? _22Il partito della trattativa e il partito della fermezza; gli autogol visti da Pellegrino e Cipriani _25Gli Autogol secondo Cipriani _26Gli appartamenti di via Gradoli ed il ruolo del Sisde _27Il ruolo del Magistrato Luciano Infelisi _27Mino Pecorelli, l'OP, Dalla Chiesa e il ruolo del divo e Belzebú Giulio Andreotti _27Le "carte di Moro" e il delitto Pecorelli. Le dichiarazioni di Antonio Mancini _31Il ruolo del superpentito Buscetta _32Il processo Pecorelli a Perugia _33Il presidente della commissione Stragi Pellegrino e le sue tesi _34L'affermazione del giudice istruttore Ferdinando Imposimato, nei primi due processi Moro del 20 marzo 1999 _3520 marzo 1999 Il Tirreno pubblica un articolo sull'audizione di Flaminio Piccoli del 30 ottobre 1991, desecretata pochi giorni prima. _35Attualità - L'Anfitrione di Firenze, il 'Grande Vecchio' e il fumetto Metropoli _37L'Espresso del 10 giungo Br e Prima Repubblica / una testimonianza - Grande vecchio, I presume riscavando nella storia contemporanea, fa emergere il nome _37Conclusione _39Bibliografia _ home [paginaitaliana]
Quelle vicende di quasi ventuno anni fa sono scolpite nella memoriacollettiva e chi li visse non potrà più dimenticare i fatti inquietantiche segnarono i cinquantacinque giorni dalla strage di via Fani alritrovamento del cadavere dello statista democristiano, un corporannicchiato dentro una Renault R 4 rossa, parcheggiatasimbolicamente a metà strada tra via delle Botteghe Oscuree Piazza del Gesù, tra la sede della DC equella del PCI, in via Caetani.
Il presente lavoro cerca di ricostruirne le dinamiche utilizzando la grande ricchezza di fonti d’informazioni, nomi, luoghi, intrecci e fatti storico-politici. Le possibilità offerte dall’ipertesto fa del presente elaborato un lavoro che è continuamente possibile aggiornare, attraverso la rete si arriva, tramite links, direttamente su altri lavori dello stesso genere e si può offrire così un servizio gratuito a tutti gli utenti ovunque nel mondo. Si è cercato qui di integrare le fonti multimediali per rendere alcune sfumature ed immagini più facilmente recepibili.
Il rapimento dell’on. Aldo Moro ebbe tempi d´incubazione molto lunghi, Laura Braghetti ne parlò a fine novembre nel processo Moro quarter. Nel 1977 ella ricevette l’ordine dai suoi capi nelle Brigate rosse di acquistare un appartamento. Le istruzioni descrivevano precisamente le caratteristiche dell’appartamento che le Br avevano in mente. Le fu detto che sarebbe servito “ad un'azione delle Brigate rosse molto importante”. (Drake, p. 262).
Anche tra forze diverse dalle Br come il "partito occulto" P2 presumibilmente si compivano allo stesso modo i preparativi.
Poco prima del rapimento Moro erano stati sciolti apparati antiterrorismo come l’ispettorato antiterrorismo del questore Santillo ed il nucleo antiterrorismo del generale Dalla Chiesa, lasciando scoperta un’attività di intelligence assai importante. “Di chi fu l’iniziativa?” si chiede Paolo Bolognesi, vice presidente Associazione familiari vittime strage Bologna del 2 Agosto 1980.[2]
[Il documento e' stato terminato alla fine di giugno 1999e messo in rete il 31 gennaio 2000. Pross.mente lavoreròper una migliore userbility del documento ipertestuale.Nel frattempo abbiate un po' di pazienza!] inizioLe radici di Gladio – Un esempio di trasformismo
La parola Gladio deriva da un’antica spada corta usata dagli antichi romani. Nel 1942 il servizio segreto americano offrì al prigioniero super-mafioso Charles "Lucky" Luciano (detto Teflon-Lucky) la libertà, in cambio egli dovette riprendere i contatti con le vecchie amicizie in Sicilia. Grazie a queste ritrovate amicizie si preparò in Sicilia, l’anno seguente, lo sbarco degli alleati americani. Gli USA e i mafiosi siciliani diedero così inizio ad una lunga collaborazione. L’"Office of Strategic Services" (OSS), dopo CIA, si mise in contatto con i Cavalieri di Malta, che erano legati strettamente alla Chiesa cattolica. Cavaliere era, tra l’altro, il capo del OSS, William "Wild Bill" Donovan come anche il capo della CIA, William Casey. Figura chiave tra i cavalieri era lo stesso Licio Gelli, fondatore della Propaganda Due. Solo la fuga nelle mani dell’US-Army lo salvò dalla giustizia dei partigiani, egli aveva collaborato con i fascisti tedeschi, era diventato sottotenente delle SS naziste e spiava i partigiani e li denunciava ai tedeschi. Comunicava ai nazisti i nascondigli della Resistenza e poi avvertiva gli stessi partigiani consentendo loro di mettersi in salvo. Quindi un ufficiale di collegamento che presto si specializzò nel doppiogioco come scrive Coglitore.
Prima reclutato dalla "Counter Intelligence Corps" (CIC), poi nel 1950 dalla SIFAR Gelli diventò la figura chiave nei rapporti tra la CIA ed il primo capo del servizio segreto italiano, generale Giovanni De Lorenzo.[3] Subito dopo la seconda guerra mondiale, i servizi segreti italiani si sciolsero. Gli agenti del’OSS, di cui uno divenne capo della CIA, crearono una rete segreta che avrebbe costituito la base sulla quale sarebbe nata GLADIO. Miliardi di dollari cominciarono ad arrivare in Italia fin dall’inizio degli anni cinquanta. Nel 1949 l’Italia faceva parte della NATO, nacquero quindi il "Servizio Informazioni Forze Armata" (SIFAR), ad opera della CIA e del coordinamento della NATO. Nel 1956 il generale De Lorenzo diventa capo del SIFAR e grazie all’appoggio degli americani GLADIO nasce in quest’anno sotto il suo commando con “l’ufficio R" (come "Ricerche"). Nello stesso 1956 egli passò direttamente alle dipendenze dei servizi segreti italiani.[4]
Il nuovo servizio segreto nasce con gli ex-fascisti. Un primo piano di Strage di stato ("Piano Solo") sotto il generale De Lorenzo richiese una totale riorganizzazione.[5] Nasce il "Servizio Informazioni Difesa" (SID). Ad opera della SID furono compiute negli anni settanta innumerevoli stragi. Proprio nel 1977 si trasforma essa in SISDE ("Servizio Informazioni Sicurezza Democratica”) servizio che fece parte del Ministero dell'Interno e SISMI ("Servizio Informazioni Sicurezza Militare"). I nodi di collegamento rimangono gli stessi. Il capo della SISMI, Santoviti, e loggista della P2 come il suo sostituto Pietro Musumeci, vennero, come anche Gelli condannati per la strage della stazione di Bologna nel 1980.
31 Maggio 1972: vicino Trieste morirono tre Carabinieri a causa di un’autobomba. Grazie al magistrato Felice Casson, che riprese il processo nel 1990 fu scoperto lo scandalo di GLADIO.[6]
Ma tutto cominciò con una trasmissione del tg1 del luglio 1990, durante la quale il giornalista Ennio Remondino (oggi inviato Rai all'estero e allora in ricordo per le interviste, piene di retoriche domande a Curcio, Moretti e Faranda) intervista un agente della CIA, ben disposto a fare una serie di rivelazioni sconcertanti sui rapporti tra CIA, la destra italiana e la massoneria. Seppure una piccola parte della complessa struttura delle istituzionali italiane crolla, anche se con molto rumore. L'allora Presidente della Repubblica, Cossiga, si rivolge direttamente al direttore generale della Rai e chiede la testa del giornalista e del direttore del tg1.
Nuccio Fava, effettivamente rimosso dall'incarico a favore del più andreottiano Bruno Vespa.[7]
Vengono accusati il capo della SISMI, il loggista della P2 Santoviti. Alcuni membri di "Ordine Nuovo" furono condannati perché ritenuti responsabili. Il materiale della bomba si scoprì proveniente dai depositi di GLADIO. L’esperto Marco Morin, anche lui membro di "Ordine Nuovo", mise - con una falsa perizia – sulle tracce delle Br.
GLADIO riuscì a presentare alla giustizia, in veste di perito di armi, uno dei suoi, Marco Morin per ben due processi, cioè quello di Aldo Moro e quello del caso Dalla Chiesa. Un pentito mafioso Cessina preciserà in seguito in tribunale di aver sempre sentito dire, all’interno di Cosa Nostra, che uno dei canali per arrivare ad Andreotti era la Massoneria. Un altro cerchio si sta per chiudere.
Al processo di Perugia si cerca, ancora oggi, di capire quale fu il ruolo di Giulio Andreotti nel caso Aldo Moro e nel delitto Pecorelli.
inizio
Il perché del rapimento della persona di Moro. Un confronto tra le Br e il figlio dello statista Giovanni Moro
Per i brigatisti, come hanno più volte raccontato, la figura di Moro rappresentava il simbolo di quello Stato Democratico tanto aborrito. La macchina del sequestro, dell’interrogatorio fu messa in moto dai brigatisti non per ostacolare la formazione del governo di solidarietà nazionale, premessa del compromesso storico di cui Moro era fra gli ideatori, progettato per quel 16 marzo 1978 e che comunque andò in porto, ma perché le BR consideravano la DC facente parte del SIM, “Stato imperialista delle multinazionali” ed il così detto “compromesso storico” con il partito comunista al governo, strumento per manovrare la macchina di questo superpotere capitalista.
Con il fatto che alla base dei motivi del rapimento di Aldo Moro ci fosse il riconoscimento nella sua persona del simbolo dello Stato della DC non è d’accordo il figlio dello statista, Giovanni Moro, il quale dichiara:
“C’è una verità storica e riguarda il perché Moro: Abbiamo detto che si volle sventare un progetto politico [...] Molti dicono che Moro era un simbolo. No, era il catalizzatore, per non dire il demiurgo di un’operazione politica. E l’hanno fermato per questo, altro che simbolo... Poi c’è una verità politica. Che riguarda il comportamento dei partiti. In particolare della Dc e del Pci, d’accordo nella decisione di darlo morto fin dal primo giorno”.[8]
A salvare la vita di Moro sarebbe bastato, come afferma la Faranda, il riconoscimento delle Br come interlocutori politici. Un altro brigatista, Franceschini ricorda che loro, in altre parole le Br della prima ora, avrebbero offerto allo stato “mille soluzioni” come la liberazione di un prigionero in Uruguay, la liberazione di un prigioniero ammalato, ecc. Ma il sistema politico italiano non voleva trovare e far trovare una soluzione come sostiene pure il capo-mafia Cutolo in un’intervista. Tuttavia c’è chi, come Sabbatucci, sostiene che è molto improbabile che lo Stato potesse avere gli estremi per trattare, che la classe dirigente potesse compromettersi agli occhi dell’opinione pubblica e intavolare le trattative coi brigatisti.[9] Apparentemente più fondata appare la posizione di coloro che sostennero la linea della trattativa, i così detti trattativisti, che sarebbero state sufficienti poche concessioni, anche di facciata, a salvare la vita dello statista.[10] Ma un successo delle Br, anche simbolico, avrebbe prolungato la vita del fenomeno terroristico e avrebbe bloccato la valanga di pentimenti che di lì a poco si sarebbe scatenata.
E ancora Giorgio Bocca afferma:
“se non si vuol credere, come ha detto Moretti, che alcuni giovani di poca cultura e di pochi mezzi abbiano messo in fibrillazione lo Stato, se si vuol continuare a mettere assieme romanzi polizieschi sulla vicenda lo si faccia, si continui pure all'infinito.”[11]
inizio
La SIP e la SIP parallela
È utile cominciare con quello che avvenne il 15 marzo 1978, giorno precedente il rapimento di Moro: la SIP, o meglio quella che verrà in seguito ipotizzata come la SIP parallela, una struttura segreta esistente all’interno dell’azienda, venne messa in allarme. Verso le ore nove e qualche minuto del mattino del giorno seguente in via Fani è black-out dei telefoni. Una squadra della SIP viene immediatamente mandata sul luogo, i tecnici confermano, ma l’azienda assurdamente smentisce il fatto. È inutile precisare che l’interruzione delle linee telefoniche era di vitale importanza per l’esito del rapimento, nessuno anche tra gli abitanti della strada avrebbe così potuto telefonare alla polizia e avvertire dell’accaduto raccontando circostanze e particolari. A partire da questo episodio si susseguono, durante i 55 giorni di prigionia dell’on. Moro, strane quanto improbabili coincidenze legate all’azienda dei telefoni: il 14 aprile, alla redazione del Messaggero, è attesa una telefonata dei rapitori, vengono così raccordate in un locale della polizia, per poter stabilire la derivazione, le sei linee della redazione del giornale, ma al momento della chiamata la DIGOS accerta l’interruzione di tutte e sei le linee di derivazione e non può risalire al telefonista. L’allora capo della DIGOS parla, nelle sue dichiarazioni agli inquirenti, di totale non collaborazione della SIP. Nessuna volta fu individuata l’origine delle chiamate dei rapitori, eppure furono fatte due segnalazioni. Quest’assoluta non collaborazione, quando non si è trattato di vero e proprio sabotaggio, se si pensa alla straordinaria efficienza dimostrata dall’azienda in altre circostanze, ha compromesso in modo definitivo l’esito delle indagini. La Sip doveva essere denunciata.[12]
L’allora direttore generale della SIP era un iscritto alla P2, Michele Principe, si capisce come il non funzionamento della stessa fu reso con tanta efficienza. La SIP può essere annoverata insieme ad altri apparati che hanno di proposito dimostrato inefficienza anche se in grado di operare efficacemente.
A condurre l’operazione al centralino della SIP fu il commissario Antonio Esposito, iscritto alla P2 dunque presunto incaricato di Gelli, il suo numero di telefono venne trovato nell’abitazione del capo della colonna romana, Valerio Morucci durante il suo arresto, Morucci sarà proprio il brigatista che annuncerà, dalla stazione Roma Termini, la morte di Moro. I giudici non fecero mai particolari domande in merito a questo numero.
Il 28 marzo 1978 arrivò alla redazione de Il Messaggero una telefonata delle Br, la telefonata fu interrotta (dal commando d’ombra? vedi prossimo capitolo), di conseguenza fu impossibile scoprirne l’origine.
inizio
Il "commando d'ombra", il "doppio stato", la P2 e i suoi infiltrati
La Commissione strage ha presentato, durante la X legislatura un’ampia relazione stesa grazie all’approfondimento di elementi forniti dai processi Moro-ter e Moro-quater, dal ritrovamento di documenti in Via Monte Nevoso, dai contenuti di alcuni memoriali dei brigatisti. Grazie a questi apporti la Commissione ha potuto dichiarare ancora aperti problemi inerenti alla dinamica dell’agguato di Via Fani, alla scomparsa di documentazione fotografica dei luoghi della strage, al black-out dei telefoni, al numero degli attentatori e poi dei carcerieri, alla precisa identità del famoso ingegner Altobelli, al non autentico comunicato n. 7, conosciuto anche come “lago della Duchessa”. La relazione si chiude concludendo che queste ultime indagini, oltre ad aver individuato una realtà tutt’altro che definita, hanno aperto la strada all’ipotesi che alla base del rapimento Moro ci fosse un oscuro complotto in cui erano interessati i settori istituzionali, la criminalità organizzata siciliana, calabrese e romana. [13]
Il capo-mafia Bontate promosse personalmente un’iniziativa a favore di Moro all’interno dell’organizzazione. In una riunione di capi mafia, egli però la causa di Moro, ma fallì. “Uno dei boss che sulla questione si schierò contro di lui, Pippo Calò osservò: Stefano, ma ancora non l’hai capito, uomini politici di primo piano del suo partito non lo vogliono libero”. [14]
Il 22 aprile 1999 il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino comunica di aver avuto documenti che fanno chiarezza sulla vicenda riguardante le dimissioni del prefetto Gaetano Napoletano, segretario del Cesis, durante il rapimento Moro. La versione corrente è che Napoletano avesse avanzato le sue dimissioni proprio durante quei 55 giorni, fu invece l'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti a revocarlo dal suo incarico. Il prefetto Napoletano era l'unico dirigente dei servizi segreti dell'epoca che non apparteneva alla loggia P2.
