giovedì 7 maggio 2009

ARTICOLI
Franco BANDINIL'anno in cui il mondo finì/2 - Mussolini nel grande giocotratto da: Il Sabato, 26.8.1989, n. 34, p. 87-97.Le incertezze delle democrazie e l'abile gioco dei dittatori-amici, Hitler e Stalin. Mussolini non riesce a garantire che «otto milioni di baionette» Nella gamma delle molte e disinvolte accuse che sono state fin qui fatte a Mussolini, la più antica e resistente è senza dubbio quella di aver tenacemente voluto la guerra, trascinando alla perdizione l'ignaro popolo italiano. E' anche la più sciocca, perché, casomai, a Mussolini si può, con fondamento, rivolgere proprio il rimprovero opposto: cioè di essere l'unico uomo politico di questo secolo che, al momento venuto, abbia scientemente violato, pur di non scendere in guerra, un Patto fresco di firma che ad essa lo obbligava in modo del tutto automatico. Molto probabilmente si trattò di un gravissimo errore, poiché la tempestiva certezza che l'Italia sarebbe rimasta alla finestra dette agli inglesi ed ai riluttanti francesi la possibilità di irrigidirsi nella loro opposizione ad Hitler, e vanificò le notevoli alternative di compromesso. La Storia non si fa con i «se», e d'altra parte si è già detto nell'articolo precedente che in quel settembre 1939 l'elemento decisivo, il catalizzatore della situazione, fu non tanto e non solo la pretesa di Hitler di liquidare la Polonia, quanto la risoluzione britannica di accettare la guerra subito, prima di perdere a breve scadenza la propria superiorità navale: e tuttavia, anche detto questo, non si può sottacere che, almeno in quel momento, i piani di Hitler erano molto diversi, ed assai più modesti di quanto non gli è stato attribuito. Diversamente da tanti altri Capi di stato di prima e di poi, il cancelliere tedesco era un eccellente conoscitore dell'apparato militare ed industriale del suo Paese, e sapeva benissimo che tutto stava in piedi su un accorto miscuglio di relativa forza reale, propaganda, ed azioni troppo rapide per le cautelose reazioni delle Cancellerie di Londra e di Parigi. Alla fine dei conti, in quel burrascoso agosto 1939 Hitler poteva far sfilare in passerella 2.900 carri e 1.500 aeroplani, ma si guardava bene dal raccontare che la sua «Wehrmacht» era in realtà costituita da un massimo teorico di 120 divisioni che andavano ancora a piedi, in un panorama ben poco cambiato dal 1918. In realtà, era stato realizzato un riarmo «in larghezza», ma non «in profondità»: mancavano i sottufficiali, una considerevole frazione dei servizi, le caserme indispensabili, i terreni d'addestramento e persino l'addestramento stesso per una così considerevole massa d'uomini. Non solo perché c'era stato ben poco tempo per far sorgere tutto questo dal nulla, ma soprattutto perché non si erano affatto spesi per gli armamenti quei 90 miliardi di marchi-oro di cui inglesi e francesi favoleggiavano con apprensione: ancora alla chiusura del sesto anno fiscale, il 31 marzo 1939, ne erano stati utilizzati soltanto 40, e circa altri dieci lo furono tra quella data ed il 3 settembre 1939, con una accelerazione che da sola dovrebbe dimostrare la mancanza di un piano di guerra globale.Val la pena di insistere sul negletto fattore delle reali intenzioni di Hitler, perché gli equivoci profondi nati attorno ad esso prima delle cannonate ebbero come tragica conseguenza quella di trasformare davvero in guerra il nervoso e pericoloso processo di riassestamento europeo, pressoché inevitabile dopo l'ingiustificata pace punitiva partorita a Versailles. Gli inglesi ritennero, almeno sino a Monaco, che fosse possibile guidare con ben studiati accordi diplomatici un'espansione tedesca all'Est, e riconobbero quasi spontaneamente che essa si sarebbe tradotta nella scomparsa o almeno nella trasformazione da Stati sovrani ad aree a «sovranità limitata» di tutte le creature nate o ridisegnate appunto a Versailles: Cecoslovacchia, Ungheria, Austria, Polonia, Romania. Ed immaginarono che tutto questo avrebbe potuto avvenire senza guerra, ma soprattutto a condizione di una rinunzia tedesca alla competizione sul mare. In termini poveri, essi dettero ad Hitler licenza di rompere tutte le fragili porcellane europee, purché neppure una delle chicchere britanniche riportasse scalfitture.Questo modo di pensare, molto antiquato, molto vittoriano, e per la verità poco europeo, ebbe il grande svantaggio di trovarsi di fronte alla mentalità sulfurea, astuta e modernissima di Hitler, il quale, è bene dirlo subito, non avrebbe mai avuto modo di esibirsi nel suo gioco delle tre tavolette, se non fosse stato per l'appoggio incondizionato di settanta milioni di tedeschi. Più e meglio di ogni altro politico di quegli anni, Hitler aveva compreso l'enorme valore della propaganda e dell'astuzia, come sostituti ineguagliabili della potenza reale; fu forse il primo in assoluto, per esempio, ad invertire il segno algebrico della più tradizionale tra tutte le menzogne di governo nel campo degli armamenti, poiché non perse alcuna occasione per raccontare ai suoi potenziali avversari che era più forte di loro avendo più aeroplani, più carri e più cannoni di quanto essi supponessero. Corredò queste grosse panzane, perché tali erano, con frasi che faranno per sempre l'invidia dei più agguerriti pubblicitari, come quando chiese al suo popolo di rinunziare al burro pur di avere cannoni: cosa che si guardò bene dal mettere in pratica persino durante la guerra, visto che una vera conversione dell'industria tedesca avvenne soltanto a partire dal 1943.Questi metodi, di certo non nuovi per le tribù selvagge che si son sempre dipinte con colori violenti per terrorizzare l'avversario, ma inediti nel campo delle relazioni tra nazioni civili, funzionò per Hitler talmente bene che finì per danneggiarlo mortalmente quando a spaventarsi non furono soltanto le piccole nazioni che egli aveva nel mirino, ma le grandi, nelle quali venne a crearsi per contraccolpo una allarmata schiera di Cassandre, che si dettero ad agitare corpo ed anima, e con una sostanziale irresponsabilità, lo spettro di un «piano» tedesco per la dominazione del mondo intero. Oggi sappiamo molto bene, ma era possibile intuirlo anche allora, che non soltanto un piano simile non esisteva, ma anche che era impossibile esistesse. Per quanto ricca di linfe e di grosse capacità, la Germania di allora - come del resto nessun'altra nazione del tempo - non aveva la materiale possibilità di conquistare, annettersi ed amministrare popolazioni di ceppo dissimile oltre una frazione molto piccola. Tutti i «Governi Quisling» sorti come funghi nel periodo della massima estensione germanica, e persino la Repubblica di Salò, gemella in questo della petenista Repubblica di Vichy, nascono dall'ovvia constatazione che nella nostra epoca non è più pensabile programmare un'espansione senza legarla ai criteri della collaborazione, degli Stati vassalli, o degli Stati a «sovranità limitata»: criteri dei quali, forse, potè non tener conto il solo Alessandro Magno, ma che furono ben presenti agli oculati ed insuperabili amministratori della costruzione imperiale romana ed ai loro tardi eredi britannici, nel cui Impero non esiste territorio uguale ad un altro quanto a legame istituzionale col centro.Per quanto è dato capire oggi, e non è moltissimo, la linea di condotta centrale di Hitler fu soltanto quella di profittare di ogni occasione a portata di mano per ottenere successi nell'ambito limitato della riunificazione di tutte le genti tedesche nell'Est europeo. Poiché parte di queste popolazioni era soggetta a Stati nominalmente sovrani, l'obbiettivo comportava anche la distruzione di questi Stati, o con manovre intimidatorie, o con piccole guerre locali. Ma mai una guerra generale, poiché Hitler si rendeva ben conto della verità di quell'assioma per cui una Grande Potenza è tale quando non accetta di combattere quei conflitti mortali, dai quali esce distrutta come Grande Potenza. E' straordinariamente istruttivo costatare la consequenzialità tra questa sua persuasione di fondo ed il «tipo» di guerra che egli ispirò e fino ad un certo punto condusse, ancorandola ad una serie di inediti «trucchi» che spaventarono e disorientarono i suoi molti avversari, ma che non furono altro che i sostituti di una forza che egli fu sempre molto lontano dal possedere. Erano un trucco i carri armati, e lo erano i paracadutisti, gli Stukas con la sirena nella coda, i fantocci fatti piovere di notte alle spalle del nemico: era un «trucco», insomma, l'intera teoria della «Blitzkrieg», che trasportava in sede militare i procedimenti ed i non solidi successi della propaganda politica. Certo, le campagne di Polonia, di Norvegia, di Francia, ed anche quella di Russia fino al 1942, si studiano ancor oggi con una stupefatta ammirazione, poiché costituiscono esempi non ancora superati di quanto contino anche sul campo di battaglia il coraggio morale, l'intelligenza e la penetrazione psicologica, prima ancora che le armi. Ma il fatto che la «Blitzkrieg» si sia infranta contro l'Armata Rossa, cioè contro una macchina militare abbastanza ottusa e brutale per non lasciarsi ingannare dai trucchi, e d'altra parte disposta a spendere a piene mani tutto il sangue necessario, dimostra ad usura, ed una volta di più, che nel quadro mentale di Hitler l'idea di un conflitto generale, di un conflitto davvero «serio» era del tutto esclusa. E forse fu questo il suo errore più grande; temeva oscuramente la Russia, e ne guardava con inquietudine la crescita industriale, in quel momento seconda soltanto a quella degli Stati Uniti. Ne ricercò l'amicizia, ancora una volta, per mettere Londra e Parigi di fronte ad un'alternativa drammatica, o accettare la disintegrazione polacca, o risolversi ad una guerra «seria». Quando con suo dispetto e stupore vide svanire la speranza di farla franca ancora una volta, allora si risolse a liquidare la Russia, convinto, ma forse non del tutto, che bastasse «un calcio alla porta per far crollare l'intero edificio». Si sbagliava, ma la medesima convinzione - e lo vedremo - nutrivano Churchill, Roosevelt e persino lo stesso Stalin. Fu un bel granchio generalizzata, che finì per giovare soltanto al dittatore georgiano: da «belva sanguinaria» divenne da un giorno all'altro il «buon zio Joe», con conseguenze di così vasta portata che è quasi impossibile rendersene pienamente conto oggi.Nel 1939 gli inglesi non capirono affatto cosa in realtà girava nel cervello di Hitler, e perciò si spaventarono. E quando gli inglesi si spaventano, si attengono sempre all'ipotesi peggiore, perché è assai meglio ricredersi che prendere randellate impreviste. Fecero benissimo, dal loro punto di vista, anche perché, ma questo lo si scoperse non certo nel 1939, Hitler stava al volante di una macchina ideologica capace di sprigionare nefandezze allucinanti, come infatti avvenne a guerra inoltrata. Ma questo fattore, che per noi oggi è iscritto al passato, un passato ben conosciuto, meditato ed assimilato, nel 1939 apparteneva al futuro: mentre era al presente, almeno per chi volesse contemplarlo con occhio imparziale, il gigantesco massacro che stava spazzando la Russia almeno dal 1934. Non saremo troppo ingiusti coi politici eminenti di quegli anni se rileveremo che essi ebbero la più grande cura di applicarsi una benda sull'occhio sinistro, tenendocela ben ferma fino al 1945, con una decisione sostanzialmente immorale, per la quale Churchill coniò la disinvolta ricetta dell'allearsi «col diavolo e sua nonna».Chi veramente cadde a capofitto nella pania delle grandi menzogne di Hitler fu proprio Mussolini che, pur essendo giornalista ed allenato da anni ad ogni genere di menzogne per uso popolare, non seppe mai coniarne una che avesse la stessa efficacia di quelle del suo collega. La più pietosa, ed anche la più rivelatrice, fu quella delgli otto milioni di baionette, perché anche i ragazzini sapevano che con 42 milioni di abitanti l'Italia non avrebbe mai potuto mettere in divisa un esercito di questa grandezza. E poi perché le baionette evocavano più il «quadrato di Villafranca» e le tavole di Beltrame sulla "Domenica del Corriere" 1915-1918, che lo scenario di guerre veramente moderne con quegli affascinanti mostri meccanici alati, terrestri e marini che popolavano la fantasia dei giovani d'allora, assai più informati e proiettati nel futuro di quanto non immaginassero i loro padri, ivi compresi i politici ed i generali che tenevano in quel tempo la cosa pubblica nelle loro mani.Se son consentiti ricordi personali, mi par giusto indicare qui, in questo specifico punto tecnico-intellettuale, la vera linea di frattura tra le classi giovani del 1939 e quelle dei padri o dei nonni. Ed anche la ragione profonda dell'ammirazione quasi senza limiti che nelle stesse classi giovani destarono almeno sino al 1942 le imprese militari tedesche. Sentivamo, forse, confusamente, che la mentalità ottocentesca dei discorsi, delle parate, delle lezioni di Cultura militare, materia obbligatoria nelle scuole, non era adatta ai tempi correnti, e capivamo anche che era pericolosa. Mussolini assicurava che «la mitragliatrice non conta, se non c'è lo spirito che la fa cantare», ma questa ci sembrava soltanto una mezza verità, per di più legata al mondo psicologico della trincea, antiquato - ai nostri occhi - quanto le opere ossidionali del maresciallo di Turenne.Nel 1939, una volta alla settimana eravamo trascinati controvoglia alle lezioni di Mistica fascista, con oratori e professori per la verità assai eloquenti.Una sera, prendendo il coraggio a quattro mani mi alzai al termine di una lezione e chiesi al professore, il quale aveva dimostrato quanto fosse facile battere l'Inghilterra, come si poteva fare a raggiungere questo scopo, se la Flotta inglese era composta delle tali e tali navi da battaglia, quella francese dalle tali e tali, quella italiana dalle tali e tali, e se infine gli aeroplani, come si era visto nelle manovre, ma soprattutto in Spagna, erano in grado di far alcune cose, ma non altre. A onor del vero mi lasciarono parlare liberamente, ascoltando con attenzione. Il professore, che poi passò disinvoltamente dal nero al rosso a tempo debito, meditò un poco e quindi disse: «Il Duce avrà pensato certamente a come risolvere il problema che voi avete posto».Come sappiamo oggi, il Duce aveva ben fermo soltanto il principio di non farsi mai trascinare in un conflitto veramente generale, in un conflitto «serio», purché - qualunque cosa si ami sostenere ora - non era affatto uno stupido e conosceva benissimo la situazione italiana. In tutta la penisola c'erano nel 1339 soltanto 300mila tra automobili ed autocarri, ed altrettante patenti, quando in Francia eran già due milioni, le une e le altre. Dalle Accademie di Livorno, di Caserta e di Modena uscivano meno di tre o 400 ufficiali effettivi ogni anno, e non c'era nemmen da pensare ad una grande Marina e ad una grande forza aerea, se prima non si fossero creati ed addestrati i marinai ed i piloti necessari. Non avevamo né scorte di nafta, né di carbone, e non si era data mano ad alcun programma per quei succedanei che i tedeschi già fabbricavano, ottenendo gomma sintetica e, dall'idrogenazione del carbone, petrolio di buona qualità.Queste gravi carenze costituivano una potente indicazione negativa nel caso di una guerra lunga e dura, ma contavano assai meno, o niente del tutto, nel caso di un conflitto limitato nel tempo, tanto più mettendo nel conto la straordinaria debolezza delle posizioni imperiali inglesi, ed il fatto che l'intera organizzazione militare francese era ipnotizzata e bloccata sul problema delle frontiere di Nord-Est.Galeazze Ciano, in ricognizione a Salisburgo, apprese già il 12 agosto che «probabilmente» ci sarebbe stato un accordo coi russi. Gli entrò da un orecchio e gli uscì da un altro, sopraffatto dall'emozione di quanto Ribbentrop gli disse subito dopo, «ora vogliamo la guerra». Era una menzogna sfacciata. perché mai come in quel momento Hitler stava trescando sottobanco con quelli che chiamava «i vermi di Monaco», per ottenare il massimo al prezzo minimo. Quel 12 di agosto, è assai probabile che nei suoi piani a corto termine non fosse neppur compresa una guerra vera e propria con la Polonia, innanzitutto perché poteva anche darsi che essa cedesse, ed accettasse il ritorno di Danzica nel seno tedesco, ed un plebiscito per il Corridoio. Ma poi anche per una ragione più generale: le Democrazie potevano forse accettare che la Polonia divenisse davvero uno Stato a sovranità limitata, ma non ne avrebbero probabilmente inghiottita la sua conquista "manu militari". Se poi avvenne proprio questo, la decisione di Hitler non può essere considerata autonoma, per il semplice fatto che egli aveva potuto firmare un accordo con Stalin, sulla base di un prezzo che era appunto la metà della sventurata nazione. I protocolli segreti del 23 agosto, stabilendo questa moneta di scambio, non soltanto aprirono le porte della Seconda guerra mondiale, ma furono senza dubbio l'origine prima della campagna tedesca in Polonia del primo settembre. Senza il Patto, e persino con un atteggiamento di Stalin imparzialmente neutrale, Hitler non avrebbe osato, e si sarebbe contentato di Danzica e del Plebiscito, avendo dalla sua ragioni storiche che, per un curioso paradosso, erano anche più valide di quelle che lo avevano mosso alle precedenti imprese.Oggi si tende a dimenticare che la «città libera» di Danzica, antico anello forte della Lega Anseatica, era sicuramente una città tedesca, quanto era italiana la Trieste del 1915, benché si debba aggiungere che gli ultimi mille anni di storia non hanno ancora stabilito in modo sicuro per decidere sulla sorte di città come Danzica, che hanno la disgrazia di sorgere nel punto di sutura di due etnie completamente diverse. E si dimenticano anche quei particolari minori, che son così utili a comprendere il senso degli avvenimenti: la seconda notte di guerra, Heinz Guderian, celeberrimo padre dei corazzali tedeschi, raggiunse col suo XIX Corpo la cittadina di Cross-Klonia, e dormì nel castelluccio in cui erano sepolti suo padre e suo nonno, nel cui giardino aveva giocato da piccolo. I suoi pensieri, le sue «motivazioni», dovettero essere le stesse di quei tanti italiani che domani avessero la ventura di tornare a dormire nelle abbandonate dimore natali di Pola, di Parenzo o Abbazia.Mussolini e Ciano ebbero dieci giorni di tempo per mettersi a tavolino ed analizzare con pazienza la nuova situazione che si stava creando, e della quale avevano notizie di prima mano. Non risulta che lo abbiano fatto, paralizzati com'erano dai sinistri presentimenti della "guerra grossa". Quando scoppiò su tutti i giornali la incredibile notizia delle strette di mano tra Ribbentrop e Molotov, si persuasero definitivamente che la danza infernale stava per cominciare, e svilupparono un'attività frenetica per tirarsene fuori in tempo. La sera del 31 agosto, Ciano convocò a Palazzo Chigi sir Percy Lordine, ambasciatore inglese, e gli disse puramente e semplicemente che l'Italia non avrebbe fatto nessunissima guerra. Il giorno dopo, Mussolini annunziò agli italiani ed al mondo la sua «non belligeranza», fedele, una volta di più, alla tradizione curiale di un popolo che è di Santi e di Eroi, ma soprattutto di avvocati, capaci di produrre una gamma estesissima di etichette per le situazioni più imbarazzanti: per cui si è alleati, ma in una «guerra parallela», si combatte, ma come «cobelligeranti», e si fa persino il Re, ma come «luogotenente».Prima ancora che immorale, la nostra «non belligeranza» fu un errore; non soltanto perché tolse efficacia alla guerra dei nervi che Hitler stava conducendo, ma soprattutto - ed è questo che importa - perché dette agli inglesi una attendibile misura della irresolutezza e debolezza mussoliniana. Fino a quel momento, essi erano stati alquanto incerti sulle possibili modificazioni profonde nel carattere degli italiani che il Fascismo forse aveva prodotto. Da quell'istante cominciarono a pensare - purtroppo - che se la facciata era stata ridipinta, si trattava pur sempre del vecchio edifìcio. Non vi è alcun dubbio che una gran parte della strategia mediterranea di Churchill, tra il 1940 ed il 1943, fu influenzata dalla convinzione che contro l'Italia fosse possibile ottenere una cospicua serie di vittorie a buon mercato. Però, che il basso ventre dell'Asse fosse molle, non lo aveva scoperto da solo.Per essere onesti fino in fondo, bisogna aggiungere che in quell'agosto 1939 anche un fatto tragico come la guerra venne sommerso nelle coscienze di tutti dalla specialissima paralisi mentale indotta dal Patto Hitler-Stalin, al quale seguì in ogni parte del mondo un maremoto psicologico, politico e pratico la cui dimensione è stata accuratamente cancellala dalla memoria collettiva. In Francia, quel primo ministro che per solito sfilava a pugno levato ogni 14 luglio, proprio Edouard Daladier, mise fuori legge il Partito comunista, di cui fece processare davanti ai Tribunali militari una quarantina di deputati.La polizia eseguì 11mila perquisizioni, sequestrando radio clandestine, armi, esplosivi ed opuscoli nei quali Francia ed Inghilterra eran denunziate come le «potenze imperialiste», da ostacolare e sabotare con ogni mezzo. Thorez, presentatosi in un primo tempo "au drapeau", disertò quasi subito, seguito da una robusta schiera di comunisti fedeli, inaugurando dal Belgio la prima «collaborazione» della storia. Goebbels, con alcuni comunisti francesi, tra i quali compare anche il tedesco Ernst Toergler, sospetto autore dell'incendio del Reichstag, mette in piedi addirittura una radio emittente che si chiama «Humanité».Ci sono anche dei martiri, in questa strana causa pro Hitler: tre operai comunisti fucilati a Parigi nel febbraio 1940 per gravi sabotaggi ed esplosioni ai danni dell'industria bellica. Velocemente, i grandi campi di concentramento si riempiono di bei nomi dell'aristocrazia intellettuale ed operaia comunista: sindaci, deputati, giornalisti di sinistra, reduci della guerra di Spagna, e naturalmente le «teste» dei PC stranieri, in primo luogo Luigi Longo. La polizia francese piomba subito nel segretissimo rifugio parigino di Ercoli, al secolo Palmiro Togliatti, e lo studio della storia non sarebbe quella cosa così affascinante che è, se non riservasse delizie come queste, lo scoprire per esempio che il leader numero due della Internazionale vien tenuto in galera per sei mesi, senza che nessuno lo riconosca, ufficialmente, si capisce.In realtà, l'occhialuto professore vien recapitato a Mosca nel marzo 1940, in funzione di quegli scambi di chiarimenti sottobanco che qualunque regime intrattiene sempre coi suoi avversari, anche in tempo di guerra. Del resto, la stessa cosa succede in Italia, dove all'improvviso il Tribunale Speciale sembra dimenticarsi che esistano dei comunisti. Nel primo settembre del 1939 se ne condannano più di 250, che scendono ad una trentina nel secondo, e questa stracca attività repressiva continua così fino al giugno 1941. Non soltanto: tra condoni, buone condotte e pentimenti ante litteram, in carcere non rimane quasi più nessuno, e pochissimi al confino di polizia, con una linea di condotta che sopravvive anche dopo l'attacco alla Russia. Quando la Francia di Pétain, o i tedeschi, restituiscono a Mussolini i comunisti italiani ristretti nei campi dell'Esagono, tutto si limita al confino di polizia nelle isole, in condizioni leggermente diverse da quelle che negli stessi anni sperimentano milioni di Ivan Denisovic nelle miniere d'oro dì Kolyma, o a Vurkuta, o anche milioni di ebrei a Buchenwald e Dachau.E' difficile sottrarsi all'impressione che tra Mussolini ed il Pci non sia corsa un'intesa duratura, sul cui profilo psicologico si tornerà, per osservarne più da vicino il meccanismo. La catastrofe del Patto, in realtà, colpisce a morte la componente idealista del comunismo internazionale, al punto che i comunisti tedeschi arrivano a reclamare dal Komintern una maggiore rappresentanza «in quanto esponenti di un Paese alleato». Tutti o quasi i Comitati centrali volano in pezzi, e migliaia e migliaia di comunisti abbandonano il partito. Rimangono i «duri», ma a prezzo di un'automutilazione intellettuale che è la condizione indispensabile per sopravvivere all'interno del sistema. E potremmo considerarla sbrigativamente affare che non ci riguarda, se essa non fosse all'origine di una «lezione» sulla natura e sui motivi del Secondo conflitto mondiale che scarica sulla sola Germania la colpa primaria di esso. Assolvere Stalin, difatti, comporta di necessità il sostenere che la guerra sarebbe comunque scoppiata, dati i progetti hitleriani di dominazione mondiale. Questi progetti non esistevano, perché non esistevano le condizioni di minima necessarie a renderli operanti. Ma sembrò che esistessero perché all'azione circoscritta di Hitler venne a sovrapporsi il dirompente aiuto dell'espansionismo sovietico, ingrediente altamente esplosivo sul quale l'Europa occidentale si era tranquillamente addormentata dopo la scomparsa degli zar, la sconfitta militare dei loro eserciti, la guerra civile, e le atroci vicende intestine successive alla morte di Lenin. Allo storico, oggi, incombe lo sgraditissimo dovere morale di accettar di passare per ciò che non è, cioè per il difensore di Hitler, dei fascismi e di tutto ciò che essi hanno rappresentato. Ma questo accade proprio per le ragioni che si sono appena dette: in questo 1989, a mezzo secolo di distanza dai fatti, risulta quasi impossibile cercar di presentarli nella loro realtà obiettiva, senza che entrino immediatamente in gioco quei potenti meccanismi di autodifesa e di offesa ai quali dobbiamo, in fondo, la nostra incapacità collettiva a comprendere i tempi che corrono. E questo dimostra, per nostra disgrazia, che la Storta non insegna nulla, cosicché i mezzi utilizzati volta a volta per fronteggiare le nuove emergenze son di regola quelli sbagliati, appunto perché dedotti da interprelazioni di comodo del passato. Cercar la verità e tentare di dirla è perciò obbligo morale dello storico. Ma, forse, sarebbe più saggio parlare della coltura delle barbabietole, o della diffusione della pastasciutta nel mondo. Però un premio c'è: ed è lo scoprire che anche nella Storia, come in matematica, due e due fanno sempre quattro.
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Stalin invade la Finlandia e Hitler scatena la forza d'urto della Wehrmacht in giro per l'Europa. Fino all'attacco su ParigiLa «phoy war», o «guerra in sordina», o «guerra degli altoparlanti», o «drôle de guerre», o comunque sia stata chiamata allora, dura sino al 9 aprile 1940, sino al momento in cui forze tedesche assai esigue ma audacemente manovrate occupano Danimarca e Norvegia, precedendo di un soffio un'analoga operazione anglo-francese studiata con le consuete lentezze, irresolutezze ed anche disinvolture tipiche degli Stati Maggiori e dei politici delle due democrazie. Vedremo il profilo ed il perché di questa stravagante svolta così periferica, ma forse è meglio esaminare prima proprio la «guerra in sordina», poiché i suoi sette mesi sono ricchissimi di insegnamenti, anche se si fa sempre finta di ritenere che durante quel lungo periodo non sia successo nulla.Invece ci sono molte cose da dire, a cominciare dal fatto che nessuno si muove semplicemente perché nessuno ha un piano. Ci sono soltanto i limiti non scritti e non descritti, ma tassativi, entro i quali ciascuna Potenza impegnata intende mantenere gli avvenimenti. E da questi limiti che nascono le strategie, ed è su questo punto che la Seconda guerra differisce tanto dalla prima. Nel 1914, tutte le Potenze hanno gettato nel conflitto, e subito, ogni loro risorsa impegnandola fino allo spasimo in un vero e proprio cozzo di tori infuriati. Il costo spaventoso delle tragiche esperienze maturate sul campo, da Tannenberg a Ypres, da Gallipoli a Verdun, dalla Somme al Piave, filtra sui figli attraverso i racconti dei padri e modifica profondamente il carattere del secondo conflitto. Tra quei padri, ci sono i politici, soprattutto i generali, passati allora attraverso l'inferno di quelle battaglie. Per cui nella Seconda guerra si realizza uno speciale accordo silenzioso tra masse e capi, basato sul rifiuto inconscio o semiconscio non tanto della guerra, quanto di «quel tipo» di guerra. Differenza sottile ma importante, perché essa condiziona di sé l'intera gestione del conflitto, coi suoi splendori e le sue miserie, le sue contraddizioni apparenti.Nel 1939 il periodo delle «masse grigie» è alle spalle in tutto il mondo civile. Son già nati i tecnici, gli specialisti e con loro son nati i motori, le radio, i telefoni, e perciò un nuovo tipo di consapevolezza e di rapporto con la realtà. Se si deve andare alla guerra, si va alla guerra ma, per la prima volta nella storia, col sottinteso che per fare un uomo ci vogliono vent'anni, e per un carro armato venti ore. Il carro è spendibile, l'uomo no.Da questo punto di vista, la strategia più razionale del secondo conflitto è quella britannica, benché tutte le altre seguano ad una corta incollatura. Londra ha mandato sul continente, tra il 1914 ed il 1918, probabilmente più di 190 divisioni, ma ora, all'inizio del secondo conflitto, ne molla soltanto due, salite poi faticosamente a cinque, ed a sette nella primavera del 1940. Il loro compito non è quello di combattere, ma di rincuorare i francesi, dicendo loro «siamo qui anche noi».Al momento in cui cominceranno a fischiare le pallottole, esse ripiegheranno prontamente sui porti della Manica in esecuzione di ordini che non hanno nulla a che vedere con la pericolosità dell'attacco tedesco, ma che son dettati esclusivamente dal fermo desiderio di non invischiare mai più in una battaglia terrestre le forze britanniche. Tra il 27 ed il 28 maggio del 1940 c'è un momento in cui tutto sta appeso ad un filo, a Londra: se il Corpo di Spedizione riuscirà a rientrare in Inghilterra, si rimarrà in guerra. Se sarà catturato, ci si metterà d'accordo con Hitler. Vedremo il come ed il perché.In realtà, la scelta irrevocabile inglese è quella di una strategia periferica, basata sul tentativo di attrarre le riserve centrali tedesche il più lontano possibile dal cuore dell'Europa, in modo da disperderle e logorarle. Tradotto nella pratica, questo metodo comporta fatalmente di attizzare fuochi di guerra dovunque sia possibile, profittando di un dominio marittimo che consente di spostarsi con facilità lungo tutta la periferia. Comporta anche l'identificazione dei punti deboli del nemico, secondo il vecchio principio del «battili dove non sono»: purtroppo per noi italiani, il punto debole più vistoso dell'Asse è proprio lo Stivale, e gli inglesi vi ricercheranno con tenacia, preveggenza e successo quelle occasioni che l'enorme potenza ed alta qualità della «Wehrmacht» negano altrove. Il nostro orgoglio nazionale ci impedisce di distillare il succo profondo di alcuni sintomi: ma è un fatto che la Flotta britannica del Mediterraneo mette a punto già nelle manovre del 1936 quel piano di aerosiluramento delle navi da battaglia italiane che avverrà nella «notte di Taranto», quattro anni dopo. Ed un altro fatto è che i piani di sbarco dell'operazione «Influx», lo sbarco in Sicilia, sono già pronti alla fine del 1940, sulla premessa che l'isola offrirebbe «grandi opportunità». Che poi son quelle che Anthony Eden codifica in una frase lapidaria: «Preferiamo avere l'Italia nemica, anziché amica». Linea di condotta che ci causerà una sequela di disgrazie.Una strategia periferica sta in piedi soltanto se c'è qualcuno disposto a «tenere il fronte» sul Continente. E questo qualcuno, per gli inglesi, è la Francia. Ma la Francia non ha piani, perché non ha i mezzi per farne funzionare nessuno, neppure limitato. Si può ben essere coinquilini della glorie ed avere tra i propri avi Napoleone, ma nulla può porre riparo al fatto che i francesi sono quaranta milioni ed i tedeschi quasi il doppio. Perciò la Francia combattente si seppellisce nella Linea Maginot, dimenticando che essa è stata costruita allo scopo principale di risparmiare sul Reno quelle forze cospicue che dovrebbero funzionare da massa di manovra.Anche Hitler è senza piani, ed è anche il solo a sapere che la posizione della Germania è critica al punto da non lasciare alcuna via di uscita reale. I suoi avversari e l'Unione Sovietica, provvisoriamente amica, divengono ogni giorno più forti e lo spazio centroeuropeo è troppo angusto per una manovra a linee interne. Attaccare la Russia significa immobilizzare la «Wehrmacht» per un minimo di tre o quattro mesi su quelle lontanissime terre, e fornire ai francesi un'occasione irripetibile. Attaccare i francesi è soltanto un po' meno pericoloso, richiedendo sei settimane: ma immobilizzerebbe egualmente l'esercito ad ovest, e Stalin sarebbe uno sciocco a non approfittarne, allungando le mani troppo vicino alle fonti di petrolio rumene, al Baltico, ai Balcani meridionali. In nessun caso sarebbe comunque possibile sbarcare in Inghilterra: perché conquistare Londra con le ingenti forze necessarie obbligherebbe Stalin a piombare su Berlino. Quello della guerra è un gioco duro, e vi sono ammessi soltanto i piccoli sbagli. Quelli grandi sono mortali.Neppure Mussolini ha un piano, né la voglia di farne uno. Le sue valutazioni sulle possibilità militari di questo e di quello son di regola sbagliate, il che del resto lo accomuna a molte «teste fini» inglesi, francesi e anche americane. In compenso, fiuta da buon politico - e politico socialista - un insistente «vento dell'Est», con una intuizione a lungo termine che non pare sia mai stata messa nel dovuto rilievo. E' questa l'epoca in cui crescono i suoi sfoghi contro la borghesia, colpevole di ogni nequizia, e contro la monarchia, «relitto del passato»; e contro la Chiesa, che guarda «sempre più da ghibellino». Vorrebbe eliminare questi tre ostacoli, nell'inconscio tentativo di avvicinare quello che ritiene «un fascismo slavo, dato che il comunismo è morto». Su questa strada si spinge piuttosto avanti, facendo pervenire a Mosca parecchie indiscrezioni sulle intenzioni tedesche, e persino una lettera anonima. Dichiara in pubblico di esser disposto anche «a marciare coi russi», e quando gli studenti di Milano e Torino insorgono contro il brutale attacco sovietico alla piccola Finlandia, egli li approva, autopersuadendosi che quelle manifestazioni «sembrano» contro i russi, ma invece sono contro i tedeschi. Eppure, erano proprio contro i russi, e furono una delle ribellioni più autentiche di un'opinione pubblica ancora molto legata al senso morale della Storia.Non soltanto in Italia, perché tutto il mondo civile prende le difese della microscopica Repubblica finnica, attaccata senza motivo il 30 novembre 1939 dall'orso sovietico, in una «guerra dimenticata» le cui ragioni profonde forse non conosceremo mai: ma che ha per effetto immediato quello di ridurre quasi a zero il credito sovietico presso l'Occidente, già indignato, senza distinzioni di frontiere, per l'invasione da parte dell'Armata Rossa della Polonia orientale in appoggio a Hitler, con quello che subito i giornali inglesi chiamarono «il colpo di pugnale alla schiena». Questa espressione passerà poi alla storia come coniata da Roosevelt e Daladier nei riguardi del tardivo attacco italiano alla Francia. Con ragione. Ma sarà bene non dimenticare che essa nasce nel 1939, con un bersaglio molto diverso. I «cento giorni» della Finlandia dimostrano assai bene la