"Oggi [22 aprile 99, n. mia] - ha detto Pellegrino - noi abbiamo acquisito dal presidente del Consiglio, che ringrazio, la copia del decreto di revoca dell'incarico di Napoletano da segretario del Cesis. In questa c'è un richiamo ad un parere del comitato, che dovremo acquisire per verificare quali siano state le ragioni per cui, in una fase così delicata, questa neonata struttura di coordinamento tra servizio civile e militare conobbe questo mutamento di vertice. Tutto ciò può non significare nulla, può significare qualcosa o può significare molto. Io non mi sento depositario di una verità acquisita a priori".
Quando si venne a sapere – tramite le Commissioni – che la lista degli iscritti alla P2 e la lista dei responsabili durante l’intera operazione era per una buona parte identica, si chiuse il cerchio. E come ciliegina sulla torta, negli ambienti del “commando d’ombra” aleggiava il fantasma di Michele Sindona, assassinio giacente ancora nel buio. Banchiere di fama internazionale ma anche della P2, era uomo di fiducia del Vaticano e insieme della mafia, pentito aveva iniziato la sua collaborazione con la giustizia. Egli aveva fatto luce sui legami tra mafia e P2, la sua eliminazione, avvenuta in carcere, fu decisa proprio in fase di pentimento con un caffè “corretto” al cianuro. Accusato di aver istigato l’assassinio dell’avvocato Ambrosoli, fu ritenuto responsabile della bancarotta del Banco Ambrosiano. L’avvocato scoprì il ruolo di Gelli e Andreotti negli intrecci tra cosche mafiose e P2, dunque anche l’eventuale responsabilità di Giulio Androtti nel caso Aldo Moro.
Sergio Flamigni sostiene la tesi secondo la quale esisteva un secondo staff[15] ufficioso, una sorta di commando d’ombra. Il suo ruolo sarebbe stato quello di contrapporsi alle indagini ufficiali per impedire che si trovasse la prigione di Moro. I membri di questo staff sarebbero stati Licio Gelli, un responsabile del ministero dell'Interno, Federico D’Amato e uno specialista americano, probabilmente un agente segreto che lavorava per conto di Henry Kissinger e Capo del dipartimento Anti-terrorismo dell’U.S. State Departement, Steve Pieczenik[16]. D’Amato e Pieczenik facevano parte anche dello staff ufficiale. D’Amato diresse per alcuni anni la sede centrale della CIA Europe a Berna. Visto che CIA e SISMI facevano parte della stessa “famiglia” P2 (furono mandanti e loggisti in una persona), era ovvio che nel tim del ministero dell'Interno non ci si occupava della telefonata anonima[17] che indicava cinque persone coinvolte nella strage di via Fani. Le tracce avrebbero per esempio portato alla macchina da scrivere di proprietà dei servizi segreti. Il comunicato telefonico passò alla polizia solo dopo 29 giorni. Si eseguì una prima perquisizione in una tipografia il giorno della morte di Moro. La pista americana viene ancora vivacemente discussa come dimostra una disputa tra Katz e Drake e pubblicata dallo stesso Drake, autore di “Aldo Moro The Murder case”, in una colonna chiamata "Katz 'Stones' Italian history, Guest Column by Richard Drake".[18]
Chotjewitz (1989) parla nell’appendice all’edizione tedesca Affäre Moro di Sciascia di due autori del delitto e scrive che l’autore che avrebbe un interesse alla morte di Moro non sarebbe identico a quello che avrebbe eseguito l’assassinio e aggiunge che la relazione tra autore immediato e mediato non sarebbe basata su un semplice rapporto tra committente ed esecutore (Chotjewitz, p. 124). Il più complesso intreccio sarà descritto in seguito.
inizio
Le spie, gli infiltristi nelle Brigate rosse e la Moto Honda
Il tenente colonnello Antonio Cornacchia, loggista e incaricato per il ritrovamento della prigione di Moro, non nega davanti alla Commissione parlamentare l’esistenza di informatori infiltrati nelle Br come sostiene anche Flamigni in un’intervista televisiva, ma aggiunge che non avrebbero potuto svolgere un ruolo attivo.[19]
Tra i membri iscritti alla loggia Propaganda Due, si trovano pure personaggi della CIA di Roma, una trentina di generali italiani, i capi di tutti i servizi segreti italiani e la maggior parte del comitato di crisi del Ministro Cossiga che si occupava dei fatti durante il rapimento di Moro. L’intera lista P2 è pubblicata sul sito di Clarence.[20]
Il colonnello Camillo Guglielmi, loggista e parte attiva di Gladio, esercito paramilitare segreto della NATO attivo in Italia con lo scopo di evitare la diffusione del comunismo nell’Europa occidentale[21], era presente in via Fani alle nove di mattina del 16 marzo. Egli giustifica la sua presenza grazie ad un invito a pranzo. La possibilità di un pranzo alle nove viene condivisa dal brigatista Moretti, uscito dal carcere dopo aver scontato neanche il terzo della pena prevista, in un’intervista televisiva con un “era possibilissimo”, eloquente risposta che la dice lunga sulle ipotizzate infiltrazioni nelle BR. Il dipendente ed agente di Guglielmi, Pier Luigi Ravasio, dirà davanti alla Commissione parlamentare che il suo Capo sarebbe stato informato prima della data e luogo del rapimento.
Quello che stupisce è la precisione con la quale sono stati uccisi i cinque agenti della scorta,[22] la metà dei proiettili risultano fatti esplodere dalla stessa arma. Moretti dichiara che tutte le Br avrebbero sparato da un lato[23], ma le indagini dimostrano il contrario. I proiettili provenienti da quell´arma presentavano una particolare vernice che si usa normalmente contro la ruggine. La verniciatura dei proiettili porterebbe ad ipotizzare che la provenienza delle armi fosse la stessa utilizzata da Gladio, e la necessità di proteggere i proiettili dalla ruggine fa pensare che le armi provenissero da depositi sotterranei. Dunque la “casuale” presenza del colonnello Guglielmi, come ufficiale di GLADIO responsabile dell’addestramento delle unità di combattimento «stay behind»[24] alla base NATO a Capo Marrargiu sull'isola sarda (come si seppe nel 1991 dalla Commissione strage Gladio).Egli incarnava all'agguato di via Fani la rappresentazione di GLADIO con il compito di verificare se il tutto andava bene.Moretti e Franceschini ammettono, durante un’intervista televisiva, che le Br, nonostante alcune esercitazioni nell’arte di sparare avevano gravi problemi con le armi e che non erano assolutamente in grado di sparare con precisione. In un conflitto a fuoco non si può essere sicuri di non subire perdite.Tanto più che, come ha rivelato il brigatista Bonisoli a Sergio Zavoli che lo intervistava in Televisione "Noi avevamo una preparazione militare approssimativa. C'eravamo allenati ogni tanto a sparare alle bottiglie, in periferia, il mio mitra si inceppò e io non sapevo cosa fare. Possibile che i brigatisti fossero solo in nove, ad affrontare una scorta composta da cinque uomini? L'agente Iozzino riuscì ad uscire dall'auto di scorta: e se fosse riuscito a colpire uno dei terroristi? Di qui la ragionata convinzione che, la dinamica dell'agguato ed il numero dei partecipanti debba ancora essere oggetto di accertamenti per raggiungere una verità piena e convincente. [25]Esiste un’importante informazione fornita da tre testimoni che parlano di una Honda presente sul luogo della strage, con due uomini a bordo. Uno dei testimoni, l'ingegner Alessandro Marini, si era visto addirittura arrivare una raffica di mitra addosso dall'uomo seduto sul sellino posteriore. I brigatisti però negano tutto e sostengono che non avrebbero avuto nessuna moto in via Fani.
Il Manifesto del 23 aprile 98 titola BR - "Peppe", "Peppa" e la Honda fantasma di via Fani :[26]
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Markevitch, i partigiani, i partigiani finti infiltrati e il ruolo di Dalla Chiesa
Markevitch, negli anni 50, viveva in una dependance di villa Tatti, in casa del critico d'arte Bernard Berenson, sulle colline tra Fiesole e Settignano, oggi sede di un'università Usa. Poi soggiornò a Fiesole, nella villa dei misteri. Esiste solo un Anfitrione o c’è anche la mente strategica del sequestro? Certo non quella del “dinamitardo”, che poco si concilia con il suo stile di vita e con il segreto che ha tenacemente avvolto per vent’anni la sua identità di partigiano, ed è in questa parte della sua vita che va cercato il movente segreto del ruolo che oggi viene attribuito ad Igor Markevitch. Alberto Franceschini raccontò che i brigatisti consideravano gli ex partigiani un punto di riferimento, e il colonnello Niccolò Bozzo, stretto collaboratore di Dalla Chiesa, ha raccontato alla commissione Stragi che il generale poco tempo prima della morte inseguiva un’ossessione:
“Era convinto che a tirare le fila fosse una rete messa in piedi, durante la Resistenza, dagli Usa, uomini infiltrati nelle organizzazioni di sinistra come ex partigiani rossi, ma in realtà di opposta ideologia”.
I brigatisti storici appaiono imbarazzati da queste rivelazioni. Maccari[27], presunto quarto uomo, liquida la vicenda: “Sciocchezze, sono un testimone oculare, Moro fu assassinato in via Montalcini”. Morucci, che per primo ha messo sulla pista dell’Anfitrione, ora minimizza. Certo e´che molte pagine andranno riscritte. Il Ghetto pullulava di covi Br, a quanto si scopre oggi. Efisio Mortati, il primo pentito, raccontò di essere stato ospite di tal “Anna e Franco” in via dei Bresciani, vicino ai Banchi Vecchi.
E nel rapporto Sismi dell’80 si fanno i nomi di questi due brigatisti, come coloro che interrogarono Moro. Però la descrizione che ne fece Mortati non coincide con nessuno dei brigatisti noti.[28]
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Il ruolo di Igor Markevitch fa riscrivere un capitolo?
Il 30 maggio 1999 quotidiani italiani, come Il Messaggero, hanno parlano del misterioso uomo di Firenze.
Il nome di Markevitch, morto nell’83, compariva già nell’80, quand’era all’apice della notorietà, in un rapporto del Sismi. Secondo il servizio segreto militare a condurre l’interrogatorio di Moro, nel carcere delle Br, era tal Igor Caetani, più tardi identificato come Markevitch, marito della principessa Topazia Caetani, proprietaria di un Palazzo nell´ omonima strada, sposata nel ‘48 in seconde nozze, principessa dell’omonima casata e proprietaria del palazzo nobiliare che si trova all’angolo tra via Caetani e via dei Funari, a venti metri da dove la mattina del 9 maggio ‘78 fu ritrovato, all’interno della Renault rossa, il cadavere di Aldo Moro. Un palazzo con il passo carraio e due leoni in pietra nel cortile, che corrispondono alle indicazioni fornite da Pecorelli, il giornalista poi assassinato.
Ora ci si chiede se la realtà non abbia superato l'immaginazione. Pellegrino, presidente della commissione Stragi, così si esprime:
“Alla luce di queste rivelazioni, molti messaggi del passato acquistano un nuovo significato”
Il volantino numero 7, ad esempio, messo a punto da Tony Chichiarelli, collaboratore del Sismi, ucciso dopo la miliardaria rapina alla Brinks, era stato finora considerato un depistaggio. Ma ci si chiede se invece non era una segnalazione, ahimè ignorata, proveniente da una frangia dei servizi segreti che indicava dove andare a cercare Moro, nel Lago (Palazzo?) della Duchessa, anticipandone la condanna a morte. La Duchessa è un personaggio ricorrente nelle allegoriche rivelazioni di Pecorelli che, due settimane dopo l’uccisione di Moro, sembrava conoscere l’ultima prigione: scrisse infatti che in via Caetani, dietro il muro dov’è stato trovata la Renault, la Duchessa vede “i ruderi del Teatro Balbo, il terzo anfiteatro dove un tempo antichi guerrieri scendevano nell’arena. Chissà cosa c’era nel destino di Moro, perchè la sua morte fosse scoperta contro quel muro”. Un’allusione alla Gladio di “Stay behind”, allora segretissima?[29]
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I possibili mandanti dell'assassinio di Moro, le ”menti misteriose”
Probabili prove rafforzerebbero la tesi secondo la quale esistono dei mandanti che avrebbero affidato il compito a specialisti, dunque si trattò di strage di stato.
1. Le foto scattate dall’operaio Gerardo LucciTali foto scattate subito dopo la sparatoria, facevano forse vedere “lo specialista”. L’operaio si trovava casualmente la macchina fotografica che doveva utilizzare durante la sua giornata lavorativa di metalmeccanico. Le foto sviluppate e i negativi finiscono, dopo un incontro della moglie di Lucci con il magistrato Luciano Infelisi, nel buio della giustizia. I negativi spariscono per sempre. Solo alcune foto che fanno vedere la macchina vengono restituite.
2. In quanti erano in via Fani?
Nessuno si è mai interessato seriamente alla cifra esatta. Valerio Morucci ha diverse volte fatto i nomi di sette uomini: Mario Moretti, Raffaele Fiore, Bruno Seghetti, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari, Barbara Balzerani e lui stesso. In un’interrvista televisiva di molti anni dopo ha indicato altri due nomi: Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, il primo arrestato e processato in Svizzera dove si era rifugiato, il secondo mai catturato. È stato visto, intervistato e fotografato in Nicaragua, dove aveva aperto un ristorante, ma non ha mai scontato un solo giorno di galera.[30] Alla fine Morucci ha tirato fuori anche il nome di Rita Algranati, che a bordo di un motorino doveva segnalare al commando l'arrivo delle auto di Moro e della scorta.[31] Anche lei è stata segnalata in Nicaragua. Morucci adesso giura di aver davvero detto tutto, rimane insoluto il mistero della moto Honda.
3. La richiesta delle foto
Sei settimane dopo arriva una telefonata dal segretario di Moro, il deputato della DC, Cazora, chiede le foto scattate da Gerardo Lucci[32]. Questa telefonata fu registrata. Cazora ricorda che avrebbe ricevuto una telefonata dalla Calabria “perché mi hanno ... [parte cancellata sul nastro] ... telefonato dalla Calabria...”. Si potrebbe identificare sulla foto una persona, che si conoscerebbe in Calabria. Infatti il nastro è stato manipolato e casualmente (!) proprio quella parte che porterebbe probabilmente all’anonimo specialista.4. La ‘ndrangheta era probabilmente presente alla sparatoriaNell’ottobre 1993 emergono informazioni dettagliate che riguardano una spia, scarcerata nel momento della strage in via Fani, un boss della ‘ndrangheta, Antonio Nirta, che lavorava come spia per i carabinieri. Lui sarebbe stato presente in vi a Fani.[33] I contatti tra le cosche e lo stato venivano garantiti dal generale Delfino. Il tutto si venne a sapere grazie al pentimento di Severino Morabito, pentito della ‘ndrangheta del Nord. La famiglia calabrese Delfino teneva buoni contatti con la Dc, in particolare con l´on. Misasi. Proprio a Misasi scrisse Aldo Moro un’ultima disperata lettera d’aiuto.[34] Ci si chiede perché proprio a lui. Moro sapeva qualcosa che riguardava il rapporto tra DC e le cosche e tra politica e cosche/servizi segreti/forze maggiori.
5. Le due parti separate delle Brigate rosse.
Flamigni sostiene la tesi secondo la quale erano state date precise diposizioni affinche alcuni brigatisti non fossero arrestati. Gli elementi più duri come Moretti, i “falconi”, dovevano essere guidati per mezzo di persone terze e dovevano essere strumentalizzati a scopi come sparare e assassinare. I brigatisti “intellettuali” coloro cioè che non avevano mai ucciso dovevano essere separati dagli altri perché non erano in grado di eseguire un sanguinoso agguato come quello di via Fani. Questa tesi è sostenuta anche dal brigatista Franceschini, egli racconta anche, che dopo il suo arresto (avvenuto nel 1974) fu interrogato dal giudice Giancarlo Caselli che gli mostrò le foto degli incontri con «frate Mitra» [Silvano Girotto, l'infiltrato che nel '74 provocò l'arresto di Curcio e Alberto Franceschini[35]] "le foto in cui c'ero io - dice Franceschini - e una foto con Moretti indicato con un cerchietto. Caselli chiese lui:
"Lei conosce questa persona?". Erano le foto con Casaletti, quelle del primo incontro. Io rispondevo di no. Poi mi fece vedere le foto in cui c'ero io e una foto con Moretti indicato con un cerchietto. Mi chiese se lo conoscevo e risposi di no.”
Lui si mise a ridere e mi disse:
“Se non lo conosce, almeno si ponga il problema del perché l'operazione è stata fatta quando c'era lei e non quando c'era quella persona.”[36]
«Quando fui arrestato, il giudice Giancarlo Caselli nel corso dell'interrogatorio mi fece vedere una cinquantina di fotografie in bianco e nero, mescolate tra loro, sugli incontri con Frate Mitra».
La foto fu scattata durante uno dei primi due incontri ai quali si presentava una persona come “probabile” nuovo brigatista. Dopo l’interrogazione, il magistrato negò di aver fatto questa domanda. La foto fu fatta sparire nella nebbia del tribunale, essa faceva vedere inoltre una terza persona di particolare interesse che ovviamente doveva rimanere in incognita. Al terzo incontro fu arrestata la menta intellettuale della prima ora delle Br, Franceschini e Moretti non erano presenti. Flamigni si chiede come mai l’arresto avvenne solo in occasione di questo terzo incontro. Flamigni interroga Vincenzo Fragalà per dimostrare che uno dei “falconi” come Moretti serviva libero non solo durante, ma pure dopo la morte di Moro:
“Lei ha sostenuto che il suo arresto assieme a Curcio, nel settembre 1974, fu ritardato di una settimana dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per evitare che venisse catturato anche Moretti. Perché?”
«Fu ritardato di alcuni mesi. È un altro di quegli episodi strani di cui non ho mai trovato la spiegazione. Gli incontri con Frate Mitra [Silvano Girotto, ndr] furono tre, in mesi successivi. A tutti e tre andò Renato: al primo assieme ad Attilio Casaletti, che è un pentito; al secondo assieme a Moretti; al terzo andai anch'io, che pure non ci dovevo essere. Dalla Chiesa, di fronte alla commissione Moro, ha dichiarato espressamente che fece fotografare tutti e tre gli incontri: lo dichiarò a proposito del doppio arresto di Patrizio Peci.[37]
L’avvocato della difesa di Curcio, Giannino Guiso, sottolinea in un’intervista alla televisione tedesca che le Br non sarebbero state capaci di eseguire una tale operazione con la mostrata precisione senza l´appoggio da parte di terze persone.[38]
6. Il falso comunicato numero sette
Il falso comunicato numero sette (alias comunicato del Lago della Duchessa) e il finto scoppio di un tubo dell’acqua il 18 aprile in via Gradoli dimostra che da parte dei mandanti c’era un certo nervosismo e una certa fretta, perciò si volle creare un depistaggio e/o magari inviare un messaggio che anticipasse la morte dello statista.
Il rifugio di Mario Moretti e Barbara Balzerani infatti era «saltato» grazie a una fuga d'acqua che secondo i vigili del fuoco sembrava fosse stata provocata: uno scopettone era stato appoggiato sulla vasca e sopra lo scopettone qualcuno aveva posato il telefono della doccia (aperta) in modo che l'acqua si dirigesse verso una fessura nel muro.[39] Sull'ipotesi di Moro vittima della trattativa, Franceschini dice tra l'altro:
"Era difficile mantenere nascosto Moro per così tanti giorni in una città come Roma, perché se ci fosse stato anche un solo servizio, ad esempio il Kgb, che non era d'accordo, sarebbero stati scoperti. Questo significa che esisteva un accordo tra tutti quelli che contavano e che avevano deciso che Moro doveva morire. Quel tipo di strategia politica doveva finire. Il sequestro Moro aveva chiuso quel tipo di strategia politica."
Su quel 18 aprile (Via Gradoli- Lago della Duchessa) che è forse la giornata cruciale del rapimento, Franceschini dice:
"L'operazione Lago della Duchessa-via Gradoli (vanno sempre tenuti insieme) è un messaggio preciso a chi detiene Moro. Da lì c'è una svolta precisa. Gli dicono: «Noi vi abbiamo in mano, possiamo prendervi in qualsiasi momento». Inizia quindi, secondo me, una trattativa sotterranea tra chi detiene Moro e una parte dello Stato. Mi immagino questa trattativa come un braccio di ferro che alla fine produce certi risultati. Un risultato è: la morte di Moro, la salvezza dei brigatisti che lo avevano in mano. Probabilmente, all'interno dello schieramento che faceva la trattativa c'era anche chi pensava che Moro potesse essere liberato..." [40]
9 aprile 1999: Il settimanale «L'Espresso» pubblica, a cura di Antonio Padellaro, un resoconto dell'audizione di Alberto Franceschini in commissione stragi (17 marzo 1999).[41]
La polizia trovò un deposito di armi nell’appartamento dei brigatisti della prima ora.
7. Le informazioni trattenute
Secondo Flamigni la polizia giudiziaria sa chi ha scritto il comunicato del “Lago della Ducchessa”, ma l’informazione non viene passata né alla Commissione parlamentare né alla Magistratura. Il corpo di Aldo Moro giace sul fondo del lago della Duchessa[42], diceva il comunicato numero sette delle Br, fatto recapitare il 18 aprile, ma era un falso. L’autore del falso comunicato, si scopre successivamente, è Toni Chicchiarelli, un criminale della “Banda della Magliana” la quale veniva chiamata in causa, in certe occasioni, dai servizi segreti, per eseguire qualsiasi “lavoro sporco”. Ci si è chiesti chi fosse la mente che aveva ordinato di preparare quel comunicato. È chiaro che si trattò di un depistaggio. Chicchiarelli non può più rispondere, verrà ucciso qualche anno dopo. Le indagini finiscono nella sabbia della “Giustizia”.
8. Le minacce a Moro
Esse costituiscono un altro mistero mai chiarito. Lo statista aveva ricevuto intimidazioni già durante il suo viaggio ufficiale in America, e negli ambienti politici si aveva sentore che le Br stavano preparando un «attentato contro un esponente democristiano». Un agente della scorta dell’on. Moro si era reso conto, già alcune settimane prima del rapimento, che qualcuno seguiva la macchina dello statista, la segnalazione fu fatta pervenire alla polizia la quale non la prese in considerazione, tanto meno sembrò interessare a qualcuno e in seguito nessuno poté e/o volle ricordarsene. Fu questa una situazione che aveva comunque indotto Moro a pretendere una scorta per i figli, a mettere vetri blindati alle finestre del suo studio in via Savoia e il suo caposcorta Oreste Leonardi a chiedere inutilmente un'auto blindata per il suo protetto.
Il presidente Dc aveva ricevuto, dopo la decisione di «aprire» ai comunisti, in America durante un viaggio ufficiale, minacciosi avvertimenti di «altissimo livello» in cui lo si incitava ad abbandonare il suo piano di “compromesso storico” aggiungendo che avrebbe dovuto fermare il tutto o l’avrebbe pagata cara. Moro tornò dal nuovo Continente con una profonda insicurezza e confusione per questo voleva ritirarsi dalla politica per qualche anno. Egli ne aveva parlato - rompendo una ferrea tradizione di riserbo - con sua moglie Eleonora Moro che a sua volta ne parlò, in seguito, davanti alla Commissione. Non si sa se Moro ha saputo del fatto che Kissinger sosteneva con alta probabilità GLADIO e aveva contatti diretti con la CIA che a sua volta aveva piazzato i suoi fedeli nella Propaganda Due.[43]
Nel gennaio 1999 è venuto alla luce che Henry Kissinger informò il governo cinese nel 1974 che gli Stati Uniti avrebbero impedito ai comunisti italiani di entrare nel governo per non creare un precedente in Europa. Lo si apprende dai verbali di un colloquio tra Kissinger, che era allora segretario di Stato degli Stati Uniti, e il vice primo ministro cinese Deng Xiaoping. Il testo è stato pubblicato dai ricercatori della George Washington University che lo hanno ottenuto in base al “Freedom of Information Act”.[44]
A Washington, nel 1975, gli Stati Uniti preparavano un intervento militare in Jugoslavia ma diffidavano dell’aiuto da parte dell'Italia. [45]
«Dovete capire - disse Kissinger a Deng - che noi facciamo e diciamo cose destinate a paralizzare non soltanto la nostra sinistra ma anche la sinistra europea. Siamo contrari e resisteremo alla inclusione della sinistra nei governi europei. Faremo così in Portogallo perché non vogliamo che sia un modello per altri paesi. E lo faremo in Italia, e naturalmente in Francia» e prosegue con «La Democrazia ha dirigenti molto deboli».[46]
Poi scoppia in una risata e aggiunge:
«il presidente del Consiglio, Moro, ha la tendenza ad addormentarsi mentre gli si parla»[47]
Questo atteggiamento da parte di Moro accentuò ancora di più il conosciuto disprezzo di Kissinger nei suoi confronti.
Sull'eurocomunismo Deng Xiaoping mostrava invece un atteggiamento tollerante e spiega che può essere utile «come esempio negativo». Ma Kissinger ribatte che una vittoria elettorale dei comunisti in Francia o in Italia avrebbe «conseguenze gravi» per la Nato in quanto
«rafforzerebbe l'ala sinistra del partito socialdemocratico tedesco, fortemente influenzato dalla Germania dell'Est».[48]
Kissinger deplora la debolezza della Dc e racconta come Moro si sia addormentato mentre egli gli parlava.
«È sempre lo stesso gruppo, ribatte Kissinger «ma il gruppo di governo della Dc non è molto disciplinato. Noi siamo del tutto contrari a quello che in Italia si chiama compromesso storico e non diamo visti per gli Stati Uniti ai comunisti italiani. Ma loro hanno messo un comunista in una delegazione parlamentare che verrà a Washington e che noi non abbiamo scelto».
9. “Le carte” di Moro
Per tutti i 55 giorni della sua prigionia, Aldo Moro aveva scritto: lettere, appunti, ma anche una sorta di riassunto dell'interrogatorio al quale lo stava sottoponendo Mario Moretti. Quelle carte verranno ritrovate in due tempi, nella base Br di via Monte Nevoso a Milano: un primo ritrovamento fu fatto nel '78, ad opera dei carabinieri del generale Dalla Chiesa, un secondo, dodici anni più tardi. Si trattava di quarantatré pagine la prima volta e di 421 la seconda, più una serie di lettere inedite. Ma ci si può chiedere se c'era davvero tutto, e se mancava qualcosa, di cosa si trattava? Moro aveva parlato a Moretti di alcune pagine nere della vita politica di quegli anni e aveva fatto rivelazioni potenzialmente devastanti, che però le Brigate rosse sembrano non aver recepito o almeno così hanno dato ad intendere.[49] Moro traccia, tra altro, il bilancio di uno stato corrotto, parla della relazione di Andreotti con la CIA, dello stesso Andreotti che ha detenuto, più a lungo di chiunque altro, la carica di capo dei servizi segreti ed inoltre ha esposto fatti che riguardavano GLADIO e di certi particolari riguardanti assegni che passavano dalle mani di Andreotti, sarà proprio di questi assegni che parlerà Pecorelli (vedi capitolo).
Il presidente della Commissione strage, Giovanni Pellegrino, sta per presentare la sua relazione finale. Il Messaggero parla in un recente articolo di giovedì 29 Luglio 1999 a cura di Massimo Martinelli, intitolato La relazione della Commissione stragi: più che la vita dello statista, si volle salvaguardare la riservatezza - Caso Moro, sui segreti lo Stato trattò con le Br, di un nuovo scenario, che arriverebbe dopo 21 anni: Aldo Moro fu costretto a svelare segreti di Stato e particolari imbarazzanti legati a circostanze talmente riservate da essere motivo di preoccupazione dei servizi segreti di altri paesi. E quando fu chiaro che egli stava cedendo agli interrogatori sempre più pressanti, la trattativa «vera» non riguardò più la sua vita, ma la restituzione dei verbali con le sue dichiarazioni.
Ma a tutt’oggi le autorità giudiziarie non sono in possesso dell’originale completo di quel documento. Giovanni Pellegrino individua, nella sua relazione, un momento preciso in cui le Br cambiarono atteggiamento:
“accade subito dopo il comunicato numero 6, che precede immediatamente il falso comunicato della Duchessa e la contemporanea «scoperta» del covo brigatista di Via Gradoli. Fu allora che cominciò l’«oscura partita», come la chiama Pellegrino, tra alcuni dei brigatisti e apparati dello Stato. Pellegrino ricorda, come il falso comunicato sul lago della Duchessa e anche i riferimenti a Gradoli (dove era una delle prigioni di Moro), erano in realtà solo messaggi che spezzoni di qualche servizio segreto inviarono ai brigatisti per piegarli alla trattativa sui verbali di Moro. Quei messaggi miravano a far capire ai brigatisti che, se lo Stato avesse voluto, poteva annientarli. Tanto valeva scendere a patti. E la posta in gioco, a quel punto, non era più la vita di Moro, quanto la segretezza delle sue rivelazioni.“[50]
La suocera di Dalla Chiesa, la Signora Setti Carraro, sostiene la tesi secondo la quale Dalla Chiesa non avrebbe consegnato l’interno materiale ad Andreotti per una necessaria precauzione. Si ricorda di aver sentito dire dalla figlia:
”Io so delle cose tremende, ma non posso dirtele. Se te le raccontassi, non ci potresti credere. Carlo mi ha fatto giurare di non dirle a nessuno”[51]. Dopo il suo assassinio, questi documenti, che egli conservava in una cassetta, scomparvero misteriosamente. (Cfr. Drake, p. 257)
Richard Drake ricorda che Franco Evangelisti, allora senatore DC, parlò del suo ruolo di messaggero tra Andreotti e Dalla Chiesa.
“Descrisse una visita alle due di notte quando Dalla Chiesa si presentò con un dattiloscritto che diceva provenisse dalla prigione di Moro. Mele concluse su quel documento che “potrebbe trattarsi del cosiddetto memoriale”[52].
Drake dimostra un’altra prova: “Il testimone Ezio Radaelli sostenne che un emissario di Andreotti aveva cercato di fare pressioni su di lui perché cambiasse la sua deposizione riguardo ai movimenti finanziari del senatore.” (Cfr. Drake, p. 257)
10. “Più in alto” – La domanda ai santi
Il generale Dalla Chiesa e Cossiga sembra abbiano avuto un incontro, non è ancora chiaro però chi dei due sia andato a far visita all’altro. Dalla Chiesa voleva informare Cossiga di una certa possibilità con la quale si sarebbe potuto scoprire la prigione di Moro. In quell’occasione Cossiga cercò informazioni “più in alto ”.
11. L’aiuto negato
Durante una breve intervista nel carcere napoletano (il Ministero di Grazia e Giustizia negò comunque l’intervista) Raffaele Cutola, capo della Camorra, rispose alla domanda circa l´aiuto prestato nel caso Cirillo, il quale era stato sequestrato dalle Brigate rosse nel 1981. Grazie alla intercenzione di Cutolo, richiesta da parte della politica, Cirillo deputato della Dc, era stato infatti liberato. Nel caso di Moro un avvocato si mise in contatto con Cutola. Niccolino Senso, amico dello stesso e malavitoso della Banda della Magliana scoprì per caso il covo di Moro, Cutola fece sapere il fatto a diversi personaggi politici, ma gli venne subito fatto capire che non si doveva occupare del fatto, in altre parole le autorità si rifiutarono di prestare qualsiasi aiuto.