difficoltà di far aderire la narrazione della Storia vera a tesi di comodo, perché essi creano quasi istantaneamente un «fronte» antisovietico, che finisce per legare sul piano psicologico le due democrazie in guerra alle due dittature europee. Unica eccezione gli Stati Uniti, e meglio sarebbe dire Roosevelt ed i suoi consiglieri, fortemente radicati già da questo momento in una visione del mondo dominata da due sole Potenze, appunto Stati Uniti e Russia. Questa visione viene di lontano, perché nasce dalle viscerali simpatie dell'opinione pubblica americana per la Rivoluzione sovietica, «scopa degli odiosi zar», e dai potenti supporti morali e materiali forniti a Lenin nelle sue fasi più critiche: si sviluppa a ridosso del secondo conflitto sulle ali di una «new left» che è contemporaneamente antinazista, antibritannica e filosovietica. Durante la guerra produrrà guasti enormi, origine prima della disgraziata situazione nella quale oggi il mondo deve acconciarsi a vivere.Ad aiutare la Finlandia corrono tutti, Stati e cittadini, con un fenomeno almeno tanto rilevante quanto quello delle Brigate internazionali nella Spagna del 1936. Arrivano 145 apparecchi, in gran parte da caccia, acquistati a prezzo fittizio, ed altri 79 regalati: Morane francesi, Gloster inglesi, Brewster americani ed anche 35 ottimi G50 della Fiat, che i finlandesi ribattezzano «Fijju», impressionati dalla velocità sibilante. Ma ci sono, oltre alle macchine, anche i volontari, danesi, norvegesi, svedesi, tedeschi, spagnoli, italiani, americani: nasce una grossa Squadriglia internazionale, e nasce il progetto di un Corpo d'armata autonomo al comando di Kermit Roosevelt, personaggio «prezzemolo» che si ritrova qua e là, un po' in tutte le vicende della guerra, come accade al suo omologo britannico, Randolph Churchill: entrambi più occhi ed orecchie dei loro illustri parenti che uomini d'azione autonoma.Come si sa, la Finlandia regge eroicamente fino al marzo del 1940 contro forze russe che salgono durante i cento giorni da 36 a 50 divisioni, e da 500mila ad 800mila uomini, con 2mila carri e 2mila aeroplani. A Salla, Suomusolmj, in Carelia, sul Ladoga i disgraziati «tavarisc» cadono a centinaia di migliaia, subito incapsulati dai ghiacci perenni della notte artica. Stalin destituisce un nugolo di generali, ne fucila altri, fa bombardare Helsinki, «fa la pace» con un governo fantoccio subito istallato appena al di là della frontiera careliana, ed alla fine è costretto a contentarsi di qualche chilometro quadrato nella regione di Petsamo ed in quella di Viborg. In compenso, la Russia viene espulsa nel dicembre 1939 dalla Società delle Nazioni all'unanimità. Particolare così trascurabile e così poco citato, che il parlarne oggi sembra pura malvagità.Questa «guerra d'inverno» non soltanto consolida nelle democrazie occidentali e nello Stato Maggiore tedesco un giudizio fortemente negativo sulle capacità dell'Armata Rossa, ma innesca una stupefacente cascata di piani anglo-francesi, molto confusi e molto incauti, il cui obbiettivo finale è quello di «punire» la Russia anche a costo di guerra. Non sapremmo quasi nulla di questi progetti, la cui esecuzione avrebbe potuto cambiare il corso della storia, se nel giugno del 1940 i tedeschi avanzanti in Francia non avessero trovato a La Chiarité un treno abbandonato di una ventina di vagoni, carichi dell'intero archivio dello Stato Maggiore francese. I documenti vengono passati al setaccio, e sottoposti ad Hitler, il quale ordina la pubblicazione di una ventina di essi, tenendosi in mano gli altri come arma di ricatto: poiché, come ognuno sa, un ricatto funziona soltanto se non esplode. Dopo, non serve più. A riprova, si può ben rilevare che i documenti di La Charité sono scomparsi nel nulla: giacciono sicuramente in qualche archivio «chiuso», dove continuano a funzionare allo stesso modo.I piani francesi ed inglesi erano due. Allo scopo un po' ipocrita di aiutare la povera Finlandia, si sarebbe sbarcato un Corpo di spedizione in Norvegia e poi, chiedendo libero transito ed appoggio alla Svezia, lo si sarebbe fatto arrivare in Finlandia. Tutto questo avrebbe avuto come premio la possibilità di interrompere i vitali rifornimenti di ferro svedese alla Germania, nonché di sbarrare con estesi campi di mine le neutrali acque costiere norvegesi che servivano così bene ai sommergibili tedeschi per sboccare in Atlantico attraverso lo Stretto di Danimarca. I politici inglesi, Churchill alla testa, erano assai attirati da questo gruppo di idee dalle quali si ripromettevano grossi successi a basso costo: obbligare Svezia e Norvegia ad una scelta di campo, minacciare da Nord il Baltico, tranquilla area per l'addestramento delle unità navali tedesche, asfissiare la Germania nei suoi rifornimenti, chiudere col catenaccio il Mar del Nord ed infine aiutare la Finlandia a dare una buona legnata al potente vicino.I militari britannici, per la fortuna dell'Inghilterra, erano assai meno disposti a questi voli di fantasia di stampo churchilliano. Per essi questa «caccia all'anatra finlandese» presentava pochissimi vantaggi, con l'inconveniente gravissimo di rompere i ponti con la Russia, il che, per prima cosa, avrebbe destabilizzato all'istante il Medio e l'Estremo Oriente. E c'erano troppe poche navi, per controllare lo scoppio del barile di polvere.L'altro piano, ancora più stravagante, era il bombardamento dei pozzi sovietici di Bakù, dai quali fluiva quell'ottimo petrolio che poi Hitler utilizzava per la sua macchina bellica. In correlazione, si sarebbe anche creato un «fronte balcanico» basato su un centinaio di divisioni da raccogliersi tra Grecia, Turchia, Jugoslavia e forze franco-inglesi dalla Siria e dall'Egitto. Una potente Armata d'Oriente, potente sulla carta, che avrebbe potuto richiamare altrettante grandi forze tedesche, distraendole dal fronte principale del Reno: e questa era la ragione per la quale i francesi guardavano con grande favore questo progetto. I piani erano così avanzati che i russi, maestri nel procurarsi informazioni di prima mano, chiesero ad un gruppo di ingegneri texani cosa si sarebbe potuto fare in caso di incendio dei loro pozzi caucasici. Furono annichiliti dalla risposta: «assolutamente niente».In questi programmi balcanici c'è un punto che non è mai stato considerato in tutte le sue implicazioni. Ed è che Parigi e Londra cercarono di tirar dentro nell'affare la Turchia, nazione fieramente antirussa, ma non tanto stupida da provocare la pioggia senza avere ombrelli adeguati. Ombrelli, gli alleati ne potevano aprire ben pochi, specie in quel lontano teatro, ma largheggiarono nei «compensi», il principale dei quali era il ritorno nel seno turco di Rodi e di tutto il Dodecanneso. Ma quelle belle isole erano italiane fin dal 1912, ed il nostro diritto ad averle in pianta stabile era stato solennemente sancito nel 1918. Si trattava dunque della classica pelle dell'orso, a meno che i franco-inglesi non dessero per scontata non solo l'entrata in guerra dell'Italia, ma anche la sua rovinosa sconfitta entro breve tempo. Però in quell'inverno a cavallo tra il 1939 ed il 1940 era casomai sicuro, o quasi, che l'Italia non sarebbe entrata in guerra di sua iniziativa: per cui questo mistero rimane ancor oggi tale, unito all'altro aspetto della medesima questione, e cioè che nessuno avrebbe mai potuto preventivare operazioni di grossa taglia nel bacino orientale del Mediterraneo senza disporre di una assoluta libertà di transito lungo il Mediterraneo stesso. Queste considerazioni vanno messe in relazione col fatto che dal primo marzo 1940 gli inglesi praticamente tagliarono tutti i nostri rifornimenti in carbone tedesco che dai porti del Nord, su nostre navi, scendevano fino a Gibilterra, per scaricare a Genova o Napoli. Persino Galeazzo Ciano, in quel momento intento a suonare non uno, ma quattro violini sotto le finestre del Foreign Office, si dovette chiedere perplesso se agli inglesi non avesse dato di volta il cervello. Tanto più che essi avevano offerto di fornirgli, in sostituzione, carbone, purché fosse pagato in aerei, cannoni e carri armati. Che era poi la scelta lasciata ad Ulisse da Polifemo: quella di mangiarlo per ultimo.Il «progetto Nord», passato attraverso il filtro di Stati Maggiori piuttosto bolsi e senza idee chiare, finì per abortire con un insuccesso davvero plateale. Gli alleati riunirono un Corpo di Spedizione di 60mila uomini, poi lo sciolsero, poi ne riunirono di nuovo una parte e finirono con l'imbarcarla sulle navi al principio di aprile del 1940 per metterla a terra a Narvik, Trondheim e Stavanger, al solo scopo, ora che la guerra finlandese era finita, di impadronirsi delle miniere di ferro del nord scandinavo e di minare le acque territoriali norvegesi. La spedizione fu organizzata così bene che nelle navi gli sci, indispensabili per scaricarle, erano stati stivati sotto cannoni, mitragliatrici, viveri e rifornimenti vari. Inoltre, nessuno aveva tenuto conto dei bassi fondali, per cui le navi dovettero fermarsi nei fiordi, senza poter attraccare. Agli inglesi toccarono navi francesi che portavano macchine da scrivere, ed ai francesi navi inglesi con materiale ferroviario. Comunque, Hitler precedette gli uni e gli altri con un'operazione audacissima, e basata su rischi alla fin fine paganti, ma insolitamente alti. Il primo marzo chiamò il generale Falkenhorst e gli disse che doveva occupare la Norvegia con sette divisioni, e la Danimarca con altre due. Falkenhorst uscì dalla Cancelleria, comperò tutte le carte geografiche norvegesi che potè trovare nelle cartolerie vicine, e realizzò il suo colpo esemplare, passando sotto il naso della Flotta britannica, intenta a minare le coste ed a sorvegliare i convogli, senza un pensiero al mondo.I tedeschi avevano anche un piccolo asso nella manica. A Narvik, situata a 1.800 chilometri dalle basi di partenza, c'erano due petroliere mandate graziosamente da Stalin, e vi son prove di un grosso lavoro sottobanco tra i due servizi informazioni.Finì come doveva. Giubilante, Chamberlain aveva annunziato che «Hitler aveva perso l'autobus». Ma quella volta non lo perse, anche se è vero che la Norvegia gli costò cara e gli servì a poco, comunque non subito. I franco-inglesi dovettero reimbarcarsi «coi loro giocattoli», come commentarono acidamente gli americani, ma Hitler si trovò a dover mantenere in Norvegia quella quindicina di divisioni che gli avrebbero fatto così comodo altrove. Almeno uno degli obbiettivi primari britannici era stato raggiunto, quello di disperdere le riserve centrali nemiche. Che poi questo vantaggio fosse stato pagato di persona da un neutrale, era poco importante. Le truppe alleate avrebbero abbandonato i ghiacci norvegesi comunque, ma è certo che la loro decisione di mollare fu accelerata dal colpo di tuono dell'attacco tedesco alla Francia, il 10 maggio del 1940. Il generale Gamelin aveva appena detto di essere disposto a dare un miliardo ad Hitler se gli avesse fatto il piacere di attaccare: ed Hitler glielo fece davvero, sbaraccando la Francia in sei settimane, così come aveva sempre detto. Le ragioni di questa stupefacente disfatta, non identificate allora e del resto neppure oggi, sono assai sottili, rimontano alla Prima guerra mondiale, e sono a loro volta all'origine dei grossi equivoci che seguirono; alcuni di questi riguardano da vicino l'Italia, ed è per questo, oltreché per alcuni insegnamenti e riflessioni di carattere generale, che val la pena di analizzare un po' meglio i preliminari, la gestazione di questa «battaglia di Francia» e la parte di primo piano che vi ebbe il sulfureo cancelliere tedesco. Negli anni precedenti la Prima guerra, il capo di Stato Maggiore di Guglielmo II, conte Schlieffen, aveva studiato un piano di attacco alla Francia, passando attraverso il neutrale Belgio, con un'ala marciante molto forte che si sarebbe abbattuta come una pesante stecca di ventaglio sulla regione di Parigi, facendo perno sulla zona - più o meno - del Lussemburgo. Il presupposto del piano era che quest'ala doveva essere la più forte possibile, ed anche che, ruotando sul perno, i corpi d'armata che la costituivano dovessero marciare allineati, in modo da non lasciare intervalli tra di loro: cosa non facile perché occorreva armonizzare la velocità, essendo ovviamente più alta quella dei Corpi estremi e più bassa quella dei corpi prossimi al perno. Morendo nel 1913, si narra che il conte Schlieffen mormorasse come estremo viatico: «Forte l'ala destra».Nel 1914, Von Moltke junior mise in atto il piano, ma i corpi non marciarono come dovevano e l'ala si indebolì per una serie di ragioni secondarie. Sulla Marna il francese Joffre ebbe buone opportunità per sfruttare gli errori, le sue linee interne, ed anche la stanchezza dei "boches" che si eran fatti centinaia di chilometri a piedi in un'estate torrida. Fu il «miracolo della Marna» che distrusse nei tedeschi le speranze di una guerra rapida, come era stata quella del 1870, ed aperse le porte ai carnai successivi, per quattro lunghi anni e quattro milioni di morti, tutti in pochi chilometri quadrati di terra maledetta. Tra le due guerre, fiorì una acre polemica tra francesi e tedeschi, che noi giovani seguimmo appassionatamente, poiché, a differenza di oggi, avevamo molto tempo disponibile per leggere, ed anche buoni testi e buone riviste specializzate. I tedeschi sostenevano che il piano del conte Schlieffen non aveva funzionato per difetti di esecuzione, ma che esso era geniale e tecnicamente corretto. I francesi sghignazzavano, e ribattevano che l'esecuzione non c'entrava affatto: era il piano ad esser greve, teutonico ed opaco, pura applicazione di forza bruta, laddove la guerra è definita un'arte proprio perché la sua condotta non può essere preordinata come alle manovre, ma improvvisata sul campo, da comandanti che debbon essere non «trascinatori di sciabole», ma spiriti eletti, schermidori di gran classe, cervelli di logica cartesiana.All'inizio del 1940, durante la stasi d'inverno, Hitler chiede all'Ufficio Piani della «Wehrmacht» un progetto di attacco risolutore alla Francia, e l'Ufficio ne prepara uno con lodevole rapidità, ricalcato sul piano Schlieffen, con alcune varianti destinate a riparare agli errori del 1914. Si estende l'ala marciante anche all'Olanda, si rivedono gli orari di marcia migliorandoli con l'uso dei motori, si piazzano le dieci divisioni blindate all'estrema ala destra, cosicché il colpo di maglio sia in grado di schiacciare qualunque resistenza. In sostanza, una copia scolastica ed aggiornata del 1914.Hitler esamina il piano e lo restituisce dicendo bruscamente «non è quel che mi serve: i francesi si aspettano proprio questo. E voi. dandogli questo, sacrificate il più ed il meglio del pensiero militare tedesco, la sorpresa». Quel che serve ad Hitler germina nello stesso momento in tre cervelli, nel suo, in quello di Heinz Guderian ed in quello di Von Manstein come prodotto di una collaborazione che abbina alle alte qualità di due generali, forse tra i migliori in assoluto messi in luce dalla Seconda guerra, l'impronta funambolica di Hitler, capace di percepire anche quelle qualità psicologiche del campo di battaglia che non entrano quasi mai nel bagaglio di un militare. Manstein e Guderian, infatti, rovesciano l'impostazione del Piano Schlieffen, ed in questo scoprono di esser stati preceduti dallo stesso Hitler, con un abbozzo di progetto quasi simile. Essi vogliono utilizzare sì un'ala marciante, ma finta: l'attacco vero e proprio sarà portato con tutte e 10 le divisioni corazzate sbucando «dal perno» direttamente su Sedan ed i ponti sulla Mosa, per puntare poi velocemente verso la Manica, in modo da tagliar fuori le forze francesi, britanniche, belghe ed olandesi dislocate più a Nord. Hitler approva questo «colpo di falce per sud», ma intanto divide in due battaglie distinte, una dopo l'altra, il complesso delle operazioni, e poi varia il dosaggio nella distribuzione dei carri: solo sette divisioni sbucheranno dalle Ardenne belghe, perché altre tre saranno collocate nell'ala marciante: l'avversario deve «vedere» i carri, deve essere assolutamente sicuro che la minaccia viene di lì, e soltanto in questo caso spingerà in avanti nel Belgio le sue forti Armate. Senza esca potrebbe non muoversi, ed allora il «colpo di falce» o batterebbe sul duro, o non taglierebbe fuori proprio nulla.Così alle 5,35 del 10 maggio 1940, 135 divisioni tedesche, distese tra la Svizzera e l'Olanda, si lanciano all'attacco di 134 divisioni francesi, britanniche, belghe ed olandesi. Stessi aerei da una parte e dall'altra, stesso numero di carri, anzi con una leggera prevalenza alleata. Alle 6,30 Gamelin dirama i la sua «Istruzione numero 9 personale e segreta», in forza della quale 33 Divisioni franco-britanniche, le migliori, levano di volata le tende e si precipitano in Belgio, incontro «al tedesco», e dentro la rete. Dal Quartier Generale giunge alle truppe il messaggio del Capo: sei righe, nelle ultime due delle quali suona la vecchia alterigia gallica: «Come ha detto 24 anni fa il maresciallo Petain: "Li avremo"». All'alba di cinque giorni dopo, la voce isterica di Paul Reynaud, nuovo primo ministro francese, scoppia nel telefono di un assonnatissimo Churchill: «Nous somnies foutus, nous avons perdu la bataille». La polemica tra le due guerre dovrebbe terminare qui, perché, come dice la Bibbia «vi misero sulle bilance, ed il vostro peso fu trovato scarso». Ma le nazioni non accettano mai che il discrimine tra vittoria e sconfitta sia di natura intellettuale e preferiscono sostituirgli quello della forza. Bruta, possibilmente. Da questa speciale consolazione nascono nel 1940 equivoci immensi, e cambiali in bianco che un giorno o l'altro saremo pur chiamati a pagare.
Data inserimento:Stalin invade la Finlandia e Hitler scatena la forza d'urto della Wehrmacht in giro per l'Europa. Fino all'attacco su Parigi All'alba del 13 maggio 1940, quarto giorno del folgorante attacco tedesco alla Francia, Hitler fa iscrivere nel «Diario» di guerra del suo Oberkommando questa osservazione: «Risulta chiaro che il Comando franco-inglese non ha ancora compreso l'idea essenziale della nostra manovra». Per loro disgrazia, i francesi ci mettono ancora una settimana a capire non tanto l'intima essenza di quell'idea quanto il fatto di aver perso in poche ore un milione di uomini, intrappolati nelle pianure del Belgio meridionale, con il più ed il meglio dei materiali moderni delle loro armate. Gli inglesi, con un riflesso pragmatico tipico del loro carattere, non perdono neanche un minuto a cercare di capire: si disimpegnano e marciano sui porti della Manica, preoccupandosi soltanto di nascondere al mondo ed ai libri di storia che la partecipazione delle loro nove divisioni alla battaglia del Nord si riassume tutta in 500 morti, contro 80mila caduti francesi, 2.900 olandesi e 7mila «braves Belges». Avranno ancora 3 mila morti, ma sulla testa di ponte di Dunkerque o in mare: pedaggio di una fuga, non di una battaglia.Nemmeno Mussolini capisce questa «idea essenziale», con un equivoco pesantissimo che è l'origine prima di tutte le nostre disgrazie. Però è in buona compagnia, perché Stalin dovrà di lì ad un anno assistere alla liquidazione della sua Armata Rossa con le stesse tecniche e per le stesse ragioni che han presieduto alla rovina della Francia. E purtroppo, in quella compagnia ci sono anche gli storici «continentali» di quest'ultimo mezzo secolo, ancora intenti a porsi domande che non conducono a nulla, poiché la Storia, a domande stupide, risponde sempre in modo stupido. Più la verità è semplice, e meno si riesce a capirla.Questa verità, ancora una volta, sta nella modestia territoriale dei piani reali di Hitler, oggi documentabili in modo chiarissimo, così come è documentabile, in Hitler, la completa rispondenza tra mezzi e fini. La Germania del 1939 e del 1940 non ha che limitate possibilità militari, economiche ed amministrative: esse possono consentire la soluzione di alcuni problemi, tutti collocati nell'est europeo, ma non permettono e non permetteranno mai di dare la scalata ad una leadership mondiale. Essa potrebbe esser abbordata col lavoro di parecchie generazioni, con una estensione graduale dei commerci, delle relazioni con una miriade di Stati diversi, con una tessitura militare straordinariamente complessa. Solo un pazzo potrebbe aspirarvi partendo da una base povera, secondaria e ristretta come la Germania. E Hitler, qualunque cosa ne sia stata detta, un pazzo non è: nella sua mente, in questo 1940, l'idea predominante è quella di un accordo indispensabile con l'Inghilterra, coniugata a quella del riconoscimento di una funzione-guida europea per la Germania. Progetto non certo originale: ci aveva già pensato, e contato, Napoleone Bonaparte, e non era il primo neppure lui.La battaglia di Francia e le sue particolarità, come pure le sue successive implicazioni, sono un diorama illustrato della reale posizione della Germania e di Hitler di fronte al problema europeo. Si tratta infatti di arrivare ad una vittoria completa contro forze corazzate che son persino superiori a quelle tedesche attaccanti, e cioè in condizioni che sulla carta appaiono proibitive. Il «colpo di falce per sud» è la risposta intellettuale ad un problema senza soluzioni visibili, ed anche la misura della straordinaria penetrazione del giudizio politico-militare che Hitler pone alla base del suo piano d'attacco. Però egli è anche il primo e forse l'unico a sapere che il margine di rischio è altissimo, e che la partita può essere guadagnata soltanto sul margine delle ore, ed anzi dei minuti. Durante la battaglia controlla personalmente la marcia di ogni singola più piccola unità della Wehrmacht superando in audacia persino l'audacissimo Guderian: interviene nelle inevitabili diatribe tra comandanti, risolvendole - sempre con scelte geniali - nel giro di mezz'ora, ed impone a tutti quel ritmo travolgente che sul terreno militare è un non senso, ma che su quello psicologico si rivela decisivo.Ma la sua paura è grande, proprio perché egli sa perfettamente di non avere le forze necessarie ad una vera battaglia. Al minimo intoppo, lo stesso disordine e confusione che scompaginano ora gli eserciti nemici potrebbero tramutare la promessa di vittoria in una sconfitta irrimediabile. Già dopo dieci giorni le forze corazzate sì sono usurate a livelli operativi inquietanti e gli uomini sono stanchissimi. Le fanterie arrancano con le vesciche ai piedi a centinaia di chilometri dietro le punte corazzate, ed un terzo delle divisioni d'attacco non è ancora uscito dalla Germania. La battaglia rivela comandanti straordinari, come Rommel, ma anche ne consuma troppi col suo fiato rovente, poiché il loro posto di comando è con le avanguardie. Alla testa della settima Panzer lo stesso Rommel vede morire il suo ufficiale d'ordinanza ai guadi della Mosa, a un metro da lui. Una cannonata francese prende in pieno il suo carro, che rotola per una scarpata, obbligandolo ad uscirne, ferito, a quattro zampe. A Guderian tocca la sorte più straordinaria: mentre sta studiando le carte nell'atrio dell'albergo Panorama di un paesino francese, le cannonate staccano dalla parete un'enorme testa di cinghiale, trofeo di caccia, che gli piomba sul tavolo inchiodandogli al legno l'orlo della giubba e la carta.Anche quando il miracolo diventa sicuro, Hitler da vecchio fantaccino delle fangose trincee di Loos ed Ypres, è attanagliato dalla paura che i francesi possano ricostituire una linea arretrata, trasformando il carattere della battaglia e della guerra. Fissa al 31 maggio il secondo tempo dell'offensiva, quello per Parigi e per la vittoria finale, poi si lascia convincere da fatti ineliminabili a spostare il termine al 5 giugno. Ma non consente che vengano distratte forze corazzate per l'eliminazione della testa di ponte anglo-francese di Dunkerque: un «errore» che diverrà pezzo d'obbligo di quasi tutti i raccontatori del dopoguerra, fino ad oggi.Non è un errore. Definirlo tale significa non aver compreso proprio «l'idea essenziale» del blitz, che è quella di un rischio enorme, accettato su un'analisi corretta delle debolezze nemiche, ma non sulla propria forza, che non c'è. Un capolavoro geniale, che si basa quasi esclusivamente sui difetti francesi: sui generali abituati a comandare da lontani castelli con pochi telefoni e molti inservienti in guanti bianchi; sui politici preoccupati soltanto di scaricare l'uragano sulla testa dei nemici personali; su una Armée corrotta dal di dentro da troppi anni di propaganda comunista e condotta da ufficiali che da un gran pezzo non amano più la Repubblica. C'è un episodio esemplare, in questi giorni straordinari, quando Rommel si avvicina cortesemente a due o trecento ufficiali francesi appena arresisi a Montcornet, per sapere se abbiano comunicazioni da fare. Ed essi chiedono di riavere i loro attendenti e le loro cassette d'ordinanza. Senza una parola, le labbra serrate. Rommel gira sui tacchi e se ne va.In quindici giorni, e soltanto nel Belgio, la Wehrmacht ha già fatto quasi 800mila prigionieri, catturando una sterminata quantità di materiale bellico. Potrebbe mettere le mani anche sui 300mila uomini che si accalcano sulle spiagge di Dunkerque, ma se questo costasse anche solo cento dei pochi carri sopravvissuti, ne andrebbe di mezzo la possibilità di liquidare quel che resta dell'esercito francese. Calcolo esatto: sulla linea della Somme e dell'Aisne, Weygand ha imbastito un dispositivo febbrile ma idoneo, con capisaldi «a riccio» potentemente armati di artiglierie controcarro. Si aspetta l'attacco per il 10 giugno, ma una volta ancora la Wehrmacht anticipa di cinque giorni, trovando una resistenza ben diversa e perdite più severe. Non c'è alcun panico, nessun cedimento del fronte, tranne che all'estrema sinistra dove la 51ma Divisione scozzese molla per il consueto riflesso condizionato dei porti. Poi la linea crolla e con essa la Francia, perché questa volta la sproporzione delle forze a danno francese è molto grave. Tuttavia un'analisi accurata dei due dispositivi dimostra facilmente che il ritardo di una settimana o una forza corazzata minore non avrebbero probabilmente variato il risultato finale, però ad un prezzo e con rischi sensibilmente più grandi.Se Hitler lascia scappare gli inglesi (ma comunque altri 150mila rimasti al di là del «colpo di falce» si reimbarcano tranquillamente da Cherbourg e Brest nei giorni successivi), è dunque sulla base della sua paura e del precetto napoleonico del «non fare distaccamenti». Ed inoltre il suo obiettivo è la Francia e non l'Inghilterra. Non la ama, ma la rispetta: soprattutto, pensa che eliminare l'Inghilterra faccia soltanto il gioco dei «piccoli sciacalli» che ne erediterebbero senza fatica l'Impero. Perciò le offre la pace, sulla base di una risistemazione degli affari europei: sempre per questo, non si risolverà mai a dar veramente il via ad un piano di sbarco nelle isole. Nella stessa ottica, usa con la Francia la mano leggera: le lascia la Flotta, non occupa che la metà del territorio, permette che sussista una Repubblica francese a Vichy, collaborazionista, ma sostanzialmente ostile, non chiede annessioni coloniali, intreccia con gli industriali francesi programmi economici sui quali lo sguardo prudente degli storici non si è ancora posato.L'insieme di queste indubitabili circostanze, tutte legate ad una sostanziale debolezza tedesca e ad un conseguente corto raggio dei programmi di espansione, porta di necessità a chiedersi quali ragioni di fondo abbian militato a Londra per la continuazione della guerra. Oggi se ne vedono almeno tre: un corretto apprezzamento della complessiva debolezza militare tedesca, fatto dal War Office durante le «giornate nere» di Dunkerque; la speranza che prima o poi gli Stati Uniti avrebbero dovuto partecipare alla danza; e la quasi certezza che Stalin, di fronte alla vittoria hitleriana, avrebbe dovuto rivedere la sua posizione del 1939. Conclusioni correttissime, ma alle quali occorre aggiungere che uno degli auspicati interventi avrebbe richiesto un prezzo, e che quello da pagarsi a Stalin sarebbe stato elevatissimo: anche se a pagarlo sarebbero state chiamate tutte le nazioni europee, salvo la stessa Inghilterra. Già il 25 giugno 1940, Churchill scrisse a Stalin una lettera, mai del resto resa nota, con istruzioni a sir Stafford Cripps, ambasciatore a Mosca, dirette ad illustrare al dittatore georgiano la buona disposizione inglese a considerare «preminenti nel sud-est europeo gli interessi sovietici», stretti compresi.Non è qui il caso di discutere una questione di fondo sulla quale forse potranno pronunziarsi gli storici tra duecento anni, e cioè se per la preservazione degli interessi di un «Impero pelasgico» come quello inglese, non siano andati mortificati e pressoché distrutti quelli di tutto il resto d'Europa. A noi compete soltanto rilevare che in tale questione Hitler non è in causa se non come elemento terminale di una Storia che batte gli stessi sentieri ben prima di lui, con Guglielmo II, con Napoleone, con l'Olanda e con la Spagna. E compete comunque osservare che la decisione inglese del giugno 1940, per lodevole che sia da un punto di vista britannico e forse anche a termini di morale storica, anticipa Yalta di quattro anni, con le conseguenze di indubbia gravità che abbiamo sperimentato in quest'ultimo mezzo secolo. Ribattere a queste perfino banali constatazioni con l'inaccettabilità di Hitler, significa servirsi di una grossolana truffa psicologica, anzitutto perché nel 1940 le nefandezze del Cancelliere erano ancora di là da venire, poi perché, comunque, esse non erano in nulla diverse da quelle praticate con asiatiche crudeltà dal suo compare e maestro del Cremlino, ed infine perché, come si è detto, il problema di una scelta antitedesca nella politica estera britannica era all'ordine del giorno ben prima che Hitler vagisse nella culla.L'idea di una Germania fortissima ed invincibile folgora Mussolini all'incirca nel momento in cui una Divisione di fanteria tedesca che marcia a piedi, trascinandosi dietro le salmerie su carri a quattro ruote tirati dai grandi cavalli del Brandeburgo sfila modestamente sui Campi Elisi a Parigi, appiccicando via via sui muri grandi cartelli nei quali si vede un soldato che tiene per mano un bambino, e si legge «parigini, abbiate fiducia nel soldato tedesco». Convinto che lo sbarco in Inghilterra sia questione di giorni, e forse di ore, sicurissimo che ad agosto, massimo a settembre, ci si debba sedere al tavolo della pace per spartire un pingue bottino, incalzato da uno sterminato stuolo di «competenti», i quali gli rinfacciano, ora, la decisione di restar fuori dal conflitto presa nel settembre 1939, il Duce mastica amaro per quella che gli sembra l'enormità dell'errore commesso, e per le apprensioni di vario genere che lo assillano: la perdita del favore popolare, il passaggio a personalità di second'ordine dietro all'astro fulgente del Führer, i grossi problemi difensivi di un'Italia a troppo stretto contatto con la rinata potenza militare tedesca. Da questo stato d'animo infelice ed ansioso, che traspare con grande evidenza dal "Diario" di Ciano, nasce la più stravagante delle sue decisioni, quella di entrare in guerra, però senza farla, tradizione italiana che rimonta almeno alla battaglia di Anghiari, dove ci fu un solo morto, disarcionato e rimasto impigliato col piede nella staffa. Fu dunque un errore il suo? E se sì, in quale senso preciso?Fu senza dubbio un errore colossale e senza attenuanti, poiché noi paghiamo i nostri politici appunto perché non ne facciano. Per i dittatori la delega è ancora più completa, e quindi la loro responsabilità è almeno doppia. Tuttavia, non sarebbe giusto sorvolare sui limiti operativi che la forza delle circostanze impone al politico, e forse anche di più al dittatore, benché lo si immagini sempre più libero di far quello che vuole di quanto in realtà non sia. Né si può dimenticare che ogni guerra nasce appunto da un errore di valutazione, da speranze illusorie. Ed infine va tenuta nel debito conto la forte pressione popolare manifestatasi quasi all'improvviso in Italia in quel maggio del 1940; determinata da una mistura di sentimenti assai difficile da raccontare oggi a chi non c'è passato, e fatta di sprezzo per le «imbelli democrazie», di ammirazione per le vittorie tedesche, di confusione mentale riguardo ai metodi migliori per assicurare il futuro nazionale, ed anche di qualche molecola di entusiasmo peor una guerra dall'aspetto facile.C'erano anche i pochissimi che non la pensavano così, perché di fronte alle grandi decisioni di una nazione, i pareri si dispongono secondo quella che un matematico chiamerebbe una «curva di Gauss», o a «lucerna di carabiniere»: da una parte i pochi contrari, dall'altra le altrettanto scarse pattuglie dei fanatici entusiasti, nel mezzo la stragrande maggioranza della popolazione allergica alla speculazione politica, ed incline a formarsi giudizi di genere molto semplice, sulle apparenze immediate. Oggi sembra che i pochissimi contrari avessero ragione, ma la questione non è così semplice, poiché ci son poche cose più sicure di questa: che una guerra persa è persa per tutti, anche per i contrari, per cui si può concludere che in genere non ha molto senso contribuire fattivamente alla propria disfatta. Inoltre, il principio generale di ogni opposizione è e rimane quello di trattare da posizioni di forza, dare qualcosa per ricevere qualcosa: una rinunzia contro una garanzia, un cambio di regime contro un armistizio, una pace contro una colonia, una provincia, una via commerciale.Oggi sappiamo che attorno ad Hitler fiorirono non meno di sedici o diciassette tentativi di colpo di Stato, tutti da parte dei più alti gradi delle Forze Armate. I generali cercavano il contatto con gli inglesi, dicevano di essere disposti a far la festa ad Hitler, e chiedevano come contropartita il riconoscimento del già conquistato, sulla base del «quello che ho, me lo tengo». Quando gli inglesi dicevano di no, i tedeschi si affibbiavano il cinturone ed andavano ad una nuova campagna menando botte da orbi e compiendo al meglio il proprio dovere. Poi, ricominciavano a trattare, forse ingenuamente, ma comunque da soldati.I Carlo Lodovico Ragghianti, i Pirelli, i Marinotti, per non parlare degli Sforza o dei Pacciardi che vanno o si trovano all'estero ancor prima della guerra, seguono un'altra strada, commettendo lo stesso errore, però specularmente opposto, di Mussolini. Il Duce si sbaglia quando decide per la guerra, col sottinteso di non farla: ed essi sbagliano quanto lui, quando chiedono ed anzi supplicano dagli inglesi un aiuto per sbarazzarsi del tiranno, perché ignorano che l'unica strategia rimasta aperta agli inglesi è proprio quella mediterranea. Essi suppongono che gli amici britanni non dormano la notte studiando come si potrebbe fare per strappar l'Italia dalle sgrinfie di Hitler. Ed invece è vero il contrario, come dirà Anthony Eden: «Non ci deve esser alcun ostacolo, tra noi ed i grandi successi che possiamo riportare contro l'Italia». L'errore di Mussolini è grave, ed è grave quello dei suoi avversari politici: insieme suggelleranno passo passo una penosa tragedia di certo non meritata dalla maggioranza del nostro popolo.Sul momento, quello più catastrofico è l'abbaglio di Mussolini. Da buon italiano non vuol rompere cocci, visto che la pace generale è vicina e che ci si dovrà sedere attorno ad un tavolo, come buoni amici. Siccome ha bisogno di qualche morto, ordina a trenta divisioni di attaccare sulle Alpi la Francia morente, guadagnandosi la fama di Maramaldo ed anche quella di imbecille. Persino i ragazzini sanno che il confine francese non è attaccabile in alcun modo, in vista del fatto che i nove decimi della fascia alpina appartengono alla Francia, e che vi son state istallate potenti fortificazioni. E difatti l'impresa, lanciata cinque giorni dopo che Pétain ha chiesto l'armistizio ai tedeschi, si rivela uno straziante guazzabuglio militare: i francesi ce la mettono tutta, non parendo loro vero di rifarsi delle amarezze patite in Belgio sui poveri alpini che vengono a farsi falciare dalle mitragliatrici in caverna. In più, mandano anche i loro incrociatori veloci a bombardare la costa ligure, imbattendosi soltanto in una vecchia torpediniera a quattro fumaioli.Sempre per non rompere cocci, a nessuna passa per la mente di sbarcare a Malta, oppure di penetrare in Egitto, o di marciare dall'Etiopia sul Sudan, il cui governatore inglese scrive al duca d'Aosta una forbita lettera, raccomandandogli, quando verrà a Khartum con le sue truppe, di trattare civilmente i residenti britannici. L'aviazione non bombarda né Alessandria né Malta, e neppure interviene il 3 luglio a disturbare la più discutibile tra tutte le operazioni inglesi: il bombardamento della Flotta francese concentrata in stato di disarmo nel porto militare di Mars el Kebir. C'è il tempo, e ci sono anche i mezzi pur farlo, non foss'altro che per saldare un miglior rapporto coi francesi. Ma la guerra navale non entra e non entrerà mai nel cervello di Mussolini: fatto del quale gli ammiragli profitteranno, a tutto loro danno, per «salvare le navi». Impostazione eminentemente agraria di un problema che esigerebbe, per la sua soluzione, altre teste ed altra sicurezza di giudizi. L'Inghilterra del 1940 è l'Inghilterra perché ha il controllo dei mari, ma esso riposa su una quindicina di grandi navi da battaglia che son già una coperta troppo corta per le esigenze della guerra. Riuscire ad eliminarne un paio, e persino una sola, segnerebbe l'inizio di una inversione nella bilancia navale, ed aprirebbe possibilità molto ampie, non solo nel Mediterraneo ma in tutto il mondo. Dunque, per una flotta inferiore il compito non può essere che questo.L'8 luglio 1940 si assiste invece alla battaglia di Punta Stilo, laborioso scontro che somiglia sgradevolmente alla «crociera del giusto mezzo» del compianto ammiraglio Persano. L'inglese Cunningham viene con tre vecchie corazzate fin sulle coste ioniche della Calabria, e vi incontra due nostre unità parimenti antiquate. Però a Taranto ci sono le due modernissime «Veneto», con un ammiraglio, il Bergamini, che subito ordina di accendere, non parendogli vero di poter piombare ad alta velocità sul nemico. Ma da Roma, Supermarina ordina un perentorio «non uscire», per cui da una possibile superiorità di quattro contro tre, la flotta si trova a doversi battere due contro tre. I danni non sono gravi, ma è probabile che in quella giornata sia andata perduta forse l'unica occasione di bloccare per molto tempo la strategia mediterranea britannica. Come si sa con sicurezza, l'ammiragliato rinunziò ai suoi piani di sgombero dal Mare nostrum soltanto sulla base di Punta Stilo.Il consenso, più o meno sincero, di militari e politici attorno a Mussolini ed alla sua linea di condotta dura sino alla cruciale settimana dal 15 al 22 settembre 1940. Poi vola in pezzi, poiché ora agli occhi di tutti si apre la terrificante prospettiva di una guerra lunga. I tedeschi non sono sbarcati sulle scogliere di Dover, e probabilmente non ci riusciranno neppure nel 1941. Londra non si è piegata sotto il blitz aereo, e la guerra sottomarina non ha spessore sufficiente per compromettere davvero i crescenti aiuti che Roosevelt spedisce ai cugini attraverso l'Atlantico. Dunque non ci sono prospettive, e sarebbe necessario discutere con serietà cosa conviene fare.Le settimane fatali scorrono una dopo l'altra, e nulla di tutto questo avviene. Poi si abbattono sull'Italia quelle tre sconfitte che in pratica la respingono ai margini della guerra.Il 28 ottobre, Mussolini e Ciano, su allucinazioni infantili attorno ad una pretesa corruzione di generali e politici greci, ordinano di attaccare con cinque divisioni l'esercito di Metaxas che ne ha 14. E' la catastrofe albanese: il 4 dicembre, sia pure per un solo istante, sembra che per salvar le truppe dall'esser ributtate in mare, si debba chiedere un armistizio ai greci. L'11 novembre, l'attacco inglese a Taranto dimezza di colpo le nostre forze navali. Il 9 dicembre, 34mila uomini del generale Wawell partono da Marsa Matruh e distruggono in pochi giorni, con loro grande meraviglia, l'intera armata di Rodolfo Graziani, «leone di Neghelli», forte di 150mila uomini e 1.000 cannoni.E' qui, in questo momento, che l'Italia si spacca in due. Mussolini pratica un vero e proprio colpo di Stato, con una irrevocabile «scelta tedesca». Gli altri cominciano a trattare con Londra.