Drake scrive:
“Buscetta era stato personalmente coinvolto nel piano fallito, della mafia per salvare Moro. Mentre scontava una pena detentiva a Cuneo, al mafioso era stato chiesto dall’organizzazione di contattare i detenuti delle Brigate rosse [nel carcere di Torino, n. mia] per ottenere il rilascio dell’Ostaggio. Egli accettò di farlo, ma prima di tutto doveva ottenere un trasferimento a Torino, dove i capi delle Br erano sotto processo. Il trasferimento non ebbe mai luogo. Fu bloccato da politici, seppe più tardi: “Questi non lo vogliono liberare Moro.“[53] (Drake, p. 251)
12. Il rapimento anticipato
Due significativi avvenimenti accaduti PRIMA del rapimento di Aldo Moro:a.) Roma. Due donne della polizia sentono mezz’ora prima del rapimento di Aldo Moro su una stazione radio privata (Radio Radicale?) che lui sarebbe stato rapito.b.) Siena. Una persona cieca ascolta casualmente, la sera prima della strage, il 15 marzo 1977, verso le ore venti, un dialogo tra due persone, probabilmente due carabinieri, prima che si allontanino in macchina. I due parlarono del fatto che Aldo Moro sarebbe stato rapito e la scorta uccisa. Il cieco corse in un bar e raccontò l’accaduto.
13. I probabili mandanti – le forze oscure
Sui mandanti della strage di stato esistono varie tesi:
a.) “Si ritengo infatti che le Br nell’operazione Moro siano state uno strumento, forse anche inconsapevole, di un progetto nelle mani di forze straniere che hanno agito in connessione con gli apparati piduisti dello Stato”[54]
b.) Sergio Flamigni:
"Mi sono convinto che i misteri insoluti siano da ricercare più nei Palazzi che non tra le Brigare Rosse".[55]
Durante un’intervista televisiva Flamigni parla di una “strumentalizzazione” delle Br e avanza alcune dimostrazioni che sostengono la sua tesi.
Pellegrino incalza ancora Signorile e gli chiede prima se ha letto il memoriale di Moro poi se sa chi poneva le domande all'ostaggio. E aggiunge:
«Poiché le Brigate rosse hanno giustificato il fatto di non aver pubblicato il memoriale dicendo che il prigioniero non disse cose utili alla loro analisi, perché gli venivano rivolte quelle domande?».
Risposta di Signorile:
«Da quel poco che ricordo, le domande erano precostituite, nel senso che erano costruite fuori».
E il presidente: «Sembrerebbe che chi fa quelle domande non appartiene al gruppo conosciuto dei brigatisti». (Il Messaggero, 10.06.1999)
Secondo Pellegrino, l'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga ebbe questo sospetto fin dai giorni del sequestro:
"Cossiga non era tra quelli che non volevano salvare Moro. Ma certamente ha la coscienza che molte delle persone che gli erano vicine in quei drammatici giorni non si muovevano per salvarlo. E probabilmente era sovrastato da forze più grandi di lui".[56]
14. Guido Passalacqua, giornalista de La Repubblica sulla pista della falsa scuola di lingua per le Br
Guido Passalacqua, giornalista de La Repubblica, si mise sulla pista dell’influenza del cosiddetto Superclan e la finta scuola di lingua parigina Hyperion.[57] Il 12 aprile 1980 scrisse che sarebbero state una, due o tre persone a decidere sulle azioni di terrore e che sarebbero state proprio quelle del vero commando delle Br. Quando tempo dopo Passalacqua annunciò che avrebbe pubblicato altre rivelazioni venne ucciso nel maggio 1980.inizio
Il ruolo della Chiesa cattolica
A 20 anni dal rapimento, nel marzo 1998 Andreotti racconta in un'intervista al «Giornale» per la prima volta un clamoroso risvolto della tragedia. Paolo VI voleva pagare 10 miliardi per Moro.
Andreotti rivela:
«Fra le iniziative del Vaticano per ottenere la liberazione del presidente della Dc ci fu l'offerta di un fortissimo riscatto. Il tramite con cui cercavano di arrivare ai brigatisti era un cappellano delle carceri. Era Paolo VI che si muoveva, io non frapposi alcuna difficoltà. Ho sperato con tutte le mie forze che quel tentativo portasse alla liberazione di Moro »[58]
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Sulle tracce della nuova prigione nel ghetto - Mino Pecorelli ne parlò allusivamente su “OP”
Un interrogativo che si aggiunge ai tanti: dal perché Pecorelli parlò di un misterioso Igor e di una contessa dai capelli biondi, al perché in via Gradoli fu trovato il numero di telefono dell'Immobiliare Savelli, proprietaria di Palazzo Orsini.[59]Il Messaggero pubblicò il 29 maggio 1999 un articolo intitolato “L‘inchiesta mai chiusa - A parlarne fu il giornalista Mino Pecorelli su un bollettino di “OP”, pochi giorni prima di essere assassinato.” Secondo Giovanni Pellegrino la nuova prigione dalla quale uscì la Renault rossa con il cadavere di Moro non sarebbe in via Montalcini, 8 come i brigatisti hanno sempre fatto credere, si troverebbe invece nel centro storico, precisamente al Ghetto ebraico, a pochi passi da via Caetani, dove l‘auto fu fatta trovare. Esistono presupposizioni secondo le quali l’ultima prigione di Moro possa essere anche stata all’interno di Palazzo Orsini,[60] sede diplomatica di banche ed agenzie. In passato, durante il sequestro Moro, la magistratura aveva indagato sul palazzo; il primo ad occuparsene fu il consigliere istruttore Ernesto Cudillo, che il 22 aprile ’78 fece fare un’intercettazione telefonica su un residence dello stabile. Tale decisione fu presa in seguito al ritrovamento, nel covo di via Gradoli, di una piantina topografica di Palazzo Orsini comprensiva di tutte le entrate e le uscite, dal complesso immobiliare. La registrazione tuttavia, non a caso, non compare agli atti del processo.
La storia ha insegnato l’utilità di non rendere pubbliche le prove. Fine maggio 1999 Pellegrino afferma:
«Siamo vicini ad una svolta, so cose che non posso dire e che non direi neppure in seduta segreta alla commissione stragi»”.[61]
Particolare importante appare il fatto che il palazzo è dotato di cantina e garage e sulla piantina trovata nel covo di via Gradoli compaiono dettagliate indicazioni sulla consistenza delle mura esterne e sulle parti sotterranee e degli scavi del teatro Marcello che arrivano fin sotto la nobile residenza. È incredibile come, a questo punto volutamente, non si sia collegato il tutto a Moretti com’è logico che fosse e che sia stata autorizzata una completa ristrutturazione del palazzo prima di un’esauriente indagine. In un appunto scritto da Mario Moretti compariva il nome della titolare dell’agenzia Savellia, che curava la gestione dell’immobile di proprietà della marchesa Rossi di Montelera. Nessuno non ha mai indagato più di tanto su questo strano collegamento tra la Savellia e Mario Moretti, e adesso (nel 1999) nessuno potrà farlo più. La contessa è deceduta qualche tempo fa. Accanto al numero di telefono c’era anche una misteriosa nota circa 15 gocce d’atropina, noto anestetico.
Nell’appunto di Moretti c’era una frase un po' criptica: “Marchesi Liva mercoledì 22 ore 21 e 15 - atropina.”Massimo Martinelli scrive su Il Messaggero un articolo dal titolo «Io, il portiere del palazzo dei misteri»“ che se letto con attenzione, conferma l’esistenza di un filo che conduce a Moretti:
“... oggi il suo appartamento al terzo piano del primo stabile di Palazzo Orsini è passato di mano. È lo stesso appartamento che ventuno anni fa era intestato all’Immobiliare Savellia” - [...] - «Che c’è di strano? - dice il portiere [che difende tutti e afferma che non lasciò mai passare nessuno (tranne le gocce di Atropina?, n. mia)- la contessa non si era voluta intestare la casa e l’aveva lasciata a nome di quella società. Lo fanno in tanti.». [...] Di strano c’è che durante i tempi di piombo [...] il numero telefonico dell’Immobiliare Savellia, lo 06-659127, lo trovarono nel covo brigatista di via Gradoli, sulla Cassia. Era in un appunto scritto da Mario Moretti in persona, quello che secondo molti investigatori conosce i «dietro le quinte» del caso Moro che non conosciamo noi. “ [62]
Esiste un’altra persona, un brigatista pentito del nord-Italia, Efisio Mortati, che si ricorda di un covo nel Ghetto e ciò conferma l’ipotesi sovraformulata:
“ [....] il presidente della commissione Stragi, Imposimato e Priore ricordano invece di quando, durante l’inchiesta Moro-quater, furono fotografati da un’ignota mano mentre notte tempo si aggiravano per il Ghetto, in compagnia di un brigatista pentito del nord-Italia, Efisio Mortati, che ricordava di essere stato ospitato in un covo br che si trovava nei pressi di piazza Argentina, ma non conoscendo l’indirizzo e non essendo romano non riusciva a ritrovare la strada. Covo e prigione nella stessa zona. Qualcuno fece recapitare le foto a Palazzo di Giustizia, un’intimidazione dice ora Imposimato. Non delle Brigate Rosse, sembra di capire.[63]
Se il covo e la prigione si trovavano nella stessa zona questo pezzo della storia delle Br dovrebbe essere riscritto per capire la verità.
A parlare della prigione al Ghetto, di un passo carraio e dei leoni di pietra al cancello d‘ingresso fu Mino Pecorelli su Op, pochi giorni prima di essere ucciso, in un trafiletto dal titolo «Vergogna buffoni» che pesantemente alludeva ai troppi punti oscuri del sequestro Moro, e ora sappiamo, grazie al processo Andreotti, che Pecorelli per queste sue elucubrazioni, o che tali apparivano, aveva una fonte di prestigio, il generale Dalla Chiesa. In uno degli ultimi scritti Pecorelli attribuisce ad una misteriosa duchessa romana, presente in via Caetani, riflessioni che egli scrisse due settimane dopo l’uccisione di Moro. Sembrava che egli conoscesse l’ultima prigione: scrisse infatti che in via Caetani, dietro il muro dov’è stato trovata la Renault, la Duchessa vede:
“i ruderi del Teatro Balbo, il terzo anfiteatro dove un tempo antichi guerrieri scendevano nell’arena. Chissà cosa c’era nel destino di Moro, perché la sua morte fosse scoperta contro quel muro”.
Un chiaro riferimento a Gladio, dicono gli esperti, ma anche al Lago della Duchessa, il falso volantino numero 7.[64] Seguendo le indicazioni seppure cifrate di Pecorelli, si giungerebbe sulle tracce di Palazzo.
Se tutto ciò è vero, i misteri hanno le ore contate. Tuttavia manca ancora il nome dell‘„anfitrione“ che a Firenze, durante il caso Moro, ospitava la direzione strategica delle Br. È sempre a Firenze il luogo dove vennero prese le decisioni sul destino di Aldo Moro e dove furono battuti a macchina i nove comunicati Br, non è ancora chiaro come Azzolini perse il borsello che conteneva le chiavi del covo di via Monte Nevoso a Milano, ritrovato dai carabinieri di Dalla Chiesa che riuscirono ad aprire la porta senza (!) conoscerne l’indirizzo.
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Il partito della trattativa e il partito della fermezza; gli autogol visti da Pellegrino e Cipriani
Durante i 55 giorni della prigionia due opposti schieramenti, il “partito della trattativa” (i trattativisti) e il “partito della fermezza”, si fronteggiarono. Tra coloro che si schierarono dalla parte dei trattatitivisti c’è chi sostiene, ancora oggi, che le autorità dello Stato si siano gravate di trascurare concrete e reali possibilità di salvare Moro. Ma come è possibile credere alla fermezza? Si interroga Luigi Cipriani, quando mai i democristiani sono stati fermi su qualcosa? Come mai, continua ancora Cipriani, quando viene colpito Cirillo patteggiano coi deprecati eversori? Come mai dopo il sequestro Dozier, non appena gli americani lamentano che l’Italia è un paese dove “quattro straccioni” si possono permettere di rapire un generale americano, i nostri scattano sull’attenti e liberano l’ostaggio in due secondi, senza spargere sangue?
Subito dopo l’uccisione di Moro i brigatisti vengono arrestati, ma non sarebbe stato più facile arrestarli prima? La destrezza militare dimostrata nell’agguato di via Fani stride con l’approssimativo addestramento all’uso delle armi dei brigatisti, tanto più che quello di via Fani rimane magari unico episodio nella storia del terrorismo sia per la complessità dell’azione, sia per il successo con cui si concluse. È difficile credere nella straordinaria potenza delle Br che tiene sotto tiro le istituzioni e i servizi segreti internazionali quando poi in via Fani le loro armi s’inceppano. Risulta fondata l’ipotesi che abbiamo concorso, sia alla programmazione, sia alla gestione del sequestro Moro, “forze diverse” dalle Brigate Rosse.[65]
In un attuale articolo de «L’Espresso» del 10.06.1999 viene descritto un colloquio tra Pellegrino e l'ex ministro socialista Claudio Signorile nel quale si chiedono notizie del vero regista.[66]
Signorile diceva d'essersi sempre chiesto perché mai il cadavere dello statista Dc fosse stato collocato a via Caetani proprio la mattina in cui si sarebbe riunita la direzione democristiana:
«Dopo il rapimento il 9 maggio 1978 si riuniva per la prima volta non la delegazione, ma la direzione Dc ed io avevo notizia [da Amintore Fanfani, ndr], che telefonicamente trasmettevo imprudentemente, di un segno di novità che si sarebbe manifestato in quella sede. Moro venne ucciso in quel momento e mi sono sempre chiesto perché, perché non due giorni prima o un giorno dopo».
Alla commissione strage interessava il ruolo politico avuto dal Psdi nelle trattative durante il rapimento di Moro e il cosiddetto partito della fermezza. Era inoltre interessante capire l’entità degli contatti, durante i 55 giorni, tra il Psi e Franco Piperno e Lanfranco Pace e di quest'ultimo con Valerio Morucci e Adriana Faranda. Pellegrino osserva, durante la seduta, che ci sono stati degli incontri, i quali consentivano ufficiosamente ad una parte delle Br di avere un interlocutore politico e chiede perché mai di tutti questi incontri non venne mai informata né la polizia né la magistratura: sarebbe bastato un pedinamento di Pace per arrivare prima al covo di via Gradoli e forse anche alla prigione di Moro.[67]
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Gli Autogol secondo Cipriani
Luigi Cipriani sintetizza molto bene la questione parlando di una serie di autogol:
«Il primo lo fece il protagonista della vicenda la cui politica aperturista, dieci anni prima della caduta del Muro, riuscì del tutto indigesto agli americani e gli procurò nel suo paese le reazioni più disparate. [...] Un secondo autogol è attribuibile all’on. Enrico Berlinguer, sostenitore entusiasta della fermezza contro gli eversori - non capì che la fermezza non era contro di loro, ma contro Moro - e scaricato subito dopo. Il terzo ai brigatisti, che per colpire l’uomo simbolo della normalizzazione innescarono un clima di repressione, legalitarismo, caccia alle streghe che in Italia ha pochi precedenti; e, credendo di attaccare il regime, gli fecero un favore della madonna. Il capitalismo italiano reagì al delitto dello statista con una ventata di felicità, il rifiorire dell’attività economica, la borsa alle stelle con rialzi mai visti. Questa pompata di ottimismo, la sterzata a destra del quadro politico seguita al delitto, la quasi unanimità attorno alla politica della fermezza, le interferenze dei servizi e della mafia per giungere all’esito letale rendono l’idea di un blocco di potere tremendo che certamente trascende da un „pezzo deviato“ a cui addossare le colpe: la congiura trovò in quel blocco un contesto molto, ma molto favorevole, anche se naturalmente non tutti vi parteciparono: Ed era un blocco che negli stessi limiti ma altrettanto, poteva schiacciare la piccola armata che cominciò la vicenda ed è lecito dubitare l’abbia chiusa»[68].