Data inserimento:
29/04/2007
tanti misteri dell'atteggiamento inglese verso l'Italia. Mussolini in Marcia verso la catastrofe Alle nazioni deboli, ed ancor più a quelle che ad ogni tornante storico si paralizzano per l'incertezza di quale direzione prendere, capita spesso di avere anche sfortuna: così come a quelle forti e decise avviene il contrario, senza altro merito che il capriccio del caso, il quale poi, nei libri di storia, viene elevato a doveroso contributo della Provvidenza a favore delle «giuste cause». La guerra italiana dal 1940 al 1945 è un buon esempio delle strazianti stupidità di una direzione politica e militare di certo non all'altezza delle circostanze, ma anche di una permanente sfortuna, matrice non secondaria di grosse disgrazie e di non prevedute ripercussioni.Valga per tutte il raid britannico sulla base navale di Taranto, che era stato previsto dall'ammiraglio Cunningham per il 21 ottobre 1940, e cioè per il 135esimo anniversario della battaglia di Trafalgar, in modo da fornire al depresso morale dei britanni, malconci per le bombe tedesche, qualche motivo di consolazione. A quella data, però, Cunningham dovette rinunziare per un banale incendio sviluppatosi qualche giorno prima nelle aviorimesse della Illustrious, per cui il raid fu messo in atto soltanto nella notte del 12 novembre, dimezzando la nostra flotta da battaglia, e togliendoci quel margine di superiorità navale fino ad allora goduto.Se l'attacco a Taranto avesse avuto davvero luogo il 21 ottobre, di sicuro noi non avremmo assalito la Grecia il 28 dello stesso mese, perché anche la stupidità ha un limite, e perciò non avremmo dovuto sobbarcarci né le perdite né il disdoro internazionale di quella infelicissima campagna. I tedeschi non avrebbero poi avuto motivo di intervenire nei Balcani nell'aprile 1941, e probabilmente non avremmo, noi italiani, subito neppure la triste sconfitta navale di Matapan, nel marzo, né quel bombardamento navale di Genova - il 9 febbraio - al quale comunque deve essere abbinata una seconda sfortuna navale: la nostra Squadra, pur essendo in superiorità di forze, mancò quella britannica per forse due o tre miglia, tra Corsica e Liguria occidentale. A pareggiare il conto del dare e dell'avere, si ebbe il caso straordinario di un proiettile britannico da 381 che bucò il tetto della cattedrale genovese di San Lorenzo, penetrò sin nella cripta e non esplose: una fortuna che, naturalmente, non ebbe la minima influenza sul corso della guerra.Nella sequela di avvenimenti o disgraziati o insoddisfacenti che cominciano per noi con la battaglia di Punta Stilo, i danni peggiori furon non quelli dei colpi che subimmo, ma i loro contraccolpi, specie di natura psicologica. Mano a mano che le buscavamo, gli inglesi si persuadevano sempre più che con altre poche legnate sarebbe stato possibile eliminarci dalla guerra. Nel dicembre del 1940, essi valutarono che sarebbero bastati ancora due mesi di sconfitte per provocare in Italia una rivoluzione e una richiesta di pace. Si sbagliarono grandemente, e questo errore ebbe per loro conseguenze lontane assai importanti. Ma il risultato primo di questo abbaglio fu che il War Office ce la mise proprio tutta, da quel momento in poi, nell'applicare fosforo, mezzi e uomini in una strategia mediterranea ed africana che per noi fu fatale a lungo termine, ma che permise invece ai tedeschi di conoscere i guai di una invasione soltanto quattro anni dopo. In altre parole, con le nostre prime incertezze e sconfitte, l'Inghilterra riuscì a mascherare per lungo tempo la sua incapacità ad affrontare il vero nocciolo della questione, quello tedesco, per schiacciare il quale fu necessario il doppio intervento sovietico e statunitense, con risultati complessivi sui quali, in futuro, occorrerà meditare parecchio. Oggi è troppo presto.Disponiamo, ora, di una bella serie di documenti di fonte britannica che permettono di gettare uno sguardo abbastanza penetrante sull'ondeggiante andamento dei pareri che a Londra si nutrirono fino al 1943 nei riguardi del «problema italiano». Sembrano esaurienti, ma in realtà essi non risolvono un paio di problemi che invece dovremmo considerare preliminari a qualsiasi tentativo di ricostruzione storica. Il primo di essi è senza dubbio rappresentato dal grosso contrasto - qualche volta stridente - tra i pareri del primo ministro e quelli del Foreign Office sia su singoli episodi, sia come linea generale di azione nei riguardi dell'Italia. Da vecchio volpone aristocratico, Winston Churchill cerca prima di tutto di capire, di valutare i pro e i contro, e soprattutto di guardare un po' più in là del proprio naso. Ci sarà un dopoguerra, e non è pensabile cancellare dalla carta geografica una nazione come l'Italia Questa linea possibilista soccombe spesso davanti al gelido odio di Anthony Eden, che ancor oggi attende una buona spiegazione: tale non essendo quella personale, anche se si deve ammettere che questo allampanato e sofisticato ministro degli Esteri britannico aveva avuto dal suo rapporto con l'Italia non poche e non lievi umiliazioni, culminate nel 1938, con un bruciatura fulminante.L'inflessibile volontà edeniana di trasformare l'Italia in una nazione di terz'ordine, nonché in un cumulo di rovine, costituisce dunque un mistero non ancora risolto, che però presenta qualche risvolto addirittura gratificante, dal momento che anche nei rapporti tra le nazioni è assai meglio essere odiati che guardati con indifferenza o derisione. Ma, come mistero, esso è assai meno intrigante dell'altro, cioè di dove mai gli inglesi andarono a pescare quel complesso di informazioni italiane che servì loro di base per l'elaborazione della strategia che si è detta. Noi siamo stati accusati, con ragione, di non aver capito gli inglesi, e poi gli americani, ed infine i russi con la loro durissima determinazione a difendersi e poi a contrattaccare fino all'ultimo sangue. Ma è certamente vero che gli inglesi non capirono noi, proprio come popolo, commettendo un errore tanto più grande quanto maggiore era la loro esperienza politica internazionale, vecchia di quattro secoli.Fu, nei fatti, un autoinganno dalle dimensioni insolite anche per una diplomazia di second'ordine, poiché nasceva da due idee-base compiutamente false: che il popolo italiano fossie «apatico», e persino desideroso di perdere una guerra non sentita, e che, nel caso di una rivoluzione, a prendere il potere sarebbero stati i comunisti. Chiunque abbia vissuto quegli anni, sa benissimo che vi fu pazienza, timore e magari, però molto tardi, rassegnazione al peggio, ma mai apatia. Ed altrettanto bene sa che nel quadro psicologico di ogni italiano, i comunisti non comparvero se non nel 1944, e comunque non prima del 22 giugno 1941, visto che fino a quella data furono casomai impegnatissimi ad aiutare Hitler.Su queste due idee completamente errate, i britanni costruirono un edificio nel quale si stenterebbe a credere se non esistessero i documenti a provarlo. In primo luogo essi studiarono seriamente la possibilità di costituire nella Cirenaica appena conquistata (e più tardi in Eritrea) una «Free Italy», una «Italia Libera», con propria bandiera e Forze armate da trarsi con arruolamenti tra i prigionieri italiani appena fatti in Libia, che erano tanti, ma non così disposti ad un passo che, in quel momento, somigliava ancora troppo ad una diserzione. Era il principio del 1941, e la stragrande massa degli italiani non aveva ancora avuto nemmeno l'impressione di essere in guerra, poiché non erano guerra le lontane cannonate di Bengasi, o di Addis Abeba, o della Val Vojussa. Ai giovani d'oggi, può sembrar strano e nuovo: ma nelle due estati del 1941 e 1942, le spiagge di Viareggio e di Forte dei Marmi, di Rimini e di Venezia furon affollate di bagnanti quanto lo eran state fino al 1939. E' anche vero che il mito di un Mussolini «che ha sempre ragione» era già, se non morto, almeno agonizzante, da quando l'incauto dittatore si era lasciato andare a promettere che avrebbe spezzato lo reni alla Grecia: fu subito battezzato «elmitolo», che era appunto un farmaco che faceva bene alle reni, ma questo implicito ritiro di fiducia, che si verificò all'inizio del 1941, venne più che compensato dall'ottimismo di fondo del carattere italiano. Se Mussolini si era rivelato un pilota deludente, c'era pur sempre lo «stellone» che aveva fulgidamente brillato nella nostra storia, nonostante una ragguardevole serie di sconfitte. E perciò il progetto di reclutare tra i nostri prigionieri addirittura un Corpo d'Armata, comandato - così dicono i documenti - da quel generale Bergonzoli che i soldati chiamavano «Barba elettrica», era davvero un desiderio almeno fuori tempo. E lo rimase fino all'ultimo.Appaiato a questo progetto troviamo quello di ridurre la Flotta da guerra italiana a riparare all'improvvisio in «porto libero», come Tobruck o Massaia, però sotto la protezione britannica. Non c'è dubbio che tra il dicembre del 1940 ed il febbraio 1941 si svolsero caute trattative tra alcuni esponenti della Marina italiana e l'Ammiragliato britannico, tramite l'ambasciata inglese di Stoccolma, retta, in quel momento, da sir Victor Mallet, che dopo la guerra fu, non per caso, primo ambasciatore britannico a Roma, e rinforzata, per l'occasione, dal maggiore del Secret Service Malcom Munthe, figlio del grande medico e scrittore svedese, stabilitosi dal 1932 ad Anacapri, al quale dobbiamo un eccellente romanzo, e forse anche altre cose di genere diverso. Chi scrive si è occupato a lungo di questa intricata e torbida vicenda che non può esser facilmente messa da parte, non fosse altro che per il fatto indubbio che la questione della resa della Flotta da battaglia italiana percorre come un filo rosso e resistente l'intera trama delle trattative armistiziali del 1942 e 1943. E' nostro meditato parere che la Flotta potesse e dovesse costituire una pedina spendibile al tavolo delle trattative, nell'ipotesi di una sconfitta a breve termine, e che forse fosse l'unica veramente valida, poiché, dopotutto, stavamo combattendo contro una potenza navale che sudava freddo nel giustifìcatissimo timore che le sue comunicazioni marittime saltassero all'improvviso. Ma il modo delle trattative fu di certo sbagliato, poiché una Flotta funziona come pedina soltanto se se ne minaccia un uso diametralmente opposto a quelli che sono gli interessi della controparte. Avremmo dovuto dire, ma ci voleva una bella faccia da poker, che non potevamo esimerci dal passarla ai tedeschi, agitando cioè la stessa minaccia che Churchill sventolò con callido candore davanti al naso di Roosevelt, nel giugno 1940, quando il presidente americano gli fece sapere che era meglio riparare la Flotta britannica nei porti americani. Anche in quel momento, «Winnie» non dimenticò di essere un vecchio volpone e ricattò spietatamente l'amico d'oltre Atlantico, rispondendogli che purtroppo, nel caso di una pace o di un armistizio, la Flotta avrebbe dovuto passare ai tedeschi.Poiché queste son considerazioni piuttosto ovvie, il mistero delle trattative «navali» tra noi e gli inglesi rimane ancor oggi poco penetrabile. E questo sarebbe ancora il male minore, visto che ormai la cosa riguarda soltanto gli storici, se non fosse per i riflessi operativi che gli accordi o le trattative poterono esercitare sulla condotta della guerra in mare. Nei documenti inglesi si trovano accenni espliciti a promesse di una condotta di guerra navale non aggressiva, che sarebbero state fatte, appunto all'inizio del 1941, da alcuni ammiragli in cambio di un trattamento «dolce» al momento della pace. E questa è storia ben altrimenti inquietante, poiché la stessa invasione del territorio nazionale dipese in larga misura dalla inefficacia globale del nostro contrasto navale negli anni precedenti. Detto in altro modo, risulta oggi chiaro che «forse» fu errato il modo di condurre le trattative, ma che «certamente» fu un grave sbaglio farle precedere da un atteggiamento rinunziatario. Una ingenuità che proprio gli inglesi, abituati prima a sparare e poi a discutere, non avrebbero mai commesso. Quando si scrive di queste vecchie e ambigue cose, da parecchie penne sgorga automaticamente la parola «tradimento». Tranne che in alcuni casi ben chiari, in genere basati sul denaro, questo facile termine va però usato con molta precauzione e serenità, poiché non si può negare a un generale o a un ammiraglio, durante una guerra lunga e difficile, il diritto di nutrire un parere opposto a quello del proprio governo, e di comportarsi in conseguenza: accettandone le responsabilità e correndone i rischi. Su questo punto sono difatti tutti d'accordo, oggi, nel rimproverare ai militari di Mussolini appunto di aver obbedito ad ordini «ingiusti», o di non essersi dimessi dalle cariche, rifiutando di eseguirli.Ma il diavolo è brutto, proprio perché è sveltissimo a rientrare dalla finestra, rappresentata, in questo caso, dai draconiani divieti che i militari ricevono, in tempo di pace, di occuparsi di politica: essendo loro compito - a quanto si ripete un giorno sì ed uno no - soltanto quello di eseguire gli ordini emanati dal potere legittimo. Col naturale divieto di andare ad indagare su cosa è un potere «legittimo». E forse è un bene che sia così, poiché al giorno d'oggi i governi realmente legittimi sono mosche bianche: sarebbe un gran guaio se, per esempio, un ufficiale dell'Armata Rossa si ponesse seriamente il quesito della legittimità del suo governo, o se lo ponesse uno spagnolo, o uno jugoslavo e magari un italiano, visto che sulla tunica bianca, rossa e verde della nostra Repubblica qualche macchiolina c'è rimasta. Così, è molto difficile giudicare equamente sulle motivazioni che spinsero durante la guerra i nostri «peace feelers» a ricercare formule di salvataggio, così come è difficile, se non impossibile, stabilire cosa ci sarebbe alla fine successo se queste trattative non ci fossero state. Però, con quasi mezzo secolo di riflessioni nel mezzo, è forse possibile tirare due conclusioni imparziali. La prima delle quali è che nella sua stragrande maggioranza, l'insieme della popolazione italiana combattè l'ultima guerra senza mai porsi davvero il quesito della sua giustezza o meno. Lo fece con disciplina, con coraggio e molte volte con grande valore, sia tra i soldati che tra i civili e naturalmente con una stanchezza crescente. Per tutti coloro che hanno a cuore non gli arzigogoli e gli errori della politica, ma il grado di salute vitale di un popolo, va detto che la prova fornita dal nostro può esser iscritta a giusto titolo nel patrimonio storico della nazione: più e meglio di quanto non possano fare altre. Dimenticarsene è ingiusto, sciocco, ed anche pericoloso.L'altra conclusione ci riporta ai motivi profondi degli errori di apprezzamento fatti dagli inglesi nei nostri riguardi. Nello sbagliare, è evidente che i britanni fecero davvero grande economia di fosforo, ma è altrettanto chiaro che i loro interlocutori italiani, tranne forse un caso o due, furono di un livello intellettuale cosìi basso da aggravare fatalmente il loro errore di base. Nessuno dei venti o trenta «messaggeri di pace», fin qui identificati con pazienti ricerche storiche, riuscì mai a proporre formule ragionevoli per la cessazione delle ostilità, e tutti fecero il colossale sbaglio pregiudiziale di professarsi antifascisti e come tali interessati alla defenestrazione di Mussolini, anche se questo fosse costato la sconfitta. «Perdere per vincere» fu la formula prediletta di industriali come Marinotti, di oscuri generali come Gustavo Pesenti, di militari sconosciuti come la Medaglia d'Oro Cabruna. ex compagno dì volo di D'Annunzio, di semplici commercianti come il trasportatore Pier Busseti. In questa categoria rientra certamente un ammiraglio, che ebbe la franchezza di mettercisi e di raccontarlo dopo la guerra: in questo distinguendosi da altri, che preferirono e preferiscono mantenere il silenzio, quasi che il trattare col nemico durante una guerra infelice sia davvero una vergogna, mentre invece non lo è, salva s'intende la buona fede. E non lo è neppure se si commettono gravi errori, o si agisce con dosi inammissibili di ingenuità, come per esempio accadde al Duca d'Aosta, nobile e simpatica figura di italiano che, posto in un momento difficilissimo a salvaguardare al meglio non solo il nuovo Impero ma anche le nostre vecchie colonie, dimostrò l'altrettanto nobile ingenuità di fidarsi delle ben calcolate promesse che gli furon fatte pervenire, sullo scorcio del 1940, da alcuni generali inglesi, spediti nel Sudan contro di lui proprio perché eran stati suoi compagni di scuola al Saint Andrews College. Al Duca parve di capire che sarebbe stato lasciato in armi in una specie di ridotto centrale, nel quale tutti, amici e nemici, avrebbero atteso l'esito finale della guerra, per poi decidere sul destino delle colonie, e, forse, anche su quello della monarchia. Fu per tali promesse che egli salì sull'Amba Alagi, salvo accorgersi che in guerra anche gli accordi tra gentiluomini sono un'arma, non molto nobile, ma efficace. Va da sé che in tal modo le cospicue forze nostre, esistenti in quella terre, non esercitarono la minima influenza sull'andamento del conflitto: impiegando soltanto un paio di divisioni, gli inglesi spazzarono via 600mila uomini, 401 aeroplani, ed un bel gruppo di unità navali, nella metà del tempo che era stato necessario a Badoglio per conquistare l'Etiopia, appena cinque anni prima. In questo deludente bilancio, troviamo però la perla di Cheren: una battaglia di cinquanta giorni che abbiamo il torto di esserci completamente dimenticata.L'intera storia delle trattative sottobanco acquista una sua spiegazione, ed anche una sua giustificazione, quando la si connette da una parte al fatto che nel dicembre 1940 l'Italia aveva già dimostrato, ed in modo lampante, di non essere in grado di sostenere un vasto, complesso e pericoloso conflitto di taglio moderno; e dall'altra, alle reazioni quasi automatiche che Mussolini ebbe quando la realtà lo pose di fronte al problema di una scelta definitiva, quella stessa che egli aveva evitato nel 1939, e poi ancora nel giugno 1940, entrando in guerra con la sicurezza che essa sarebbe finita in tre mesi, Errori gravissimi, ma non molto diversi da quelli commessi, in centinaia di occasioni storiche simili, da altrettanti uomini di governo, ivi compresi quei ministri italiani che nel 1915 avevano firmato la cambiale in bianco del Patto di Londra, persuasissimi - anch'essi - che la guerra sarebbe durata poche settimane. Da questo punto di vista, è assai probabile che l'Italia del 1940 avrebbe commesso più o meno gli stessi errori qualunque fosse stato in quel momento il governo in carica. Quelli, o altri di segno opposto: ma pur sempre errori dalle conseguenze catastrofiche.Alla fine di quell'anno veramente fatale, accadde però un qualcosa che forse non si sarebbe verificato con un altro regime, poiché Mussolini attuò un vero e proprio colpo di Stato, liberandosi di quella opposizione interna che pur c'era, sovvertendo i comandi militari, ed imboccando risolutamente la via della guerra non più «parallela», ma ormai in stretta unione, e meglio sarebbe dire dipendenza, con la Germania. Tra il 17 ed il 18 gennaio 1941, i vertici fascisti furono squassati da un vero e proprio terremoto: vennero spediti al fronte tutti i membri del Gran Consiglio, tutti i ministri, compreso quello dei Lavori Pubblici, e più di 250 consiglieri nazionali. Furon prese anche altre misure, per esempio a carico dei Servizi Segreti, sulle quali nessuno storico si è mai soffermato: e forse Mussolini prese anche altri contatti, sui quali esiste qualche debole indizio.Mancò dunque la possibilità di far concorrere alla soluzione del dilemma quella parte della dirigenza fascista che, bene o male, si era fatta una lunga esperienza delle cose nazionali ed internazionali, e dietro la quale stava, coi suoi consigli e le sue critiche, l'intera classe dirigente italiana: aristocratici ed industriali, scrittori ed uomini di pensiero, vecchi militari e vecchi politici non insensibili, nonostante il fascismo, alla gravita dell'ora. In una parola, decise in quel momento e davvero il solo Mussolini, e su un piano strettamente umano è interessante constatare che egli compì questo negativo «salto di qualità» per la specialissima paranoia che spesso affligge gli uomini molto intelligenti: egli pensò davvero che tutti gli altri avessero torto e che spettasse a lui, unico veggente in un mondo di ciechi, di trarre la nazione, e se stesso, a salvamento.Era già una decisione catastrofica, ma Mussolini ne ampliò le dimensioni dilapidando il nostro già scarso potenziale militare ai quattro venti, quasi l'Italia fosse davvero una Potenza imperiale, necessitata ad esser presente dappertutto. La dominante ossessione di Hitler, in quegli anni, fu quella di non disperdere le proprie forze, ed un mucchio di grandi e piccole nazioni fece i salti mortali per circoscrivere i propri rischi, dichiarando la guerra a questo, ma non a quello, e comunque cercando di non bruciarsi, mai, più della punta del mignolo. Mussolini credette nei tedeschi come altri credettero negli inglesi, o nei russi. Politicamente non fa differenza, se non per coloro che sono abituati ad aspettare la fine del film per indovinare la soluzione del giallo. Ma il «modo» in cui Mussolini credette è davvero in linea con la progressiva paranoia di cui si diceva, poiché egli mise sulla bilancia tutto quello che aveva, senza lasciarsi alle spalle nessuna via di ritirata.Alla fine del 1942, il nostro ancora antiquato Esercito aveva 34 divisioni nei Balcani. 5 in Provenza, 11 in Russia e 4, difficilmente recuperabili, in Sardegna, Tutte pedine fuori gioco, e di nessunissimo peso sull'andamento globale del conflitto, ma in compenso assai utili al Comando tedesco per risparmiare forze proprie. Dichiarammo guerra a tutti, persino al Brasile, in omaggio ad una Alleanza che avremmo comunque servito assai meglio con una condotta di guerra più accorta e più seria. Non c'è alcun dubbio che alcune tra le «teste fini» fasciste, che non eran poi molte né particolarmente fini, si accorsero già nel 1940 e inizio del 1941 che Mussolini rappresentava ormai un drammatico ostacolo sulla via degli interessi permanenti d'Italia. Grandi scrisse quel suo ordine del giorno che avrebbe poi presentato il 25 luglio del 1943 in gran consiglio già nel gennaio o febbraio del 1941, tra le montagne d'Albania, dopo consultazioni informali con altri ministri e gerarchi come lui mandati al fronte. Nello stesso momento ammiragli, generali ed industriali più o meno autorevoli cominciarono a cercare una via d'uscita. Le grandi vittorie tedesche dell'estate 1941 interruppero i tentativi, nella rinnovata speranza di una celere vittoria globale. Ma all'alba del 1942, e poi con sempre più frequenti episodi, le trattative ripresero, sempre col loro carattere discontinuo e di basso livello. Purtroppo per l'Italia, in quegli anni non era emersa, né da noi né all'estero, una classe politica veramente alternativa, capace di prendere in pugno una situazione fallimentare e di limitarne i danni al minimo possibile. Peggio ancora, la fase finale delle trattative, quella che condusse al colpo di Stato del 25 luglio ed all'armistizio, fu resa possibile quasi esclusivamente per l'appoggio che ricevette - ma per interessi non certo italiani - dall'Unione Sovietica, in quel momento assoggettata ad una usura crescente che rendeva impossibile prevedere se e quando la Germania avrebbe potuto essere sconfitta davvero. Nella tormentosa attesa di un «secondo fronte» che non veniva mai, a Stalin rimanevano assai poche carte da giocare: una di esse fu il cambio di fronte italiano.
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Le tante contraddizioni della campagna di Russia . E gli «avvertimenti» di MolotovLe verità più sconvolgenti della Seconda guerra risiedono nella statistica: scienza che gode di ingiustificato disprezzo proprio da parte di coloro che la temono, appunto perché contro i numeri non c'è arzigogolo che tenga. E difatti, nessun arzigogolo può mutare il fatto che tra il 1939 ed il 1945 gli Alleati occidentali abbiano perduto, morti in battaglia, 997mila uomini contro i 3.113.000 (Italia compresa) del primo conflitto. Dunque, un prezzo limitato, che lo diviene ancora dì più se si tien conto del grande aumento delle popolazioni tra le due guerre, e del fatto che nei cinque anni e mezzo dell'ultima i deceduti per cause naturali sull'insieme delle stesse popolazioni alleate possono esser valutati almeno a 30 milioni di persone, serbatoi umani «colorati» compresi. Va da sé che quella di un soldato in guerra è una morte biologicamente importante, poiché colpisce soltanto maschi, in più accentrati in poche classi di età, sottraendo alle nazioni energie ed intelletti freschi ed in certa misura insostituibili. Considerazione che, nel secondo conflitto, spiega molto bene - lo si è già detto - la pressoché universale tendenza di popoli e Stati Maggiori ad evitare con ogni cura le sanguinose «caldaie per salsicce» del primo.La terrificante eccezione a questo quadro, dopotutto non così negativo come i pacifisti a oltranza vorrebbero dipingerci, è rappresentata dalla «catastrofe demografica» sovietica, che per molti versi potrebbe da sola anche spiegare quanto oggi sta accadendo sotto i nostri occhi in un Paese che probabilmente ha cessato di essere una grande potenza proprio per aver accettato, o subito, una guerra allo scopo di confermarsi tale. Destino non dissimile da quello di un altro impero plurinazionale: l'Austria-Ungheria, scomparsa dalla carta dell'Europa anche, e forse sopratutto, per il tragico salasso di un milione e 200mila morti in battaglia.Fare i conti addosso all'Unione Sovietica è impresa allucinane poiché - e tanto per cominciare - non sappiamo neanche a quanto in realtà ammontasse la sua popolazione alla vigilia della guerra, dopo le terribili perdite di quella civile, della collettivizzazione forzata nelle campagne, e soprattutto dopo le «purghe» staliniane. Come è noto, il censimento del gennaio 1937 venne annullato e la Commissione di statistici che lo aveva organizzato fu probabilmente fucilata al completo «per grossolane violazioni alla scienza». Sembra però che queste violazioni consistessero nel fatto che la popolazione sovietica non era risultata superiore a 147 milioni di abitanti, con un «ammanco» di circa 20 milioni di unità rispetto alle stime. Nel gennaio 1939, si disse che la popolazione era salita a 170 milioni di uomini e donne, divenuti 193 dopo le forzate annessioni di mezza Polonia, degli Stati baltici, della Bessarabia e parte della Bucovina rumene. Naturalmente, è possibilissimo che non ci sia stata alcuna variazione, tranne quella delle annessioni del 1939 e 1940, ed anzi è stata avanzata l'ipotesi, legata a complessi calcoli sull'imperversare delle «purghe», che il totale delle popolazioni propriamente russe nel 1941 non fosse in alcun caso superiore a 140 milioni di unità.Bisogna fare un salto di venti anni, per trovare un altro censimento sovietico, quello del gennaio 1959, che quota a 209 milioni il complesso delle vecchie popolazioni più quelle di nuova acquisizione. Anche qui, mancano sulle stime - eseguite tenendo conto delle perdite attribuite alle «purghe» e di quelle belliche - almeno venti milioni di unità, e questo può essere spiegato soltanto in due modi: o con la deliberata menzogna del 1939, oppure con un impatto ancora più drammatico delle perdite dovute alla brutale repressione poliziesca tra il 1937 ed il 1953, dal momento che i caduti in battaglia non possono aver ecceduto un certo livello, anche se altissimo.Se si tien conto del fatto che l'Urss, nei primi quattro o cinque mesi di guerra con i tedeschi, perse più di tre milioni di prigionieri nonché le regioni più popolate, come tutta l'Ucraina, mezza Russia Bianca, più quelle di recente acquisto, subito si vede che le perdite in battaglia finirono per gravare su un gruppo di popolazioni enormemente più ristretto di quello teorico, forse non superiore a 100 o 110 milioni di unità, visto che i tedeschi, alla fine del 1942, dichiararono di controllare una popolazione sovietica di 88 milioni di persone. In altri termini, a sopportare la più gran parte del massacrante peso di una lunga guerra fu soltanto una «mezza» Russia, anche se l'altra mezza dovette vedersela con un occupante non certo tenero.Queste cifre e le derivanti considerazioni han cominciato a trapelare soltanto da poco tempo, come risultato di studi molto severi, resi assai ardui per la pesantissima coltre di silenzio mantenuta dai russi, e con mano di ferro, sulla loro storia interna degli ultimi sei decenni. Usato esattamente come un'arma, questo silenzio ha giocato un ruolo decisivo, permettendo alla Russia di raggiungere dal 1945 in poi quel ruolo determinante nella politica mondiale che mai le sarebbe stato riconosciuto se la tragica realtà della sua catastrofe fosse stata chiaramente e subito percepita. Nel maggio 1945, l'Unione Sovietica aveva gettato nella fornace le ultime riserve disponibili, e perciò non era più nelle condizioni di trarre un reale vantaggio dalla sua stessa vittoria. Se ottenne molto, che però era soltanto una parte di ciò che avrebbe voluto, fu per un fatale errore di apprezzamento che gli occidentali commisero nel valutare la sua forza reale: la stimarono grande, mentre invece essa non esisteva quasi più. L'urto con la Germania si era rivelato mortale.Oggi, siamo in grado di misurare con precisione l'imponenza della catastrofe dallo scarto tra il piano espansivo sovietico del 1939 e la sua più modesta attuazione del dopoguerra, agevolata - occorre sottolinearlo - da una sconfitta tedesca che nel 1939 Stalin poteva desiderare, ma non prevedere. Da questo confronto emerge chiaramente che nel 1945 e seguenti mancò in effetti all'Unione Sovietica la forza necessaria a risolvere davvero tutti i problemi che da gran tempo erano iscritti nel suo carnet: li conosciamo, perché essi vennero sciorinati sotto gli stupefatti occhi di Hitler, nel novembre 1940, dal ministro degli Esteri russo in persona, a Berlino.In quella occasione Molotov, che già si era messo in tasca la sua parte di Polonia, Bessarabia e Bucovina, nonché la nuova Repubblica Carelo-Finnica e punti strategici importanti ex finlandesi, delineò con «brutale chiarezza» cosa intendeva l'Unione per «sicurezza»: annessione completa della Finlandia, riacquisto anche della «mezza Polonia» rimasta in mano tedesca, controllo dei passaggi d'uscita dal Baltico al Mar del Nord mediante un Trattato a due con la Danimarca, passaggio della Svezia a Stato cuscinetto sotto influenza sovietica, istallazione di basi militari ai Dardanelli ed in Turchia, passaggio nell'orbita geo-politica di Mosca della Romania, Bulgaria, Jugoslavia e Grecia. Alcune di queste pretese furono avanzate da Molotov per esercitare una pressione diretta a far trangugiare ai tedeschi un prezzo più ridotto: ma non c'è dubbio che il problema generale dell'espansione sovietica poggiasse in quel freddo autunno 1940 sui «punti dolenti» di ogni politica russa ante-Rivoluzione, e cioè sui mari caldi, con una doppia spinta verso l'Oceano Atlantico al nord, e verso il Mediterraneo al sud. Ne abbiamo una riprova certa dal passo che Molotov fece immediatamente dopo l'attacco tedesco, quando propose agli inglesi una occupazione mista della Norvegia del nord. E' interessante osservare che questa linea di tendenza sovietica sembra attiva ancora ai giorni nostri: tra tutte le apprensioni che il Comando della Nato nutre, quella di un'occupazione istantanea da parte di una divisione eliportata sovietica della parte norvegese deserta attorno a Capo Nord, ha una sicura priorità.L'ampiezza di questi orizzonti spiega oggi benissimo, senza bisogno di ulteriori prove, che comunque abbondano, le ragioni per le quali Hitler si risolve il 5 dicembre 1941 a dare il via a quel Piano Barbarossa, al quale del resto sta febbrilmente pensando praticamente da sempre. Ma altrettanto bene spiega come soltanto l'attacco tedesco abbia di fatto impedito alla Russia sovietica, depauperandola della gran parte della sua forza iniziale, di raggiungere in Europa e nel mondo una base geografica così estesa da essere in pratica irreversibile. Qualunque cosa possa essere argomentata oggi, sta ed è di fatto che la «scelta» di Hitler fu tutto meno che una scelta. Soltanto storici profondamente disonesti possono negare che nel 1939 e seguenti il vero problema europeo fosse quello di come contenere, e possibilmente annullare la spinta espansiva sovietica: che poi era nient'altro che la riedizione modernizzata di un «peso» russo crescente da alcuni secoli. Ed occorre un bel grado di capziosa distorsione dei fatti per non riconoscere che gli ultimi 44 o 45 anni di relativa pace sono in gran parte dovuti a quella che potrebbe benissimo essere definita la «sconfitta biologica» dell'Unione Sovietica nella Seconda guerra. Così, del resto, era avvenuto dopo il 1917: e se è vero che ci son voluti due grandi conflitti per fermare, provvisoriamente, le forti pulsioni espansive tedesche, non e meno vero che col complesso meccanismo interno dei due conflitti è stata bloccata - forse per sempre - una marcia verso il cuore d'Europa delle genti dell'Est incombente da secoli, salita, in questo, ad un forte grado di pericolosità.Lo stesso errore di valutazione commesso da Hitler alla vigilia di Barbarossa, del resto comune a tutti gli Stati Maggiori occidentali, testimonia sulla gravita del pericolo reale rappresentato non tanto dalle forze armate di un Paese, come la Russia, non famosa per il rigore del suo pensiero militare e di certo incapace, almeno sino a quel momento di allevare uno Stato Maggiore professionalmente all'altezza dei tempi, quanto per i caratteri specifici delle masse in gioco, per la smisurata area geografica teatro dello scontro, per gli stessi lineamenti dell'industria sovietica, inadatta a sfornare prodotti di qualità, ma in compenso più che pronta a saturare il campo di battaglia con decine di migliaia di mezzi corazzati, aerei e cannoni non eccezionali ma comunque adatti, nella loro ruvidezza, ad un ruvido conflitto, fatto di fango, neve e freddo polare. Col suo fiuto innegabile, Hitler lo confessa; a pochi intimi, ma lo confessa: «Per me è come se spalancassi la porta su uno spazio buio, mai visto, senza sapere cosa si nasconde dietro».Le valutazioni dell'Oberkommando, a due mesi dallo scoppio della guerra, puntano su una forza sovietica di 171 divisioni di fanteria, 36 di cavalleria e 34 brigate motorizzate o meccanizzate, per un totale di 247 Grandi Unità, tutte nella Russia europea e con una disposizione tale da far pensare ad una imminente ripresa di operazioni contro la Finlandia, come pure ad una spinta in direzione della Romania-Jugoslavia. Nella realtà, c'è un errore, perché nei primi trenta giorni di operazioni si identificano al fronte almeno 360 divisioni, nessuna delle quali di nuova formazione. Comincia qui un grosso