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Gli appartamenti di via Gradoli ed il ruolo del Sisde
Gli appartamenti di via Gradoli erano di proprietà di società che erano legate al Sisde come società di copertura, come sostiene Flamigni.[69]
Di questa traccia si trovano vari documenti ipertestuali. Ne cito uno di Haganah:
“Craxi osserva che se Flamigni può documentare che a via Gradoli c’era un appartamento di proprietà del Sisde, allora «tutta la tragica vicenda andrebbe riletta da cima a fondo: se fosse vero sarebbe una verità esplosiva».”[70]
La Repubblica chiede ironicamente “Che pensare degli investigatori che nel corso di un sopralluogo nell'appartamento di via Montalcini non notano nulla di strano, mentre sul pavimento ci sono, belle evidenti, le tracce del muro che occultava la cella di Moro?” [71]
Due sono le rivelazioni principali del libro Convergenze parallele di Sergio Flamigni:la prima è che a via Gradoli 96, dove Moretti collocò la base operativa delle Br romane, c'erano 20 appartamenti intestati a società di copertura del Sisde. La seconda è che nelle Br di Curcio, l'Ufficio Affari Riservati del Viminale era riuscito ad infiltrare un suo uomo, Francesco Marra, un ex parà che fece parte del commando che rapì il giudice Mario Sossi. E poi i documenti della scoperta del covo di via Gradoli 96 scomparsi financo dal commissariato Flaminio così come non esistono più nemmeno le piantine di quell'appartamento presso il Catasto.[72]
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Il ruolo del Magistrato Luciano Infelisi
La totale indifferenza dello Stato nei confronti del Caso Aldo Moro è dimostrata ancora una volta dopo la morte dello statista. È utile sottolineare che solo un magistrato si occupava del caso, Luciano Infelisi, quando solitamente vi è un’intera commissione.
Mino Pecorelli, l’OP, Dalla Chiesa e il ruolo del divo e Belzebú Giulio Andreotti
Nel 1979 si ritrovarono i memoriali o meglio la versione “censurata” a Milano in Via Monte Nevoso.[73] Erano le 400 pagine mancanti del memoriale che riguardavano GLADIO. Il generale Dalla Chiesa prese in mano personalmente il materiale e affidò il tutto ad Andreotti personalmente. Tutto? Egli sarebbe stato stupido se avesse dato gli originali e non le fotocopie. Moro accennò in una lettera a Cossiga che era diventata una vittima:
"Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità [...] è inammissibile."[74]
Il visionario Moro immaginava, a ragione, una catena logica che partiva dal suo dialogo con quell’individuo molto vicino a Kissinger e si snodava con Andreotti come capo dei servizi segreti, la relazione di Andreotti con l’intelligence CIA e quella italiana, la “strategia della tensione” da parte della P2 e GLADIO. Moro con il suo “compromesso storico” tra DC e comunisti costituiva il problema più spinoso che disturbava troppa gente. Infatti, Moro parlò nei memoriali di un “accordo segreto” tra la DC ed i vari organi dello Stato.
Pecorelli attaccò duramente, in un suo scritto, Andreotti per i suoi rapporti con Sindona e per il suo ruolo nella vicenda Arcaini-Caltagirone-Italcasse.
“Ora – scrive la Procura di Palermo - proprio questa complessa vicenda era risultata connessa a quella dei c.d. "assegni del Presidente", di cui si parlerà oltre; e su entrambe aveva messo gli occhi Pecorelli, il quale ne aveva colto i collegamenti, come dimostra un appunto ritrovato tra le sue carte, del seguente testuale tenore: "È una bomba! L’Italcasse non è finita / è appena iniziata - Ai primi dell’anno verrà fuori chi ha preso gli assegni". Quegli assegni, in realtà, erano soltanto la punta di un iceberg. E la parte sommersa dell'iceberg era costituita dalla convergenza di interessi di Cosa Nostra, proprio nelle vicende sulla base delle quali Mino Pecorelli andava svolgendo il suo attacco contro Andreotti, nel periodo immediatamente antecedente alla sua morte.”[75]
Pecorelli aveva già preparato la copertina e l'articolo, che non furono mai
pubblicati perché la sua morte venne decisa prima.
Pecorelli, usato come loggista P2 dai servizi segreti per diffondere messaggi cifrati si esponeva coraggiosamente ma anche ingenuamente. Richard Drake descrive il giornalista molto bene:
„Lo stile di Pecorelli era allusivo e criptico, ed egli si serviva di oscuri riferimenti che soltanto chi era introdotto nell’ambito dei servizi poteva cogliere. Il giornalista mescolava fatti e invenzioni, ma articolo stranamente profetico sul caso Moro fece una profonda impressione su Mele“[76]
Vittorio Mele, il procuratore della Repubblica di Roma, parla pure del fatto che Andreotti abbia pagato a Pecorelli 30 milioni di Lire per non pubblicare scandali su "OP”. Pecorelli ha ricevuto questi soldi un giorni prima della sua morte.[77]
Infatti, per quanto riguarda la vicenda Italcasse e gli assegni della SIR (e cioè gli "assegni del Presidente"), era stato oggettivamente accertato l'inserimento degli interessi di Cosa Nostra, rappresentati da Giuseppe Calò. E le "indagini" di Pecorelli rischiavano di portare alla luce un collegamento (realizzato, come sempre, in forma non diretta, ma mediata) tra Andreotti, fatti e persone che conducevano con certezza nella direzione di un investimento di capitali provenienti da esponenti di Cosa Nostra.[78]
Ed è significativo il fatto che proprio su questo collegamento aveva messo gli occhi Pecorelli, il quale - con il suo consueto stile giornalistico, intessuto di segnali e di allusioni comprensibili appieno soltanto da determinati destinatari - lo aveva prospettato fin dal 14 ottobre 1977, in una nota di "OP Agenzia" dal titolo "Presidente Andreotti, questi assegni a Lei chi glieli ha dati?", e che iniziava con queste parole: "Questo è un primo elenco di assegni bancari rappresentanti un pagamento effettuato personalmente, "brevi manu", dal Presidente del Consiglio (attuale) On.le Giulio Andreotti per un ammontare complessivo che supera i 2 miliardi di Lire".
Dei memoriali Moro mancanti fino al 1979, in altre parole dei documenti originali scomparsi contenenti la trascrizione dei «verbali» degli «interrogatori» a Moro da parte delle Br, ne sono stati copiati una parte, un’altra parte è stata omessa per far sparire quello che ora è chiaro a tutti. Comunque ne mancavano ancora più di 400 pagine interamente.
Pellegrino afferma: “Perché non corrispondono le due copie del memoriale? Questa è una cosa che francamente per quanto io mi sforzi di credere a Bonisoli ed Azzolini trovo estremamente illogico. Io trovo estremamente logico che fossero stati i carabinieri a selezionare attentamente il materiale e a depurarlo delle parti...” [79]
E qui riprende l’attività giornalistica ed indagativa di Mino Pecorelli nel soprannominato articolo che uscì su “OP Osservatore Politico” con il titolo: “Caso Moro: Memoriali veri – Memoriali falsi – Gioco al massacro.” Lo stesso Pecorelli aveva un secondo articolo da pubblicare sempre su OP:
“Gli assegni del presidente” [Andreotti, n. mia]. In questo articolo Pecorelli chiede a chi sarebbero stati destinati questi assegni. La risposta all’interrogativo di Pecorelli poteva avere solo una fonte: i memoriali mancanti di Moro. Pecorelli aveva già preparato la copertina e l'articolo che non poté però pubblicare, verrà ucciso il 3 settembre 1979.
L'ultima pista del giornalista porterebbe alla lista dei 500 e ai misteri ancora irrisolti dell'affare Sindona. Pecorelli era ormai diventato un esplosivo vivente.
Due anni prima del delitto di Moro esce su OP un articolo: La caricatura[80] accompagnato dal seguente testo: “Il santo del compromesso: vergine, martire e ... dimesso” Nel contenuto del “RR 19877 del 2.7.75 si legge
“oggi, assassinato con Moro l’ultimo centrosinistra possibile, muore insieme con il leader pugliese ogni possibilità di sedimentazione indolore delle strategie berlinguerriane. “ R. Drake
e con la data del 30.10.75 con RR21044
“Basta con quei due: Fuori Moro o fuori Zac - e più in avanti - in quell’occasione, se Moro vivrà ancora, ...”
Pecorelli scisse su OP (7/75 e 9/76):
“Esistono prove documentabili che il presidente del Consiglio [Andreotti] ha percepito un miliardo da Michele Sindona. Un altro miliardo ... 15 miliardi ...” Insomma, la testa di Sidona è troppo decisiva per gli squilibri del Mediterraneo perché possa restare ancora troppo a lungo ancorata sulle sue spalle ...”[81]
Sindona venne assassinato e tacque per sempre.
L’importanza di frenare con urgenza Pecorelli è dimostrato dal luogo del delitto. Solo pochi minuti dopo la sua morte si “incontrano” nel posto dove era avvenuta l’uccisione, la polizia, TUTTI i servizi segreti, la DIGOS ed un magistrato.
Nell’agendina di Pecorelli si poté leggere che aveva fissato un appuntamento, per la mattina, con Dalla Chiesa (che prima andò da Cossiga? Ma Cossiga volle prima consultarsi “più in alto”). Dalla Chiesa prese i memoriali (o – meglio - le fotocopie?) e affidò il tutto ad Andreotti (tutto?). Ovviamente tenne gli originali e ne nascose una parte. Pecorelli scrisse degli assegni di Andreotti nel nominato articolo. [82]
Dalla Chiesa era probabilmente giunto, secondo le persone “più in alto”, vicino a quel momento delicatissimo della consegna dell’esplosiva parte mancante dei memoriali in cui si parlava di GLADIO e degli assegni. Dalla Chiesa pagò le sue conoscenze con la sua vita. Il tramite tra Dalla Chiesa e Pecorelli sarebbe stato secondo il Pm Cardella il generale dei Cc Galvaligi, assassinato la sera dell’ultimo dell’anno del 1980.[83] Nel 1993 Andreotti ammette “Si, ho mentito”. Nell'agosto 1993 il Senato concede l'autorizzazione a procedere contro Andreotti e il mafioso Calogero Ganci ammette nel giungo ’98 di aver ucciso Dalla Chiesa.
Franco Evangelisti, allora senatore DC parlò del suo ruolo come messaggero tra Andreotti e Dalla Chiesa. Descrisse una visita alle due di notte quando Dalla Chiesa si presentò con un dattiloscritto che diceva provenisse dalla prigione di Moro. Mele concluse su quel documento che
“potrebbe trattarsi del cosiddetto memoriale”[84].
Il testimone Ezio Radaelli sostenne che un emissario di Andreotti aveva cercato di fare pressioni su di lui perché cambiasse la sua deposizione riguardo ai movimenti finanziari del senatore. (Drake, p.257)
Andreotti voleva Dalla Chiesa morto come dichiara Buscetta (vedi prossimo capitolo).
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Le "carte di Moro" e il delitto Pecorelli. Le dichiarazioni di Antonio Mancini[85]
Tommaso Buscetta, uno dei più importanti pentiti per la Giustizia, accusa Andreotti di essere il mandante di Pecorelli e sostiene che quello di Moro fu un assassinio politico ordinato a causa della paura che si scoprissero “certe cose”. In un articolo di Panorama, Buscetta viene citato con:
“quello di Pecorelli era stato “fatto” da Cosa Nostra, ... su richiesta dei cugini Salvo[86].”
e prosegue
“quello di Pecorelli era stato un delitto politico voluto dai cugini Salvo, in quanto a loro richiesto dall’onorevole Andreotti.” E più in avanti “sembra che Pecorelli stesse appurando “cose politiche” collegate al sequestro Moro. E Giulio Andreotti era appunto preoccupato che potessero trapelare quei segreti, inerenti al sequestro dell’onorevole Moro, segreti che anche il generale Dalla Chiesa conosceva. Pecorelli e Dalla Chiesa sono infatti “cose che si intrecciano tra loro”. Badalamenti mi disse anche che verso la fine del terrorismo, il generale Dalla Chiesa era stato promosso per “toglierlo dai piedi”.[87]
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Il ruolo del superpentito Buscetta
Nel 1979 Buscetta era ancora in prigione, egli fu ancora una volta incaricato di contattare le Brigate rosse, in questo caso riguardo alla possibilità che l’organizzazione si assumesse la responsabilità dell’uccisione di Dalla Chiesa. Andreotti lo voleva vedere morto, ma la mafia non aveva, nel 1979, un motivo plausibile agli occhi degli altri per questa operazione in quanto il generale non aveva ancora al suo attivo nessuna azione repressiva nei confronti dei mafiosi.
Buscetta doveva convincere la mafia ad eseguire l’omicidio a condizione però, che le Br, che ne avevano i motivi migliori, lo rivendicassero.
In questo modo la mafia avrebbe evitato le indagini che potevano condurre alla scoperta dell’intreccio, dal quale dipendeva la protezione politica dell’associazione criminale. Andreotti non poté realizzare il suo desiderio di vedere Dalla Chiesa ucciso fino al 1982. (Drake, p. 251-2). A quel tempo, con il generale in Sicilia per una missione espressamente antimafia, una copertura del tipo prospettato nel 1979 non era più necessaria.Ci si chiede, (anzi sembra chiaro) se Dalla Chiesa è stato trasferito di proposito in Sicilia. Tommaso Buscettaha riferito che
"lo avevano mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui".[88]
Lo Stato lo accompgno alla morte con la sua “generosità” assegnandoli la macchina blindata e l´aereo.
Buscetta comunque ribadì che era Andreotti che voleva Dalla Chiesa morto, per porre fine ai suoi timori riguardo a ciò che il generale avrebbe potuto fare con certe carte di Moro. (Drake, p. 252).
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Il processo Pecorelli a Perugia
28 aprile 1999: Processo Pecorelli a Perugia: proseguendo la loro requisitoria, i pm del processo ribadiscono l'attendibilità delle affermazioni di Tommaso Buscetta, secondo il quale il movente del delitto Pecorelli va cercato nei "segreti inconfessabili" custoditi dal giornalista sul rapimento di Aldo Moro, segreti che anche il gen. Dalla Chiesa conosceva e per questo i due omicidi "si intrecciano fra loro". Buscetta è stato il primo a parlare di quanto riferitogli da Gaetano Badalamenti e cioè del legame fra l’omicidio del giornalista, dell'alto ufficiale e dei "segreti" del rapimento del presidente democristiano, e a riferire che entrambi i delitti erano stati eseguiti dalla mafia "ma non per interesse della mafia". Che Pecorelli fosse bene informato sul caso Moro è provato - secondo l'accusa - dagli stessi articoli di "Op". In merito ai rapporti fra il direttore di Op e il generale dei carabinieri, il pm Alessandro Cannevale ha detto:
"tali rapporti erano di natura diversa da quelli che un cronista può avere con un personaggio utile al suo lavoro, anche perché Dalla Chiesa non era persona facilmente avvicinabile".
30 aprile 1999. Processo Pecorelli a Perugia: Secondo i giudici quello di Pecorelli è un omicidio voluto dal presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e da un magistrato, Claudio Vitalone e dal gruppo politico-finanziario nel quale era inserito; disposto dai boss mafiosi Giuseppe Calò e Gaetano Badalamenti; eseguito da un killer di Cosa nostra, Michelangelo La Barbera, e da un estremista nero, Massimo Carminati, considerato vicino alla Banda della Magliana.
Tali elementi di prova risultano, innanzi tutto, dalle dichiarazioni di vari collaboratori di Giustizia, già appartenuti alla Banda della Magliana. Si tratta di Antonio Mancini, Fabiola Moretti, Maurizio Abbatino, Vittorio Carnovale, i quali hanno riferito le informazioni in tempi diversi sia alla Procura di Roma sia alla Procura di Perugia. Attraverso la testimonianza di Mancini l’Accusa cerca di ricostruire i fatti accaduti.
Secondo la Procura di Perugia Pecorelli è stato ucciso perché era entrato in possesso di notizie "inedite e pericolose" che potevano arrecare "grave danno" ad Andreotti e l’anello di collegamento con l'omicidio del giornalista sono le carte di Aldo Moro, i memoriali recuperati nel 1978 in via Monte Nevoso, o meglio quel "passo" che si troverà solo nel 1990, nelle quali Moro svelava ai suoi carcerieri i retroscena delle nomine dei vertici bancari, dell’Italcasse in particolare (la successione ad Arcaini decisa da Caltagirone con l’appoggio di Andreotti). Carte letali, per i giudici di Perugia, quelle di Moro, tanto da unire in un unico destino non solo Pecorelli, ma anche il generale Dalla Chiesa e Francis Turatello.[89]
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Il presidente della commissione Stragi Pellegrino e le sue tesi
Sabato 10 Luglio 1999: Pellegrino, presidente della Commissione stragi, afferma:
«Il rapimento di Moro fu un doppio rapimento».