mistero, sul quale gli storici militari indagano ancora oggi, poiché nessuno dei dati complessivi forniti avaramente dai russi, allora e poi, coincide con la realtà del campo di battaglia. Secondo la "Storia della Grande guerra patriottica", l'Armata Rossa conta, il 22 giugno 1941, soltanto 4,7 milioni di uomini, la metà dei quali schierati di fronte ai tedeschi: ma neppure con la prima cifra sarebbe possibile tenere in piedi ad effettivi di guerra le 247 Grandi Unità che si son citate, e men che meno le 360 rivelatesi nei fumi della battaglia, anche se si tenesse conto del milione di povere reclute che lo Stato Maggiore sovietico riesce a spedire al fronte prima della fine di luglio. «Carne da cannone», scaricata dai treni quasi sulla linea del fuoco, in abiti civili, con le valigie di cartone in mano.Contro questo «buio oltre la porta», la «Wehrmacht» scaraventa 152 divisioni d'attacco, supportate da una quarantina di Unità finlandesi e rumene di dubbio valore. Le previsioni sono rosee: si conta di liquidare in una specie di «super Canne» il nocciolo centrale delle forze sovietiche entro i primi trenta giorni, e di proseguire poi l'avanzata sino ad una linea «AA» da raggiungersi a settembre. Essa corre all'incirca per gli stessi luoghi già raggiunti dall'esercito tedesco alla fine del 1917, e rappresenta il limite massimo oltre il quale Hitler non intende spingersi. Istallato su questa linea di osservazione e di sicurezza, convertirà le forze tedesche ad una dimensione navale per risolvere la guerra con l'Inghilterra, sia sugli oceani che nel Mediterraneo, quand'anche volessero partecipare al ballo gli Stati Uniti. Tutto dunque riposa sull'annientamento dell'Armata Rossa.Poche pagine della storia militare di tutti i tempi son così incredibili come quella che vede la distruzione delle forze sovietiche entro la fine del settembre 1941. In una serie di battaglie d'accerchiamento lungo l'intero fronte di quasi 2mila chilometri, i panzer e le arrancanti fanterie tedesche catturano o uccidono due milioni e mezzo di uomini, con un bottino di 22mila cannoni, 18mila carri, 14mila aeroplani. Ma il mondo di allora non crede a queste cifre, e del resto non ci crede neppure oggi. Ammetterle, significherebbe innescare un processo di revisione globale, che dovrebbe partire dal riconoscere i due errori, stragici, commessi da Stalin: la distruzione morale dell'Armata Rossa attraverso una «purga» forsennata tra il 1937 ed il 1940, e la sua incapacità politica a valutare correttamente la posizione senza uscita di Hitler e quindi la conseguente fatalità di un attacco tedesco all'Unione. Ovviamente, il primo di questi due errori fondamentali comporta anche la necessità di un giudizio ben preciso sulla irrazionalità di ogni rivoluzione, ed in particolare sul «costo mortale» di quella sovietica. Mentre il secondo è assai adatto ad illuminarci sui pericolosissimi limiti di ogni autocrazia russa; così come era successo a Nicola II, anche a Stalin accadde di scambiare per realtà i propri pregiudizi. Ritenne che il comportarsi da ricattatore a sangue freddo con un altro ricattatore a i sangue freddo sarebbe stato pagante. Ma Hitler era qualcosa di diverso, e quello dì Stalin fu un bel granchio, dalle conseguenze letali.Come tutti sanno, ai folgoranti successi estivi della Wehrmacht, corrisponde un grigio autunno, tutto occupato in grosse diatribe di comando sulla direzione migliore da prendere per il proseguimento dell'offensiva, ed un inverno spaventoso, nel quale per poco le truppe di Hitler non vengono a loro volta disfatte quasi sotto le mura di Mosca. Le ragioni di questa straordinaria inversione delle fortune sono molte e son state spesso elencate con minuzia di dettagli tecnici, climatici e psicologici. Ma la vera, e forse l'unica capace di spiegare tutto, è che quello tedesco è un esercito occidentale, con mentalità, riflessi condizionati ed esigenze occidentali: costretto invece a vedersela con un esercito ancora di tipo orientale, capace di combattere una guerra inverosimile, sia per una strabiliante capacità di morire senza un lamento, sia per l'indifferenza ugualmente strabiliante per un minimo di organizzazione del campo di battaglia. Nell'Armata Rossa non si contano né si seppelliscono i morti, non si curano i feriti, non si scrive alle famiglie, non si mantengono né collegamenti né linee di rifornimento. Il disordine è massimo, le perdite spaventose, i risultati minimi: ma è questo stesso disordine che disorienta il Comando tedesco, al quale continua a sfuggire la possibilità di valutare esattamente il residuo potenziale nemico.Il bello è che lo «Stavka», Comando supremo russo, e lo stesso Stalin. versano nelle stesse ambascie. Si fucilano dozzine di generali, sì impartiscono ordini draconiani, ma ad ottobre la situazione appare così disperata da indurre Stalin ad elemosinare dagli inglesi l'invio di venti divisioni, «che sarebbero le benvenuto in qualsiasi punto del fronte».Il freddo polare di quell'inverno eccezionale - per il quale i casi di congelamento del liquido cefalo-rachidiano e del tratto terminale dell'intestino per i disgraziati costretti ad evacuare all'aperto, si contano a migliaia - fa il resto: quando sul fronte di Mosca compaiono le 18 divisioni richiamate dall'Estremo Oriente grazie alla neutralità giapponese, i tedeschi son costretti a mollare. Nella città, evacuata con ineguagliata velocità da Stalin e dai suoi, i plotoni della Nkvd fucilano gli sciacalli, mentre nella accerchiata Leningrado un milione di uomini e donne comincia lentamente a morire di fame, in una vicenda così atroce da non avere alcun riscontro nella storia moderna.La primavera del 1942 porta ai russi la sgradita sorpresa di una Wehrmacht miracolosamente rinata dalle sue ceneri. Non se ne accorgono subito, persuasi di poter passare facilmente all'offensiva contro un nemico già severamente punito. Lo Stavka organizza tre attacchi di concezione brutale e di caotica esecuzione in Crimea, sul Volkov ed a Karkov: tra l'aprile ed il maggio, falliscono tutti e tre con perdite gravissime, specie a Karkov, dove Timoscenko sborsa di tasca propria 240mila prigionieri e più di mille carri. L'inettitudine del Comando centrale è così palese che il generale Vlassov, perduta la sua Armata sul Volkov, rifiuta di salvarsi con un aereo e si consegna ai tedeschi: organizzerà un esercito anticomunista di milioni di uomini, e finirà fucilato da Stalin appena finita la guerra.Nel giugno 1942, la Wehrmacht riparte ventre a terra, e per un pelo non salda il conto definitivo al suo avversario. Il «colpo di tuono» di von Bock, sostenuto questa volta da una reale superiorità numerica (ma non qualitativa), nelle forze corazzate, disgrega le Armate sovietiche e le volge in una fuga precipitata che a luglio assume i caratteri di una rotta senza freni. Il momento è terribile, e l'Unione, lo stesso Stalin, oscilla incerta sulla doppia alternativa, armistizio o rovinosa prosecuzione della guerra. Piantando i suoi acquosi occhi in quelli del segretario di Stato americano, Molotov avverte che se gli alleati non procederanno subito ad aprire il «secondo fronte», l'Armata rossa «dovrà riconsiderare la propria posizione».Sulla perentorietà di questo dilemma, e su tutto ciò che ad esso consegue, oggi si preferisce sorvolare. Ma sta di fatto che l'Unione, in questo preciso momento, misura con freddezza che, se anche sarà possibile resistere su ipotetiche posizioni comunque molto arretrate, sarà invece impossibile battere l'enorme superiorità professionale della Wehrmacht senza un decisivo contributo alleato all'Ovest. Se gli Alleati sbarcheranno, il nuovo fronte assorbirà un minimo di 50 divisioni tedesche, che dovranno esser fatalmente ritirate da quello russo. Se non sbarcheranno, bisognerà venire a patti: ad agosto, si son già perse decisive fonti di materie prime, e le forze tedesche dilaganti nel Caucaso profilano un'agghiacciante minaccia anche sul petrolio. Molte industrie, spostate verso gli Urali, stanno decollando faticosamente in mezzo a difficoltà d'ogni genere: ma soprattutto cominciano a mancare uomini, perché nei quattordici mesi trascorsi dall'inizio della gigantesca lotta, l'Armata ha perduto ormai quasi dodici milioni di soldati, tra morti, feriti e dispersi, al ritmo di 28mila al giorno.Vi son prove che nell'agosto 1942 Stalin abbia meditato a lungo sul miglior partito da prendere, giustamente persuaso che i tedeschi non avrebbero potuto avanzare nel cuore della Russia sterminata molto più di quanto non avessero già fatto. Se la decisione fu di continuare, essa senza dubbio fu presa per ragioni politiche: il regime non avrebbe probabilmente superato una riedizione della pace forzosa di Brest Litovsky. che Lenin aveva potuto imporre soltanto perché si trattava di liquidare «la sporca guerra zarista». E poi, a costringere sulla via della lotta ad oltranza c'erano anche manifesti segni di disgregazione nelle truppe, di indecisione nei generali, e sintomi di cedimento anche in alcuni Soviet, come quello di Leningrado. Il poco che ne è trapelato basta a disegnare un quadro da «malattia terminale», che del resto è identico a quello che gli Stati Maggiori alleati si fecero nello stesso momento. Nessuno, né a Washington né a Londra, avrebbe allora scommesso un soldo sull'avvenire della Russia sovietica: tutti i piani che vennero stesi in quel momento, risentono di questa convinzione assoluta, ed ancora una volta essi furono rivolti contro di noi, poiché il Mediterraneo, in caso di sconfitta russa, sarebbe rimasto l'unico teatro possibile per una prudente prosecuzione della guerra contro Hitler. Naturalmente è anche possibile che nei calcoli alleati possa essere entrata una buona dose di malizia: sappiamo oggi benissimo che nel 1942 essi non si trovavano nelle condizioni di sbarcare in Francia con buone speranze di successo, ma forse avrebbero potuto farlo nella tarda primavera del 1943. Invece attesero il giugno 1944, e sorge almeno il sospetto che senza le forti pressioni americane, forse un «secondo fronte» non sarebbe mai stato aperto davvero.Se al termine della sua seconda folgorante campagna la Wehrmacht non trovò altro che Stalingrado, le ragioni risiedettero quasi esclusivamente nell'imponenza stessa della rotta sovietica. Tra le truppe ed i Comandi si venne a determinare nel settembre di quel 1942 il particolare stato d'animo del soldato, coraggioso sino al giorno prima, che ora teme di essere «l'ultimo a morire», e rallenta, diventa prudente, sta attaccato alla radio da campo in attesa che ne sgorghi la parola «fine». Nei Comandi, il riflesso è tecnico, ma sostanzialmente uguale: giunto in vista di Stalingrado, il generale Paulus pensa di aver davanti a sé soltanto un compito di ripulitura, dopo il quale si potrà marciare a nord, lungo il Volga, per piombare attraverso Kazan alle spalle di Mosca. Le sue divisioni arrivano alla spicciolata, ed egli non attende di riunirle per un attacco in forze, ma le spende una dopo l'altra in una serie di attacchi che lo logorano senza portare mai alla decisione. Anche i russi fanno lo stesso, e Stalingrado finisce col divenire una gigantesca pompa che aspira sangue e corpi umani con una fame feroce. Alla fine del gennaio 1943, per la prima volta nella loro storia, i tedeschi sono costretti a capitolare, lasciando in mano al nemico una intera armata di 200mila uomini.Su Stalingrado si è scritto molto, ma ben raramente ne son stati ricordati i due caratteri negativi che la pur grande vittoria sovietica si portò dietro, il primo dei quali era la speciale ipnosi che la città assediata aveva ingenerato nel Comando centrale di Zukov. Fisso nell'idea ossessiva di liquidare la VI Armata di Paulus, timoroso di disperdere le proprie forze, il maresciallo lasciò passare senza sfruttarla la crisi della Wehrmacht del secondo inverno di guerra. Noi italiani, assieme ai romeni ed agli ungheresi, fummo per questa ragione assai sfortunati, poiché le uniche operazioni che Zukov si concesse furono quelle attraverso il Don a nord di Stalingrado, dall'11 dicembre del 1942 in poi. In pochi giorni, perdemmo anche noi un'intera Armata, la VIII, i cui resti dovettero iniziare una disastrosa ritirata che si concluse soltanto nella zona di Gomel. Una perdita gravissima, aumentata di lì a poco con la resa a Capo Bon dell'altrettanto sfortunata Armata d'Africa, dopo due anni e mezzo di disastrose sconfitte, ma anche di belle ed eccitanti vittorie.L'altro fattore negativo di Stalingrado fu certamente l'insostenibile prezzo pagato dall'Armata rossa in termini di uomini. Non sono mai state fornite cifre globali, ma sulla scorta di un gran numero di considerazioni questo prezzo deve essersi aggirata tra un minimo di 600mila uomini ed un massimo di un milione, tra morti, feriti, prigionieri e dispersi. Non per nulla i vittoriosi di Stalingrado avanzano in un primo tempo per trecento chilometri sul fronte meridionale soltanto per scontrarsi, in pessime condizioni, contro una Wehrmacht risorta miracolosamente per la seconda volta dalla sua sconfitta. Tra il marzo ed aprile del 1943, il comando sovietico, che ora deve fare i conti coi problemi professionalmente molto sofisticati di un'avanzata, dopo quasi due anni di battaglie puramente difensive, conclude con l'ammettere la superiorità del Comando avversario, riorientando l'intera propria strategia su canoni inediti: grande prudenza, fronti continui, potenti concentrazioni d'artiglieria, specie semovente e soprattutto una forte pressione sui politici, ovverosia su Stalin, per la ricerca e lo sfruttamento di tutte quelle occasioni su piano mondiale che possano servire a diminuire il numero delle Grandi Unità tedesche sul fronte russo.E' questo il panorama più sorprendente e meno indagato che offrono il 1943 ed il 1944 fino al 6 giugno, fino al giorno, cioè, dello sbarco alleato in Normandia. Un panorama nel quale crescono d'intensità le pressioni staliniane per un secondo fronte, in parallelo al colpo di Stato italiano del 25 luglio 1943, sicuramente varato dalla Monarchia sulla base di sollecitazioni e garanzie sovietiche, che acquisteranno chiarezza, ed un sensazionale spessore con la venuta di Togliatti in Italia nel marzo del 1944. D'un colpo si volatilizzano con l'armistizio le nostre importanti forze nella Balcania, nella Francia meridionale, nella stessa Penisola, in Egeo: altrettante servitù che l'esercito tedesco deve accollarsi, distraendo dal fronte sovietico non meno di trenta divisioni. Altre 59 si trovano con l'arma al piede nella Francia settentrionale, nell'attesa logorante di uno sbarco, e 15 in Norvegia. La coperta sta divenendo davvero troppo corta.Se, nonostante le perdite e le nuove servitù abbattutesi sulla Wehrmacht, l'Armata rossa impiega, dopo Stalingrado, ancora 27 mesi per arrivare a Berlino, la ragione è una sola, la perdita per strada di 36 milioni di soldati, un terzo dei quali morti in battaglia. A conti fatti, essa ha dovuto rinnovare i suoi effettivi quasi cinque volte, il che significa che vi sono state in 1.417 giorni di guerra, cinque Armate rosse nuove di zecca, condotte alla distruzione completa contro un avversario irreducibile anche nella sconfitta. Ma per ogni caduto tedesco, se ne sono contati 4 sovietici, con un rapporto ancora peggiore di quello, già grave, verificatosi nei vituperati eserciti zaristi. Nell'aprile del 1945, l'Armata rossa brucia gli ultimi 300mila uomini nella conquista di Berlino: ma si trova, ancora una volta, sull'orlo, del disastro, poiché la sua forza consiste soltanto in decine e decine di divisioni corazzate. Le fanterie sono quasi scomparse, divorate da una troppo lunga sequela di sconfitte e di vittorie pagate a carissimo prezzo. A Budapest, come nei vecchi Stati baltici, sul Danubio come sulla via di Berlino, la Wehrmacht nell'inverno 1944/45 assesta le sue ultime quattro zampate, tanto micidiali da obbligare Stalin a nascondere le perdite con la massima cura.E' molto difficile oggi valutare pienamente il significato profondo di un salasso di vite umane che dal 1936 al 1953, anno della morte di Stalin, non deve essere stato inferiore a 40 milioni di uomini e donne, immolati sugli altari delle «purghe» e poi in una condotta di guerra nella quale interi reggimenti vennero usati per far saltare i campi minati tedeschi. E' però sicuro che in un caso come nell'altro scomparvero i migliori cittadini sovietici, lo stesso futuro dell'Unione, ulteriormente compromesso da una sterminata massa di feriti e di reduci dal Gulag, piegati e piagati nel corpo e nello spirito. Ancor più difficile è stabilire se la Rivoluzione d'ottobre sia stata davvero il punto d'inizio di una nuova storia, almeno per l'Unione, o un ultima tragica insidia del Fato, abbattutasi sulla Santa Madre «dai molti dolori», così come ogni buon russo chiama la propria patria. Ciò che oggi vediamo accadere in quello sventurato Paese, ciò che intanto siamo venuti a conoscere delle sue potenti contraddizioni interne non risolte e forse non risolubili, conforta nel concludere che l'esperimento del 1917 abbia sovrapposto alla ben nota malattia della mancanza, nella Russia zarista, di una ideologia veramente transnazionale capace di coagulare in unità di pensiero e d'azione 22 popoli diversi, lo spaventoso meccanismo di una autocrazia che nel brevissimo giro di 17 anni è riuscita ad infliggere al proprio Paese un danno probabilmente fatale. Si starà dunque a vedere: ma teniamo bene a mente, quando scendiamo in piazza a manifestare contro la guerra, qual è il taciuto prezzo di una Rivoluzione.