Al momento non vuole aggiungere altro, ma s’intuisce che le “importanti novità” cui sarebbe giunto in quest’ultimo periodo l’organo bicamerale d’inchiesta riguardano i nuovi personaggi che s’intravedono dietro la strategia terrorista.[90]
1 marzo 1999. Il presidente della commissione Stragi Giovanni Pellegrino insiste:
“se si vuole cercare di capire meglio il caso Moro occorre approfondire la pista del Mossad, sulla quale sta già lavorando da tempo la sua commissione.”
Pellegrino ripropone anche il mistero sull"anfitrione", colui cioè che a Firenze ospitò e protesse i vertici delle Br durante il sequestro Moro.[91]
"Morucci in una sua audizione disse che avremmo fatto dei passi avanti se Moretti ci avesse detto chi era il padrone della casa di Firenze dove si riuniva il comitato esecutivo delle Br durante i 55 giorni."
E questo, per Pellegrino è un dato di fatto così come lo è la traccia che parte da Firenze e arriva a Via Monte Nevoso a Milano. Secondo Pellegrino sono molti gli elementi che provano che:
"a Firenze c'è qualcosa di importante che ancora non si è conosciuto".
E a proposito di questo dichiara che Flaminio Piccoli[92], in una sua audizione, fece dell'anfitrione "un identikit estremamente preciso tanto da far pensare che ne conoscesse il nome" (Piccoli definì l'anfitrione "un vip del culturame". La pista che porta al Mossad, per Pellegrino, è legata alla sentenza del giudice Mastelloni su Argo 16 e il recente libro del generale Delfino nel quale si legge di un "referente delle Br rimasto occulto e dietro il quale ci sarebbe un intreccio di servizi: Cia, Kgb e Mossad".[93]
Giovedì 18 marzo 1999. Il sen. Giovanni Pellegrino, in un'intervista al quotidiano Il Tirreno, rilasciata il 17 marzo, il giorno prima dell’audizione di Franceschini, dice:
"Il contatto tra Mossad e Brigate Rosse emerge dagli atti giudiziari.”
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L’affermazione del giudice istruttore Ferdinando Imposimato, nei primi due processi Moro del 20 marzo 1999
"Quello che ha detto Alberto Franceschini è vero. Anche io ho avuto conferme che le Br, sin dalla loro nascita, ebbero contatti con il Mossad. All'epoca rimasi persino stupito del fatto che i servizi israeliani arrivarono a contattare le Br prima di quelli italiani. Sin dall'80 ebbi la conferma di questi contatti tra Mossad e Br avvenuti grazie alla mediazione di un avvocato penalista milanese che poi in seguito individuai, senza averne peraltro mai la prova certa, in Spazzali. Il primo brigatista a parlare del Mossad fu Patrizio Peci e dopo ... Sarebbe interessante, ad esempio, leggere i verbali che durante i famosi 55 giorni il comitato di crisi avrebbe dovuto redigere e che invece risultano scomparsi.”
Sarebbe fondamentale conoscere chi ospitò a Firenze la direzione strategica delle Br. E ricordarsi che l’esperto americano della intelligence Pieczenik[94], che di recente ha dichiarato che in Italia Moro non lo si volle liberare, era stato mandato da Kissinger apposta per impedire che Moro fosse salvato.
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20 marzo 1999 Il Tirreno pubblica un articolo sull’audizione di Flaminio Piccoli del 30 ottobre 1991, desecretata pochi giorni prima.
«Piccoli è stato il primo a sostenere la presenza di una figura anomala nell'ambito dei brigatisti che gestivano il sequestro Moro, tracciandone un identikit piuttosto preciso. Durante l'audizione il misterioso personaggio successivamente indicato come "l'anfitrione" viene chiamato "il quarto uomo". Per Piccoli, il quarto uomo rappresenta "la mente" del nucleo di individui che gestivano il sequestro. "Quelli che sono stati imprigionati - spiega Piccoli - eramo i militanti e non i cervelli". Secondo Piccoli, quella sorta di suggeritore "frequentava i salotti bene ed era collegato ad ambienti diversi da quelli che frequentavano le Br. Ho sempre dichiarato che vi era un uomo collegato ad altri ambienti, direi un vip". «Questo quarto nome che lei è convinto fosse presente durante gli interrogatori - chiese la commissione a Piccoli - dato che esclude l'ipotesi di convolgimento di servizi segreti stranieri, pensa che fosse un intellettuale italiano»? E Piccoli rispose: "L'onorevole Scelba parlava di 'culturame'". "C'è stato un giornalista - continuano i membri della commissione - che ebbe un colloquio a Arezzo in cui gli venne detto che il generale Dalla Chiesa aveva avuto questi documenti di via Monte Nevoso. Il discorso è fatto da un carabinieri che li aveva asportati di soppiatto, senza farli risultare dai verbali di perquisizione e di sequestro. Dalla Chiesa li avrebbe poi portati a qualcuno e non li avrebbe mai più potuti vedere. Lei ha già detto che a questo non crede minimamente. È anche vero che su questo punto sono stati costruiti molti discorsi. Uno di questi è che Dalla Chiesa li avesse dati a qualcuno rimasto misterioso, una persona importantissima". Piccoli risponde: "Di questi ritrovamenti, ne sono sempre stato convinto e lo resto, ne potremo avere ancora.
C'è chi ha interesse - e potrebbe essere questo quarto uomo - e chi ha avuto interesse a creare macchinazioni e confusione per togliere alla vicenda Moro la sua tragicità di dramma politico e farla diventare una tragedia alla Mayerling. Dentro la vicenda ci saranno stati anche masnadieri, ma non i lazzaroni da trivio".
Un altro articolo de "Il Tirreno" si occupa del covo fiorentino e dell’audizione di Alberto Franceschini in commissione stragi. che indaga sul caso Moro. L'ex Br ha espresso dubbi sul ritrovamento del borsello che apparteneva ad Azzolini e che fu scoperto dentro un autobus della zona di Careggi nell’agosto del 1978.
All'interno c'erano, tra le altre cose, biglietti e un mazzo di chiavi del portone del covo di via Monte Nevoso.
"Al di là delle versioni contrastanti fornite fino a oggi - spiega il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino - sta emergendo la possibilità che a consegnare il borsello e a indicare il covo sia stata una fonte coperta, e rimasta tale, dai carabinieri". Può esistere un collegamento tra questa ipotetica fonte coperta e l'attività dell’anfitrione? "Franceschini non ha saputo dirci nulla. Il vero problema, se e quando scopriremo l'identità di questa persona, sarà possibile renderci conto fino a che punto non fosse già conosciuta ma soprattutto da chi. Potrebbe essere un personaggio talmente autorevole che da Firenze potrebbe aver parlato a nome dell'intero comitato esecutivo».
Un problema che la commissione si pone è ad esempio come la direzione strategica formata da Moretti, Bonisoli, Azzolini e Micaletto, persone che abitavano tutte in città diverse e che per riunirsi si spostavano in treno, riuscissero in così breve tempo a produrre e diffondere nella penisola i comunicati (tutti e nove scritti a Firenze e con la stessa testina rotante, anche questa mai trovata, di una Ibm elettrica). Era una delle attività affidate all'anfitrione? Ma la pista che collega Firenze a Roma e a via Monte Nevoso conduce, secondo il presidente Pellegrino, anche ad un'altra riflessione. "Sì, a quella sulle dinamiche interne al movimento Br. La modalità della scoperta di via Monte Nevoso può indicare una lotta serrata per la leadership dell'organizzazione. Mario Moretti conduceva una battaglia per tenere saldo il controllo». Franceschini ha detto in commissione: "Moro è morto perché ha detto alcune cose negli interrogatori. Su quelle cose si è aperta una contrattazione segreta. Si conosceva la prigione e si credeva possibile la liberazione, ma per le cose che lui disse, inaccettabili per il sistema politico, il suo destino divenne mortalmente segnato". Ma le questioni trattate da Moro, nota "Il Tirreno", divennero pubbliche solo dopo la scoperta delle carte conservate in via Monte Nevoso. L'anello fiorentino che ancora manca collega Br, settori delle istituzioni e personaggi ambigui che avrebbero giocato su più tavoli? Secondo Franceschini tratti di ambiguità li avrebbe presentati lo stesso Moretti. "Il primo a dire che Moretti era spia - ha detto - è stato Curcio". "Franceschini ci ha fatto capire - ha spiegato Pellegrino - che Moretti era collegato a Hyperion che ha definito "tecnostruttura" e che Moretti la percepiva come centrale del controllo rivoluzionario. In pratica Moretti potrebbe aver rappresentato qualcosa di più delle sole Br proprio per il contatto con quella struttura".»
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Attualità - L‘Anfitrione di Firenze, il “Grande Vecchio” e il fumetto Metropoli
Chi è l‘anfitrione? L‘anfitrione di Firenze è il proprietario della casa fiorentina dove si riuniva la direzione strategica brigatista durante il sequestro. È ancora un uomo oscuro indicato con tanti sinonimi.
"Il Tirreno" pubblica sulla vicenda anche altri articoli. Antonio Marini, il magistrato che come sostituto procuratore della Repubblica di Roma ha indagato sul caso Moro fino al 1998, dice:
"Da sempre sappiamo che buona parte del sequestro Moro è stata gestita da Firenze, ma non siamo mai riusciti a trovare elementi". Marini ricorda l'audizione in cui Valerio Morucci parla di Mario Moretti defininendolo "la sfinge" e invita a capire cosa avvenisse a Firenze, dove si riuniva il comitato esecutivo e chi fosse il personaggio che ospitava i dirigenti brigatisti. Per Marini l'"Anfitrione" è un intellettuale, che non parla il linguaggio delle Br "e che oltre a ospitare i membri del comitato esecutivo probabilmente ricopriva anche il ruolo di suggeritore".
L’Espresso scrive:
“Da quando Valerio Morucci, nel giugno di due anni fa, parlò in Commissione dell'anfitrione, è sceso un silenzio di tomba. Anche le persone che avevano dato cenni di disponibilità - mi riferisco a Mario Moretti, a Bonisoli, Azzolini e a Laura Braghetti - dopo quel momento si sono rifiutati di venire in commissione. Stessa questione per quanto concerne il possibile contatto con il Mossad. È calato un silenzio totale anche in quelle persone che almeno per chiarire la proprio posizione, prima intervenivano."
L’Espresso del 10 giungo Br e Prima Repubblica / una testimonianza - Grande vecchio, I presume riscavando nella storia contemporanea, fa emergere il nome di colui che Pecorelli aveva indicato come Igor.
Martedì 20 aprile 1999. Alcuni parlamentari chiedevano notizie del vero regista del caso Moro. Il presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi Giovanni Pellegrino ha interrogato l'ex ministro socialista Claudio Signorile introducendo il discorso sul famoso fumetto del mensile "Metropolis" che a suo tempo pubblicò un'inquietante ricostruzione del delitto Moro.[95]
Il fumetto fa vedere un volto nascosto che partecipò all’interrogatorio di Moro. Si suppone che le domande sarebbero state precostituite, cioè formulate in ambienti esterni alle Br. Con ciò la possibilità di riconoscere in una persona precisa l’ombra del “grande vecchio”, molti giorni prima che lo stesso Pellegrino si interrogasse sulla figura e il ruolo di Igor Markevitch come possibile anfitrione delle Br nei giorni del sequestro Moro. Per questo sembrava a L’Espresso interessante rileggere le dichiarazioni di Signorile e le domande che Pellegrino gli fa forse già informato della nuova pioggia di presunte rivelazioni.
Pellegrino chiese a Signorile se avesse riferito a qualcuno l'esito dei suoi colloqui con Fanfani. «Sì, a Franco Piperno», era la risposta. E Pellegrino, di rimando:
«Metropolis è Piperno e quindi è lui che dà i contenuti al fumetto».
Signorile giura di non averlo mai visto, Pellegrino ribatte che i commissari lo studiano perché «è pieno di strani messaggi». E finalmente giunge la domanda:
«Lei ci ha detto di non credere al Grande Vecchio. Tuttavia, nel fumetto di "Metropolis", che è estremamente realistico, si rileva una singolarità che è quasi un messaggio: dell'uomo che interroga Moro non viene disegnato il volto».
Signorile risposta con: «Evidentemente è un volto collettivo»[96].
Infatti, pure la magistratura di Brescia[97] è tornata sulla vecchia pista tracciata in maniera enigmatica da Mino Pecorelli su "Op" subito dopo l'assassinio di Aldo Moro. L’anonimo ospite ed Igor sono state ipotizzate come unica persona. La pista è quella che porterebbe ad Igor Markevitch, come persona che secondo ricostruzioni avrebbe ospitato i capi Br nella sua villa in Toscana.[98]
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Conclusione
Mario Scialoja scrive su L’Espresso del 02.07.1998 un articolo dal titolo Caso Moro / Dietro i sospetti di Scalfaro C‘era un covo a Firenze, nel quale parla dell’intervista a Scalfaro al Quirinale dove ci fu un incontro tra Oscar Luigi Scalfaro e il senatore Giovanni Pellegrino.
Il brigatista Morucci raccontò alla Commissione stragi che, secondo lui, Moretti riceveva direttive da terze persone e alla base di queste affermazioni il capo dello stato, in occasione del ventennale della morte di Aldo Moro, all’Università di Bari fa il 9 maggio del 1998 dichiarazioni che darà vita ad una disputa.
Un insieme di processi è riuscito ad arrivare ai responsabili del terribile crimine, ma Scalfaro, e la sua è opinione comune, dubita che la Giustizia sia riuscita o abbia avuto l’intento di colpire le menti che diressero l’intero scenario. Sulla domanda di Pellegrino:
“le intelligenze criminose che scelsero e centrarono il bersaglio, in quel momento politico essenziale, sono comprese in questi processi? ...”
La risposta sottintesa di Scalfaro era un "no" e che ha dato vita ad un'aspra polemica con il senatore Francesco Cossiga, all'epoca del caso Moro ministro degli Interni, convinto che non vi siano altri livelli nascosti del partito armato.
Scalfaro sostiene che si ha “la sensazione che loro non furono altro che dei colonnelli. I generali, secondo lui, devono essere ancora individuati”. Quella di Scalfaro somiglia molto all'ipotesi del Grande Vecchio che avrebbe tirato i fili delle Br. La tesi di Scalfaro sarebbe quella dell’esistenza di un livello "superiore" di Br. Tuttavia la commissione si allontana dall’opinione di Scalfaro: Scialoja chiede a Pellegrino se la sua analisi andrebbe nella direzione di quella del capo dello Stato. La risposta è definitiva:
“No. Siamo arrivati alla conclusione che il delitto Moro sia stato un delitto poco contrastato: nel senso che non c'era un vertice misterioso sopra le Br, ma che c'era nello Stato qualcuno che ha favorito l'azione delle Brigate rosse. E più andiamo avanti nelle indagini, più questa convinzione si rafforza.”
Il 5 dicembre 1998 chiede Andrew Gumbel del “The Independent” di Londra in un articolo dal titolo „The riddle of Aldo Moro: was Italy's establishment happy to see him die? Many say the police did not do all they could to save the ex-PM kidnapped 20 years ago“ se sarebbe piaciuto allo stato italiano vedere morto Moro. Nel giugno 1980 occorreva l’iniziativa del giornalista Luca Villoresi de „La Repubblica“ per arrivare alla tanto desiderata scoperta: Grazie ad un „tip anonimo“ telefonico scoprì il luogo dell’appartamento romano in Via Montalcini.[99]
Grazie alle iniziative di un giornalista come Pecorelli che fece prendere la cornetta in mano a polizia, magistrati, politici ed altri giornalisti riuscì a superare l’inerzia dello Stato, ma lo stesso non riuscì a giungere a niente.
Una parte dello Stato (i trattativisti) non fecero infatti niente per salvare Moro, perché non solo in tanti avevano sfiducia negli apparati di sicurezza ma ne temevano l'inefficienza e l'inaffidabilità. Come dire che se fosse stata tentata un'operazione per salvare Moro si sarebbe potuta concludere tragicamente.Gli altri pensarono di non fare nulla che potesse favorire la liberazione di Moro adottando la strategia della fermezza, in maniera gewollt erfolglos (volutamente fallita).Infatti, l’ufficiale di Gladio, Roberto Cavallaro ammette, durante un’intervista a L’Espresso nel novembre 1990, che durante la strategia della tensione furono integrate anche le organizzazioni dell’estrema sinistra e che una buona parte dei terroristi, indifferentemente dal fatto che fossero rossi oppure neri, lavoravano su delega o spinta dei servizi segreti.
Il settimanale romano Europeo svelò, il 27 ottobre 1978, l’esistenza di un manuale contenente istruzioni per attacchi terroristici, che era stato presentato nel novembre 1970 dal Pentagon: »Field manuel« 30-31. Il ‘manuale del campo di guerra’ illustrava pure come ci si mette su piste finte, come si usano gli infiltristi e con quale esplosivi si lavora. In pratica costituiva la base per la strategia della tensione di Gladio.
Puro Moro (che previde la sua fine e la fina del sistema politoco) si chiede nell’ultima lettera che scrive a Riccardo Mesasi:
“Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va invece che in prigione, in esilio?”
ed in un’altra lettera afferma:
“il mio sangue ricadrà su di loro”.[100]
Insieme a Moro, un altro visionario, Pecorelli aveva anticipato con le sue parole gli avvenimenti che si sarebbero succeduti di lì a poco.
Da una lettera che inviò Moro a Zaccagnini veniamo a sapere:
"Ma è soprattutto alla DC che si rivolge il Paese per le sue responsabilità, per il modo come ha saputo contemperare sempre sapientemente ragioni di Stato e ragioni umane e morali. Se fallisse ora, sarebbe per la prima volta. Essa sarebbe travolta dal vortice e sarebbe la sua fine [...] se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d'Italia. Il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul Paese". [101]
Perciò Villoresi, Pecorelli e Moro dovevano pagare – come anche Dalla Chiesa e tanti altri – per tacere con il prezzo più alto, la loro vita.
Pellegrino afferma, il primo maggio 1999 a proposito della verità ricercata tramite le sue indagini, che per lui è come
“vivere una condizione di solitudine, fra una sinistra che sembra abbastanza disinteressata al problema e una destra che invece tende a dimostrare che è tutto sbagliato, che sono solo teoremi giudiziari".
Un pensiero già anticipato dal visionario Moro. Il 24 aprile 1978 egli scriveva:
”Non creda la D.C. di aver chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della D.C. si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per un’evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini del partito."[102]
E ancora in una lettera di Moro del 30 aprile 1978 c’è una frase che merita in particolare la nostra attenzione:
“Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall’alto dei cieli... Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la DC, né per il Paese: ciascuno porterà la sua responsabilità.“
Moro era ormai certo che nulla sarebbe stato fatto per salvarlo.Cossiga conferma questa preoccupante tesi di Moro. Al tempo del processo Moro quarter, alla fine di novembre 1993 Cossiga rilasciò la sua prima (!) intervista alla televisione circa il caso Moro e le Br. Stranamente occorrevano dei giornalisti stranieri (della tivù tedesca WDR) per sapere l’esistenza di un piano. Egli parlò di due piani, Moro-Mike e Moro-Victor: il primo nel caso che Moro morisse, il secondo nel caso che Moro uscisse vivo[103]. Drake commenta questi piani con:
”Il solo fatto che un tale piano fosse esistito rafforzava l’immagine di un governo italiano che mancava dell’intelligenza, della capacità e dell’integrità necessarie in una vera democrazia.”[104]
Occorre ancora l’impegno di individui come il figlio di Moro, per poter portare avanti la questione. Il figlio ha, nel marzo 1999 per la commissione stragi, fatto un lungo elenco di "buchi" nella vicenda per poi chiedere luce su quelle piste “possibili, vere o verosimili” per dimostrare come altri, per l’ennesima volta, che non tutto è stato chiarito.
Anzi, secondo lo storico americano Richard Drake, gli americani si attivarono, e inviarono in Italia uno dei maggiori esperti del terrorismo mondiale: Steve Pieczenik. Giunto a Roma in mezzo a gente che sembrava non sapere cosa fare, si ritrovò invece scomodo quando suggeriva la strategia e le tattiche da seguire per portare a termine con successo il negoziato con le Br. In seguito scriverà: "Troppe scuse furono addotte per giustificare il perché i miei suggerimenti non potevano essere seguiti. Presto ho avuto la sensazione che non vi fosse la volontà politica di salvare Aldo Moro, e ho intuito che la mia presenza in veste di esperto serviva solo a legittimare le indagini del governo italiano; per questo me ne sono andato prima del previsto". Drake cita Katz, il quale riferisce che Pieczenik sarebbe rimasto sbalordito (“amazed”) nello scoprire che i generali e gli uomini politici al Viminale non vedevano di buon occhio Moro.[105]
Morucci e con lui gli altri brigatisti che hanno depositato in tribunale sono stati spesso contraddittori e comunque non hanno rivelato per intero quello che sanno. Sommando la mancanza dell’interezza delle rivelazioni delle Br davanti alla giustizia ai segreti “inconfessabili” che più di qualcuno custodisce, il caso Moro rimane imperdonabilmente aperto.
... e:
Roma, Sabato 14 Agosto 1999
“Il Messaggero”: il sostituto procuratore generale: ridurre la presunzione di innocenza e cancellare le attenuanti generiche
«Troppi condannati in libertà»
Il pm Marini: dopo il primo grado si dovrebbe finire in cella, ma non è cosìdi Massimo Martinelli.
“ [...] Scusi, ma la Procura generale non viene consultata prima di concedere benefici ai detenuti. Lei cosa ha fatto?
Il magistrato della Procura Generale di Roma, Marini:
«Io molto spesso mi sono opposto a concedere benefici, anche a personaggi illustri. Mi opposi alla semilibertà a Toni Negri; dopo sei mesi ho saputo che ha rifatto la domanda e gliela hanno concessa. Vuole altri esempi? Germano Maccari, l’ho fatto condannare in primo e secondo grado a trent’anni per il delitto Moro. Ha pure confessato. Ma per la legge è un presunto innocente. E anche lui è a casa, come tanti».[106]
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Note a piè di pagina (pross.mente e seperate in un proprio frame)[1] Cfr. Il presidente della Commissione stragi, Pellegrino in: Il Messaggero, Sabato 29 Maggio 1999 “L’inchiesta mai chiusa/ A parlarne fu il giornalista Mino Pecorelli su Op pochi giorni prima di essere assassinato“.
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm
[2] Bolognesi, Paolo, Vice presidente Associazione familiari vittime strage Bologna del 2 Agosto 1980 Bologna in: http://www.comune.bologna.it/iperbole/2agost80/pellegr.htm, 14 febbraio 1996.
[3] Mario Coglitore, autore del libro “La notte dei gladiatori, omissioni e silenzi della Repubblica”, (Calusca edizioni, Padova 1992) scrive: “Diamo un rapido sguardo alla situazione delle forze di Polizia negli anni '50: su 64 prefetti di primo grado, 64 prefetti non di primo grado e 241 prefetti, soltanto due non erano di provenienza fascista; di 135 questori e 139 vicequestori, soltanto 5 avevano avuto rapporti con la Resistenza; e, infine, su 603 commissari, commissari aggiunti e vicecommissari, solo 34 erano stati in contatto con i partigiani.” Cfr. http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm
[4] “Aveva già acquisito l'esperienza sufficiente per destreggiarsi nelle situazioni più difficili, i suoi rapporti con l'intelligence americana erano solidi e le sue finanze, frutto di numerose rapine di guerra, robuste. La sua ascesa ai vertici del potere politico occulto fu inarrestabile.” aggiunge Coglitore. Cfr. http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm
[5] Cfr. http://www.clarence.com/memoria/stragi/5.htm
[6] Nel febbraio 1972 ad Aurisina, vicino a Trieste, i carabinieri della stazione locale scoprono per caso un deposito sotterrato di armi, esplosivo in grossa quantità, ecc. I carabinieri avevano involontariamente riportato alla luce uno dei 139 depositi di Gladio, distribuiti ed nascosti in punti strategici del territorio italiano.
Cfr. Coglitore, Operazione Gladio http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html
[7] Cfr. Coglitore, Operazione Gladio http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html
[8] La Repubblica - 14.03.98, Intervista al figlio dello statista, Giovanni Moro. Che accusa il "partito della fermezza" di aver ucciso suo padre, "Ma la verità vera ancora non c'è" A cura di Mazzocchi,
Silvana. http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/R140398b.html
[9] Cfr. Lunedi, 16 marzo 1998, Il Messaggero, Sabbatucci
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19980316/01_NAZIONALE/1/SAB.htm
[10] Martinazzoli: “Se volevate un riconoscimento, la lettera di papa Montini "agli uomini delle Br", sia pure con la precisazione "rilasciatelo senza condizioni", non era un gesto sufficiente a soddisfarvi?..” e Morucci risponde con: “L'effetto della lettera fu pessimo. Già, come comunisti, del papa ci importava poco, ma la sua posizione non era neanche aperturista. Ripeto, le Br volevano da parte della Dc un riconoscimento come quello espresso nell'appello del segretario dell'Onu Kurt Waldheim..” Cfr. L’Espresso, 07.05.1998, Troppo deboli per salvare Moro, http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=20515&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=&chiave2=&chiave3=
[11] Cfr. Giorgio Bocca in: La Repubblica: “Delitto Moro - Nessun mistero”, 11 maggio 98.
[12] Cfr. L. Cipriani, L’Affare Moro, http://www.ilblack.html. Moro, /ilblack.html.
[13] Cfr. Il caso Moro, Commissione stragi, /17.htm
[14] Cfr. Drake, p. 249 e Panorama, Dossier Andreotti, 1993, p.43.
[15] Flamigni, Sergio: Trame atlantiche. Storia della Loggia massonica segreta, Milano, 1996, p. 244.
[16] E ricordarsi che l’esperto americano della intelligence Pieczenik ha di recente nel 1999 dichiarato che in Italia Moro non lo si volle liberare. Il sito di Steve Pieczenik, l’esperto mandato dagli Usa come consigliere, ora affermato scrittore: http://www.stevepieczenik.com/
[17] L‘anonimo disse: ”Controllate l’identità delle seguenti cinque persone!”
[18] http://www.umt.edu/kaimin/oldkaimins/04-17-96/O.gcolumn.html
[19] Flamigni riferì le parole di Cornacchi: “Perchè non era possibile”.
[20] Cfr. http://www.clarence.com/memoria/p2/iscritti.htm
[21] Cfr. pure il capitolo “Le radici di Gladio – Un esempio di trasformismo”.
[22] http://www.cronologia.it/storia/a1978t.htm
[23] Cfr. Moretti, Mario (1994) [Interview di Rossanda, Rossana; Mosca, Carla], p. 145.
[24] Stay Behind è il nome americano per la sua sezione italiana, GLADIO. E’ anche attiva in molti altri paesi europei, risulta, come ha osservato lo stesso giudice Casson nella sua indagine, da accordi intercorsi tra servizi segreti, nel nostro caso CIA e SIFAR, scavalcando qualsiasi decisione del parlamento, l'unico organismo in grado di ratificare trattati internazionali di questa natura, qualora essi fossero ritenuti legittimi. Cfr. Coglitore su http://www.abanet.it/papini/circolo/coglitore2.htm
[25] Cfr. Relazione della Commissione Gualtieri in : http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm
[26] “Lui lo chiamavano "Peppe", lei "Peppa". Militavano in autonomia, nel circolo Mario Salvi attivo a Roma nord nei tardi anni '70. Raimondo Etro, brigatista arrestato di recente, ricorda di averli visti una sera dalle parti del ristorante "La sora Assunta". Proprio dove, il giorno dopo l'avvistamento, fu ucciso Mario Amato mentre cenava a fianco dell'amico Domenico Velluto, l'agente che aveva ucciso Mario Salvi, il vero bersaglio della sparatoria dalla quale invece uscì indenne.
[...] Al contrario, partendo da tanta base il giudice Antonio Marini, un professionista dell'antiterrorismo nel senso che al termine dava Leonardo Sciascia, ... [...] Rita Algranati, allora moglie di Alessio Casimirri, presente in via Fani nella veste di vedetta, avrebbe detto allo stesso Etro: "Poi sono passati in moto due cretini". (Ma forse la formula precisa era "i due cretini", Etro non ricorda). L'articoletto fa la differenza. Senza, i motociclisti diventano due passanti qualsiasi. In caso contrario eccoli trasformati in due brigatisti piombati in via Fani senza essere stati convocati dall'organizzazione, secondo la bizzarra ipotesi che va per la maggiore fra gli inquirenti.[...] Passi la moto fantasma, passino i curiosetti che piombano in mezzo a una sparatoria per diletto [...]. Incontrollate e incontrollabili, come quella messa in giro dal solito Etro sull'omicidio Calabresi, poi smentita da quel Casimirri indicato da Etro come fonte (peraltro a sua volta indiretta).[...] “
Cfr. Il Manifesto del 23.04.98 http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/M230498c.html
[27] Maccari confessa «Ero io il carceriere Così fu ucciso Moro» Cfr. http://www.mclink.it/unita/960620/uni06.htm
[28] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm
[29] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm
[30] Un interrogativo sollevato da Marini riguarda la mancata richiesta di estradizione di Alessio Casimirri, militante brigatista latitante in Nicaragua e presente in via Fani. Il nome di Casimirri come partecipante alla strage di via Fani è stato fatto per la prima volta da Morucci, nel suo più che noto "memoriale". Sospetti a suo carico erano però già esistenti da tempo. Ciononostante Casimirri per sedici anni ha potuto vivere del tutto tranquillamente in Nicaragua, dove aveva anche aperto un ristorante nella capitale del paese, senza che la magistratura italiana abbia fatto nulla per perseguirlo. Cfr. http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm
[31] 16 luglio 96. Germano Maccari viene condanato ad ergastolo per la partecipazione al rapimento e l'uccisione di Moro.
[32] Benito Cazora muore il 21 febbraio 1999 a Roma e non può più rispondere alle domande della Commissione.
[33] Saverio Morabito, un pentito, presentò in una dichiarazione queste informazioni.
[34] http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/69.htm
[35] http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=30019&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=terrorismo&chiave2=brigate
[36] http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=27968&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=terrorismo&chiave2=franceschini&chiave3=
[37] Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=27968&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31
[38] La tesi di Franceschini è che i capi storici delle Brigate Rosse, Renato Curcio e lui, sarebbero stati "bruciati" e arrestati per aver rifiutato le offerte di armi, soldi e informazioni venute dal Mossad, tramite intermediari milanesi, nel maggio-giugno del 1974, subito dopo il sequestro del giudice Mario Sossi. http://www.senato.it/notes/ODG_COM5/28d3a.htm ; L‘Intervista di Ettore Bernabei con Giorgio Dell’Arti: "Lei non ha mai creduto alla tesi secondo la quale i brigatisti agirono da soli" chiede Dell’Arti e Bernabei risponde:" No, come abbiamo già avuto modo di dire, io penso che alle loro spalle agissero molti grandi vecchi. Ho sempre creduto ad un concerto internazionale che aveva come obiettivo di contrastare l’unità europea, di destabilizzare l’Italia, anche perchè in Italia ha sede il vertice di una Chiesa universale ed autonoma"Bernabei, Ettore: L’uomo di fiducia [intervista con Giorgio Dell’Arti], Milano, Mondadori, 1999..
[39] Il Corriere della Sera, 16.03.98: Moro: cinque misteri, il caso resta aperto. Dal covo di via Gradoli alle carte segrete dell'ostaggio. I buchi neri dell'inchiesta; Il magistrato che indaga sulla strage: «I brigatisti continuano a proteggere qualcuno». Articolo a cura di Giuliano Gallo, Paolo Menghini.
[40] L’Espresso" del 9 aprile 1999 resoconto dell’audizione di Alberto Franceschini in commissione stragi (17 marzo 1999).
[41] Cfr. Pure L’Espresso del 15.04.1999 “ Brigate losche” http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=27968&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31
[42] E forse era invece una segnalazione ignorata, proveniente da una frangia dei servizi segreti che indicava dove andare a cercare Moro, nel Lago (casa?) della Duchessa, anticipandone la condanna a morte.Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm
[43] Il Corriere della Sera, 16.03.98
[44] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990114/01_NAZIONALE/10/B.htm
[45] Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22%2D01%2D99/22%2D01%2D99%5Fest01%5Fa01.3.html
[46] Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22%2D01%2D99/22%2D01%2D99%5Fest01%5Fa01.3.html
[47] Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/22%2D01%2D99/22%2D01%2D99%5Fest01%5Fa01.3.html
[48] Il Messaggero, giovedì, 14 gennaio 1999
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990114/01_NAZIONALE/10/B.htm
[49] Morucci: ”Pertanto, non riesco a capire perché mai il materiale non dovesse essere convogliato tutto in quella base, non c'era alcun motivo. Peraltro, appunto, per le Brigate rosse si trattava di materiale poco interessante.” Cfr. Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª seduta mercoledì, 18 giugno 1997, http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22.htm
[50] http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990729/01_NAZIONALE/9/E.htm
[51] Dossier: Delitto Pecorelli/la richiesta integrale di autorizzazione a procedere, Il Messaggero, 11 giugno 1993, p.5.
[52] Dossier Messaggero, p.5
[53] Il Messaggero/Dossier, „Il caso Andreotti“, p.52.
[54] Antonio Cipriani, L'Unità 28 maggio 1999 "Br come la Raf, isolate e superclandestine"
(intervistato dall’ex parlamentare Sergio Flamigni su
http://www.democraticidisinistra.it/interviste/intervista_flamigni2805.htm
[55] Flamigni, sergio: Covergenze parallele
[56] Cfr. La Repubblica, 09.05.98.
[57] Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª seduta, mercoledì 18 giugno 1997 http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22.htm eppure Panorama, 04 giugno 1999. “ 'Ha operato una struttura esterna alle Brigate rosse i cui contorni non sono ancora stati delineati' sostiene il giudice di Venezia Carlo Mastelloni, lo scopritore della scuola di lingue francese Hyperion, sospettata di vicinanza con i servizi segreti e di aver diretto da Parigi le azioni più eclatanti delle Br.” http://www.mondadori.com/panorama/art4doss/2457_1.html
[58] Andrea Tornielli, http://www.abramo.it/service/rassegna/ARTICOLI.HTM/GIORNALE/98031702.HTM
[59] Cfr. L’Espresso, 10.06.1999: “Br e prima Repubblica / Una testimonianza Grande Vecchio, I Presume”
http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&ft_cid=29398&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31
[61] Cfr. Il Messaggero, Sabato 29 Maggio 1999 “L’inchiesta mai chiusa/ A parlarne fu il giornalista Mino Pecorelli su Op pochi giorni prima di essere assassinato“.
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm
[62] Ne cito alcuni brani importanti. Il portiere dice: „ «Qui è tutto come prima. Oggi come nel 1978. Ci sono io a controllare e ci sono gli stessi inquilini di quei tempi di piombo». ..... «Sto qui dal 1977, da un anno prima del sequestro di Moro. Ventidue anni davanti a questo cancello, dalle set te e mezza di mattina alle sette e mezza di sera. E questa è l’unica entrata per salire a Palazzo Orsini: lo scriva che non ci sono sotterranei o ingressi secondari, quelle sono tutte frescacce. Chi entra deve passare qui davanti. E io non ho mai fatto entrare nessun brigatista». ... Ma poi, mentre si sale la rampa che porta alla parte alta della Residenza, viene da pensare che sotto i vecchi sampietrini del cortile, proprio lì sotto, ci sono gli scavi del teatro Marcello, cunicoli, segrete, sentieri che secondo le mappe di Roma antica passano pure sotto il Tevere, verso l’isola Tiberina, fino a Trastevere. Scusi signor Aldo, dove sono i garage in cui, forse, hanno tenuto Moro? «Ancora con questa storia? Non c’è nessun garage. Anzi ce n’è uno, ma la proprietaria ci tiene la macchina».
Ma alla fine viene fuori che un cambiamento, uno solo, c’è stato ... All’appello manca la contessa Rossi di Montelera, che è deceduta qualche tempo fa; oggi il suo appartamento al terzo piano del primo stabile di Palazzo Orsini è passato di mano. È lo stesso appartamento che ventuno anni fa era intestato all’Immobiliare Savellia” - e prosegue - «Che c’è di strano? - dice il portiere - la contessa non si era voluta intestare la casa e l’aveva lasciata a nome di quella società. Lo fanno in tanti.». Di strano c’è che durante i tempi di piombo (come li chiama questo portiere-mastino che in buona fede difende tutti) il numero telefonico dell’Immobiliare Savellia, lo 06-659127, lo trovarono nel covo brigatista di via Gradoli, sulla Cassia. Era in un appunto scritto da Mario Moretti in persona, quello che secondo molti investigatori conosce i «dietro le quinte» del caso Moro che non conosciamo noi. “
[63] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990601/01_NAZIONALE/11/AA.htm
Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm
[64] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990529/01_NAZIONALE/5/BR.htm.
Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990601/01_NAZIONALE/11/AA.htm
[65] Cfr. Commissione stragi - Il caso Moro, /17.htm
[66] L’Espresso, 10.06.1999: “ BR E PRIMA REPUBBLICA / UNA TESTIMONIANZA Grande vecchio, I presume Già prima che spuntasse il signor Igor, iparlamentari chiedevano notizie del vero regista del caso Moro all'ex ministro signorile. E lui. ”
Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate
[67] Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate
[68] Cfr. L’Affare Moro, http://www.unlibro.html
[69] Sei parlamentari dell’allianza del centro-destra comunicarono nel 1997, che l’edificio faceva parte di una società prestanome del SISDE; Cfr. Pure la Repubblica, 9 novembre 1997.
[70] Cfr. http://www.haganah.org/homepage_it/aldo_moro/moro_9.htm
[71] La Repubblica, 13 febbraio 1998
[72] Cfr. Paolo Mondani, COMinform, n.115 del 5 - 12 maggio 1998 Moro, caso aperto,
http://www.comunisti.org/115/mondani115.html eppure Cfr. http://www.ecn.org/rete.sprigionare/moro/R090598b.htm
[73] E quella integrale, piena di accuse contro la DC e Andreotti, si scoprirà forse non casualmente, soltanto nel 1990.
[74] http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/3.htm
[75] Cfr. Paragrafo 16°, “Le "Carte di Moro" E il delitto Pecorelli, Le dichiarazioni di Antonio Mancini” http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html
[76] Drake, (1995), p. 256.
[77] Drake (1995), p. 237-239.
[78] Cfr. http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html
[79] Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 22ª SEDUTA MERCOLEDÌ 18 GIUGNO 1997
Cfr. http://www.parlamento.it/parlam/bicam/terror/stenografici/steno22b.htm
[80] caricatura http://
[81] cfr. L’Espresso, Nr. 44 199?.
[82] Il 3 agosto, ben conscio del fatto che l'indagine del giudice veneziano Casson (che si occupava in quel momento della strage di Peteano e che aveva avuto accesso agli archivi dell'ex SIFAR di Forte Braschi) sta comunque approdando a qualche significativo risultato, Giulio Andreotti dichiara davanti alla Commissioni Stragi che è esistita fino al 1972 una struttura segreta all'interno degli stessi servizi i cui scopi e la cui organizzazione sarebbero stati successivamente definiti in un apposito documento.
Questo fascicolo di dodici pagine viene in effetti inviato alla Commissione il 18 ottobre dallo stesso Andreotti e sparisce il giorno dopo con ogni probabilità per quella tipica caratteristica dei dossier riservati, che tutti conoscete e che consiste nel loro essere dei veri e propri giochi di prestigio. Il rapporto ricompare quattro giorni più tardi debitamente ripulito dallo scrupoloso Presidente del Consiglio, che afferma di aver riconsegnato le carte a Casson su sua esplicita richiesta, circostanza smentita dallo stesso giudice. Come si può facilmente capire dalla comparazione tra i due documenti proposta dal settimanale Avvenimenti che possiede anche la versione originale, il lavoro di ritocco, con cancellazione di interi periodi, rimodella il complesso delle dichiarazioni e ne fornisce una versione largamente edulcorata. Gli omissis sono parecchi: nell'originale si parla del controllo esplicito da parte dei servizi segreti sull'intero gruppo Gladio, nel secondo rapporto non si fa accenno ad alcun controllo; nella prima versione si sostiene che la pianificazione geografica ed operativa era concordata con il servizio informazioni americano, nella seconda versione la riga salta interamente. Lo stravolgimento completo tocca il suo punto più alto quando nel documento rivisto scompare ogni accenno agli stanziamenti previsti per l'organizzazione che costituiscono un apposito capitolo di bilancio. Assenza totale, infine, delle notizie precedentemente fornite su modalità operative del gruppo, addestramento presso la scuola dei servizi americani, materiali in dotazione e, particolare interessante, neanche una parola sui depositi di armi ed esplosivo che nella versione del giorno 18 si dicevano smantellati e ricostituiti altrove. Cfr. Operazione Gladio, di Mario Coglitore http://www.intermarx.com/ossto/operazione.html
[83] Perugia, aprile 1999, processo Pecorelli. Cfr.
http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990430/01_NAZIONALE/10/C.htm
[84] Dossier Messaggero, p.5.
[85] Cfr. http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html
[86] E si continua “Per il delitto si sarebbero serviti dei loro legami con Nino ed Ignazio Salvo. I cugini di Salemi avrebbero poi attivato Badalamenti e Stefano Bontate. Questi avrebbe fatto da tramite con Pippo Calò, personaggio di raccordo tra mafia e banda della Magliana. In cambio del suo impegno nel delitto la banda della Magliana avrebbe ricevuto favori giudiziari per il tramite di Vitalone.” Per questo sembra che diventi fondamentale stabilire se i cugini siciliani e il senatore si conoscessero.
[87] Cfr. Panorama, ... (?)
[88] Cfr. Paragrafo 16°, Le "Carte Di Moro" e il Delitto Pecorelli/ Le dichiarazioni di Antonio Mancini http://www.itdf.pa.cnr.it/andreotti/atti/procura/cap2par16.html
[89] Mancini, il pentito più importante della Banda della Magliana, dice: "Disse (Renato De Pedis, altro esponente della Magliana n.d.r.) che l'eliminazione di Pecorelli era stata fatta nell'interesse della mafia siciliana e di gruppi di potere massonico, ed era stata ordinata da Vitalone, il magistrato...Ovviamente non intendeva dire che il Vitalone avesse direttamente a lui commissionato l'omicidio, ma che lo aveva fatto attraverso altre persone ... Abbruciati mi disse qualcosa circa i motivi del delitto per quelli che lui sapeva e cioè che Pecorelli era venuto in possesso o a conoscenza di documenti o fatti riguardanti il sequestro dell'on. Moro che avrebbero arrecato danno al magistrato Vitalone e al gruppo politico e finanziario di cui egli faceva riferimento". Maurizio Abbatino (altro uomo della banda della Magliana), interrogatorio del 27 maggio 94: "Giuseppucci mi disse che Massimo Carminati era quello che aveva ucciso Pecorelli e conversando spiego' ulteriormente quello che mi aveva detto prima in carcere: l'omicidio del giornalista Pecorelli era stato richiesto dai "siciliani" (esponenti di cosa nostra)... Aggiunse Giuseppucci che il Pecorelli era un giornalista e che era stato eliminato perchè aveva fatto troppe indagini e stava ricattando un personaggio politico". Cfr. Avvenimenti, 15 marzo 1995,
http://www.citinv.it/pubblicazioni/AVVENIMENTI/AVVE39/S003001.HTM
[90] Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990710/01_NAZIONALE/8/E.htm
[91] A Firenze vennero prese le decisioni sul destino di Aldo Moro, qui furono battuti a macchina i nove comunicati Br.
[92] Pellegrino: «Fu Flaminio Piccoli per primo a fornire l’identikit di Markevitch, parlando di un uomo di grande cultura»
Cfr. http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990530/01_NAZIONALE/11/C.htm
[93] Cfr. Al-Ahram Weekly “ Did Mossad murder Moro? “ http://www.ahram.org.eg/weekly/1999/420/in1.htm
[94] “Comunica infine che il signor Steve Pieczenik, che si era dichiarato disponibile ad essere audito dalla Commissione con sua lettera del 9 aprile 1999, ha successivamente rinunziato all'audizione stessa, senza specificarne i motivi, con sua lettera del 14 aprile 1999.” Commissione Parlamentare stragi, Martedì, 20 Aprile 1999.
[95] http://www.ecn.org/zip/moro.htm ed intero fumetto è scaricabile sotto
http://www.ecn.org/zip/16marzo.zip
[96] 16marzo.pdf , p. 13/20 , http://www.ecn.org/zip/moro.htm E’ scaricabile il file zippato 16marzo.zip. Una volta decompresso il file del tipo “pdf” diventa leggibile con l’Acrobat Reader di Adobe, preferibilmente con la versione 4.0.
[97] Il procuratore capo bresciano Giancarlo Tarquini si è trincerato dietro un «non posso dire nulla». Cfr. http://www.unionesarda.it/unione/1999/30%2D05%2D99/30%2D05%2D99%5Fest01%5Fa00.html
[98] Cfr. http://www.espressoedit.it/cgi-bin/spd-gettext.pl?tablename=E&column=&ft_cid=29398&limit=-1&sezioneX=&a1=1999&a2=1999&m1=1&m2=12&g1=1&g2=31&chiave1=brigate
[99] Gumbel, Andrew in: The Independent: “The riddle of Aldo Moro: was Italy's establishment happy to see him die? Many say the police did not do all they could to save the ex-PM kidnapped 20 years ago.” , 05/12/1998.
[100] Lettera di Aldo Moro a Zaccagnini, Segretario della DC, pubblicata il 12 Aprile 1978: E‘ un‘ora drammatica–. Io lo dico chiaro: per parte mia non assolverò e giustificherò nessuno. Attendo tutto il partito ad una prova di profonda serietà e umanità– Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell‘interesse della DC– Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia‚ Italia. Il mio sangue ricadrebbe su voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani ma al dopodomani. Pensaci soprattutto tu Zaccagnini, massimo responsabile. Aldo Moro: Lettera a Benigno, Segretario della DC, pubblicata il 12 Aprile 1978: in : http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/26.htm .
[101] Recapitata tramite Don Mennini il 20 aprile 1978 http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/27.htm
[102] Aldo Moro “A Benigno Zaccagnini” http://www.apolis.com/moro/moro/lettere/52.htm
[103] « I piani “Victor e Mike”» “Una vicenda che con molta enfasi è stata portata all'attenzione dell'opinione pubblica nel corso del mese di novembre del 1993 ha avuto origine dalla notizia dell'esistenza di piani predisposti da autorità italiane in previsione di un'eventuale liberazione dell'onorevole Moro, ovvero della sua uccisione da parte delle Brigate rosse. Più precisamente, il 29 novembre 1993 fu diffuso in Italia il contenuto di un'intervista che il senatore a vita, Francesco Cossiga, ministro dell'interno all'epoca del sequestro Moro, aveva rilasciato mesi addietro a due giornalisti, Michael Busse e Maria Rosa Bobbi, che si erano presentati a nome di un'emittente tedesca, la Westdeutscher Rundfunk. Nell'intervista il senatore Cossiga, tra gli altri argomenti, ricordava come in previsione della conclusione del sequestro fossero stati elaborati due differenti scenari: il primo nell'eventualità che Moro fosse stato rilasciato vivo (piano Victor), il secondo qualora lo statista fosse invece stato ritrovato morto (piano Mike).Il piano Mike, dal contenuto alquanto scontato, prevedeva che dopo il ritrovamento del corpo di Moro scattasse immediatamente una serie di misure repressive, contro simpatizzanti e fiancheggiatori delle Brigate rosse. Se, di fatto, il 9 maggio 1978 l'operazione di rastrellamento ad ampio raggio, non ci fu, ciò avvenne - come ha dichiarato, a questo.” Cfr. Relazione della Commissione Gualtieri, p. 41in: http://www.apolis.com/moro/commissioni/gualtieri/1.htm
[104] Drake, op. cit., p. 265.
[105] Drake, p. 306.
[106]http://www.ilmessaggero.it/hermes/19990814/01_NAZIONALE/8/A.htm
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