Data inserimento:Franco BANDINIMaestà, fonti italiane assicurano che...tratto da: Franco BANDINI, L'anno in cui il mondo finì / 5, 30.9.1989, n. 39, p. 93.Questo singolare documento del dicembre 1940, proveniente dal Consolato britannico di Ginevra e diretto a Londra, prova la ricchezza delle informazioni filtranti dall'Italia su una serie di fatti conosciuti da poche persone, come la corruzione di politici e generali greci tentata da Ciano, la posizione di Badoglio e la percentuale delle bombe inglesi effettivamente esplose. Significativa anche la presenza di uno dei direttori della Union des Banques Suisses nella lunga catena.Ecco la traduzione del testo:Alfred Kern, direttore della Unione delle Banche svizzere, ha pregato Armstrong di passare da lui questo pomeriggio. Nel corso del colloquio gli ha fornito le seguenti informazioni, provenienti da diverse fonti italiane, in particolare da un italiano, appartenente agli ambienti della Corte, arrivato recentemente a Ginevra da Roma. Sembra che tra l'opinione pubblica italiana si stia diffondendo ogni giorno di più un severo sentimento antifascista: qualche altra sconfitta militare potrebbe portare facilmente alla guerra civile. Badoglio, appoggiato fin dal principio dal Re e dall'esercito, è contrario alla guerra in Grecia e all'attuale regime. Si dice che Ciano abbia avuto violenti contrasti tanto con Hitler che con Mussolini. Si sarebbe anche guadagnato l'ostilità della Marina italiana per aver assicurato che la campagna di Grecia sarebbe stata una passeggiata: le sue promesse di riuscire a corrompere il sindaco di Atene e due importanti generali greci si sono rivelate del tutto infondate. La base aerea britannica di stanza in Grecia e la competenza della nostra marina hanno terrorizzato le autorità navali italiane, perfettamente consapevoli delle pesanti perdite subite, sebbene queste siano ostinatamente negate dalla stampa italiana. La prospettiva di nuove, pesanti privazioni accresce lo scontento della popolazione. È stato anche suggerito un bombardamento simbolico su Roma, in particolare su Palazzo Venezia, ma molti degli informatori di Kern sono concordi nell'affermare che soltanto il 20 per cento delle bombe lanciate sull'Italia sono esplose.Kern, che è molto ben informato sulla situazione in Spagna, sostiene che la Spagna diventa ogni giorno più solidale nel sostenere Franco contro l'ipotesi di intervenire nella guerra in appoggio alla Germania.
DISTRIBUTION B.From: SWITZERLANDDeoypher. His Majesty's Consul (Geneva)
5rd December, 1940
D.
8.
05 p.m.
5rd December, 1940
R
6.
55 a.m.
5rd December, 1940No: 281
°°°°°°IMPORTANT.Alfred Kern, Director of Swiss Banking Association, asked Armstrong to call on him this afternoon and gave him following information from various Italian sources and especially from an Italian in Court circles whe has just arrived in Geneva from Rome.Apparently public opinion in Italy is becoming daily more bitterly anti-Fascist and a few more serious reverses might well produce revolution. Badoglio, supported from the first by the King and army, in against the Greek war and needs little encouragement to attack and overthrow the present régime. Ciano is now reported to be quarrelling with both Hitler and Mussolini and has alto inourred the hatred of Italian navy since his promises of a walk-over in Greece, based on bribery of Mayor of Athent and two prominent Greek Generals, have proved utterly worthless. British air bases in Crete and competence of our navy terrify Italian naval: authorities who are fully aware of the serious naval losses denied by the Italian press. Popular discontent due to Increasing prospect of privation is growing. Symbolical bombing of Rome especially of Palazzo Venezia suggested, but several of Kern's informants agree in stating categorically that only 20% of our bomb dropped in Italy have exploded.Kern, whe is especially well informed on Spaish affairs, claims that Spain is becoming daily more unanimous in backing Franco against any intervention in the war to please Germany.Repeated to Berne, Saving.
Data inserimento:
29/04/2007


Roberto BIAGIONIAfrica orientale italianaTroppo distante dalla madrepatria per essere rifornita costantemente la nuova colonia italiana fu considerata da molti membri del Partito fascista una fastidiosa appendice che avrebbe dovuto provvedere autonomamente al proprio sostentamento nel caso di una guerra che ormai era sempre più prossima. Questa si mostrerà , purtroppo, solo una mera illusione che, come spesso accadrà alle nostre truppe combattenti, verrà pagata ad un prezzo altissimo.Già nel 1939 il nuovo viceré d'Etiopia, il duca Amedeo d'Aosta, inviò a Roma un dettagliato piano organizzativo per raggiungere la tanto agognata "autosufficienza": costo dell'intera operazione 4.8 miliardi di £ che ovviamente non furono concessi. Solo nell'Aprile del 1940 vennero stanziati 900 milioni che rappresentarono ben poca cosa di fronte alle esigenze dell'intera colonia. Per meglio comprendere la situazione ecco le carenze maggiori:
Mobilità delle truppe: dovuta sia allo scarso numero di autocarri, sia alla quantità di gomme disponibili. Vista la grave crisi si ipotizzò una durata delle scorte per appena due mesi.
Carburante: salvo eventuali perdite a vantaggio del nemico si calcolò che le scorte fossero sufficienti per circa sei mesi.
Munizioni: erano circa la metà del quantitativo necessario quelle per le armi leggere mentre mancavano totalmente le armi contraeree e controcarro. Solo nel 1941 furono consegnati 4000 colpi per la contraerea.La consistenza delle nostre truppe fu senz'altro notevole, almeno da un punto di vista numerico: allo scoppio della guerra, il 10 giugno 1940, l'esercito italiano poté contare nelle proprie fila oltre 90 mila uomini delle truppe nazionali e circa 200 mila coloniali anche se alcune fonti sostengono che tale cifra sia di poco superiore alle 100 mila unità. Il complesso fu strutturato in:
23 brigate
94 battaglioni
16 squadroni di cavalleriaL'organizzazione di queste truppe fu però adattata alle esigenze della colonia che ovviamente erano differenti rispetto a quelle della madrepatria: due sole divisioni di fanteria poterono essere equiparate a quelle in servizio nel nostro paese, tant'è che la base dell'intera struttura militare fu affidata ad unità più agili e numericamente inferiori come i battaglioni e le brigate, composte da un numero vario di battaglioni. Le armi corazzate erano quasi inesistenti: furono disponibili 24 carri medi da 11 tonnellate e 35 carri leggeri da appena 5 tonnellate. L'aviazione è suddivisa in otto gruppi e cinque squadriglie per un totale di 300 apparecchi di cui il 30% è da considerarsi in condizioni miserevoli. Si possono inoltre contare 5300 autocarri, 2300 autovetture e 307 motociclette.Nelle acque del Mar Rosso e dell'Oceano Indiano, infine, sono presenti 8 sottomarini, 4 dei quali furono affondati nelle prime settimane, e 20 navi. Nonostante il numero sia tutt'altro che disprezzabile la modernità dei mezzi lascia molto a desiderare.Per meglio comprendere gli eventi della campagna appare opportuno delineare la linea di comando militare della nostra colonia:
Supremazia civile e militare: duca Amedeo d'Aosta
Scacchiere operativo Nord: gen. Luigi Frusci
Scacchiere operativo Sud: gen. Pietro Gazzera
Scacchiere operativo Est: gen. Guglielmo Nasi
Scacchiere Giuba: gen. Gustavo PesantiA questi andarono ad affiancarsi i generali Bertoldi, de Simone e Scala mentre il comando della Marina fu affidato dell'ammiraglio Carlo Balsamo. Pietro Pinna fu infine il comandante superiore dell'Aeronautica.L'esercito inglese può contare su un numero di uomini decisamente inferiore al nostro:
25000 uomini dislocati nel Sudan. Sono suddivisi in battaglioni dei quali solo tre a guardia degli oltre 2000 Km della frontiera con i territori italiani
35000 uomini nel Kenya provenienti in parte dal Sud Africa del premier Smuts
1500 nella Somalia britannica
10000 uomini componenti due battaglioni indiani rinforzati dislocati ad AdenOltre alle truppe regolari sono da tener presenti le bande di etiopici delle quali non si possono fornire dati precisi.Da questo quadro emerge come la situazione fosse tutt'altro che favorevole per le truppe italiane così come viene spesso sottolineato da molti storici anglosassoni. Sulla carta, come già sottolineato, la nostra superiorità è schiacciante ma la penuria di mezzi e materiali sarà una zavorra terribile per le nostre forze. Oltre a ciò occorre sottolineare come le truppe inglesi, durante tutto il corso della campagna, saranno ingrossate dall'arrivo periodico di nuovi rimpiazzi che presto andranno a colmare la differente consistenza numerica dei due eserciti.Nonostante la critica gli abbia spesso considerati poco affidabili, secondo il mio parere, le truppe indigene meritano un particolare riconoscimento per il loro sacrificio e molto spesso per la loro fedeltà ai colori della nostra bandiera. I primi reparti ascari furono organizzati nel 1889 arruolando 2000 mila uomini eritrei che andarono, sotto il comando del colonnello Bagni, a rafforzare il corpo di spedizione del generale San Marzano. Da allora dimostrarono tutto il loro valore tanto da diventare un punto cardine del nostro sistema coloniale. Se gli Eritrei furono i più fedeli e motivati "compagni d'avventura" occorre ricordare che anche Somali, Arabi e uomini provenienti da Aden fecero parte del nostro esercito coloniale dando spesso prova di eroismo e sacrificio. Allo stesso tempo occorre ricordare che molte bande e tribù locali passarono al nemico man mano che si profilava la vittoria delle truppe inglesi.La prima azione offensiva del nostro esercito si registrò alle prime luci dell'alba del 4 Luglio 1940 con l'attacco alla frontiera del Sudan in direzione Cassala. Con molta cautela il contingente italiano, composto da due brigate coloniali (4800 uomini ca.), 1500 cavalleggeri e 24 carri leggeri, avanzò per circa 20 Km all'interno della frontiera sudanese. Ad opporsi al nostro timido tentativo il comando britannico lasciò 300 uomini della Sudan Defence Force con una trentina di autocarri, alcuni dei quali blindati. Il comandante inglese della regione, William Platt, detto il Kaid, disponeva di non più di tre battaglioni di fanteria a protezione di quell'immenso territorio e decise di non sprecare uomini rimanendo in attesa, "per saggiare" le azioni del nemico.Il nostro miserando attacca si articolò su tre colonne e dopo una piccola scaramuccia sul fiume Gasc, che costò al nostro esercito una quarantina di vittime, riuscimmo ad entrare a Cassala alla presenza di alcuni cine - operatori dell'Istituto Luce, grazie ai quali la nostra propaganda poté nuovamente tessere l'elogio delle nostre truppe.Più a Sud il 4° Gruppo Bande Armate di frontiera occupò Kurmuk il giorno 8 mentre il 14 altre bande coloniali si impadronirono di Ghezzan. Sempre in questo periodo altri gruppi armati a noi fedelissimi si impossessarono nel confine con il Kenya di Mojale e del saliente del Mandera.Fu solo all'inizio di Agosto che il nostro esercito intraprese una seria offensiva optando per la Somalia inglese ,un territorio sabbioso che si affacciava sul Golfo di Aden. Nonostante, secondo molti storici anche questa fu solo una piccola operazione di alleggerimento, fu lo stesso duca d'Aosta a pianificare questo attacco secondo alcune ragioni che si dimostrarono poco lungimiranti:
Questo territorio avrebbe potuto diventare una base di fondamentale importanza per il nemico nel corso della guerra.
Conquistando questo territorio si sarebbe ridotta la frontiera terrestre di oltre 1050 Km e questa sarebbe stata sostituita da 750 Km di frontiera marittima. All'epoca con le nostre basi di Massaia, Assab e Chisimaio sembrò più facilmente difendibile.
Il porto di Gibuti nella Somalia francese avrebbe potuto costituire una base di primaria importanze nel tentativo di penetrazione inglese verso l'Etiopia. Per questo il viceré decise di occupare il più vasto territorio della Somalia inglese con i suoi due porti di Berbera e Zeila circondando in questo modo il territorio transalpino.Le truppe italiane, comandate dal generale Nasi, che il 3 Agosto presero parte all'offensiva sono formate da:
tre battaglioni di fanteria metropolitana,
quattordici di fanteria coloniale,
due gruppi di artiglieria e una manciata di carri leggeri e medi.A contrastarne l'avanzata i comandi inglesi schierarono, agli ordini del generale di brigata A. R. Charter che fu sostituito dopo alcuni giorni dal generale di divisione Godwin Austen :
un battaglione britannico
II reggimento scozzese detto "Black Watch"
due battaglioni indiani
due battaglioni dell'Africa OrientaleIl nostro contingente si frazionò subito in due colonne: una raggiunse in pochi giorni la Somalia francese bloccandone la guarnigione che la presidiava, l'altra impiegò due giorni per raggiungere Hargeisa dove sostò tre giorni permettendo così all'esercito inglese di approntare le difese a Tug Argan. Qui, il giorno 11, la nostra offensiva registrò una netta battuta d'arresto di fronte a questo munitissimo varco formato da sei alture che dominavano la strada sottostante: dopo un pesante bombardamento da parte delle nostre artiglierie una brigata andò all'attacco di un'altura tenuta dal III battaglione del 15° reggimento Punjab. I nostri soldati riuscirono a conquistare la posizione e a mantenerla anche dopo due violentissimi attacchi indiani. Altre alture, nella giornata, furono attaccate ma non conquistate.Il giorno successivo i combattimenti continuarono senza ulteriori cambiamenti: si combattè per altri tre giorni sostenendo il peso di continui attacchi frontali che non previdero mai (???) la possibilità di un aggiramento. Questo macroscopico errore ci costò oltre 2000 vittime mentre gli Inglesi persero 250 uomini.In assenza di ulteriori rinforzi e con la possibilità di essere accerchiati dalle truppe italiane, il corpo inglese decise di ritirarsi ed evacuare da Berbera via mare andando così ad ingrossare le file del contingente che si stava preparando in Kenya.Le nostre schiere entrarono nella città portuale il 19 Agosto trovandola sì priva di truppe ma anche sprovvista di carburante e generi alimentari che sarebbero stati come la "manna dal cielo" per il nostro esercito.Con la conquista del Somaliland in poco più di una settimana l'esercito italiano vide segnata la propria sorte: nonostante la grande euforia d'ora in avanti l'iniziativa passò nelle mani degli Inglesi maggiormente riforniti ed equipaggiati per una guerra che non poté più essere solo difensiva ma che per essere vinta necessitava di azioni che le nostre truppe non poterono mettere in pratica per la scarsità cronica di mezzi.La conquista dell'Eritrea italianaDopo la conquista italiana della Somalia inglese appare ormai chiaro quanto la situazione sia disperata per le truppe coloniali dell'Africa Orientale Italiana: da un lato il ritardo dell'Operazione Seelowe e dall'altro la pochezza degli attacchi di Graziani in Africa Occidentale resero chiaro a tutti, in prima persona al duca d'Aosta, che la madrepatria non sarà in grado di rifornire le magre forze coloniali che dovranno essere abbandonate alla mercé di un esercito che invece ricevette con continuità aiuti e rifornimenti di truppe e mezzi. Una delle prime azioni dell'esercito inglese si registrò nel Novembre del 1940: furono saggiate le nostre possibilità presso due piccoli borghi agricoli a 300 Km a Sud di Cassala, Gallabat e Metemma. Alle 7 del mattino del giorno 6, dopo un duro bombardamento aereo, fu prima attaccato e conquistato il forte di Gallabat mentre quello di Metemma resistette dando così iniziò alla controffensiva italiana che portò alla riconquista del primo forte.In tre giorni di durissimi combattimenti subimmo 175 morti e 275 tra feriti e prigionieri.E'gennaio il mese in cui iniziò la vera e propria offensiva inglese in AOI. Il generale Platt decise di attaccare sul fronte di Cassala avendo a disposizione due divisioni:
La V divisione di fanteria indiana comandata dal generale Heath
La IV divisione di fanteria indiana appena distaccata dalla Marmarica comandata dal generale Beresford Peirse.Unitamente all'attacco si diede inizio anche al disimpegno delle truppe italiane, 17 mila uomini, sulla linea Cherù - Aicota. Solo il giorno 20 la IV Divisione attaccò il nostro dispositivo di difesa con l'appoggio di mezzi blindati e artiglierie. Tre giorni di aspri combattimenti consentiranno ai nostri uomini di respingere tutti gli attacchi dei reparti inglesi sia sulla direttrice di Cherù che su quella di Aicota. Fu a questo punto che il generale Frusci ordinò il ripiegamento su Agordat commettendo un gravissimo errore di valutazione: le truppe inglesi riuscirono ad attaccare separatamente le due colonne in ripiegamento, falcidiandole entrambe. La colonna di Cherù, dopo essere stata dissanguata dall'attacco, dovette sostenere durissimi combattimenti presso Agordat tra il 27 e il 31 gennaio, ripiegando in un secondo momento su Cheren. L'altra colonna, quella di Aicota, dovette distruggere tutto il materiale dopo essere stata isolata.A Sud anche il caposaldo di Berentù venne abbandonata e le truppe ripiegarono su Cheren.In questi ultimi combattimenti andarono perduti:
141 automezzi
24 carri armati
96 cannoni
40 aereiLe perdite umane ammontarono a 16 mila uomini tra caduti, feriti e prigionieri di cui 1500 nazionali.La battaglia di CherenCheren era una delle posizioni meglio difese nel territorio eritreo. Unica porta di accesso ad Asmara e al porto di Massaua sorge a quota 1400 metri nel mezzo di una vasta e fertile pianura circondata da montagne. Gli ultimi Km della strada che portano alla città passano in una angusta gola sovrastata da undici cime alte oltre 600 metri, ognuna delle quali è stata trasformata in una munita posizione difensiva. Questa battaglia, fondamentale per le sorti dell'intera campagna e per il destino della stessa colonia, ebbe inizio il 2 febbraio 1940.Le nostre unità di difesa erano così organizzate:
dall'11° Granatieri di Savoia comandato dal colonnello Corsi,
dall'11.ima Brigata coloniale proveniente dall'Asmara
dal IV Gruppo di cavalleria coloniale
104° Gruppo di artiglieriaOltre a queste truppe venne dato l'ordine alla 1.ima Divisione di stanza a Karora di inviare la V Brigata in rinforzo alle nostre truppe. Il generale Carminio, fino ad allora comandante la 1.ima Divisione, fu nominato comandante dell'ultimo baluardi difensivo in Eritrea. Grazie alle sue intuizioni il nemico fu impegnato in 56 giorni di combattimenti furenti e sanguinosi che entrarono nella leggenda del nostro esercito e nella storia della Seconda Guerra mondiale.I primi tentativi inglesi furono intrapresi dalla IV Divisione indiana all'alba del 3 Febbraio: Sanchill, Brigs Peak e Cameron Ridge, la famigerata quota 1616, furono assaltate a più riprese ma i contrattacchi italiani riportarono la situazione in equilibrio. Lo stesso Platt, in questi frangenti, si rese conto di quanto la partita si sarebbe rivelata durissima da vincere.Il giorno 7 fu la volta della V Divisione indiana che sferrò un massiccio attacco sulla destra della gola presso il colle di Aqua Col: nonostante il terreno impervio la quota fu conquistata ma , in seguito a contrattacchi feroci, le truppe italiane riuscirono a riconquistarlo. Come detto le condizioni ambientali del teatro di guerra furono terribili: Franco Bandini così le descrive: " sole a picco, quaranta gradi di temperatura, le truppe abbarbicate a roventi sassi vulcanici di montagne erte come colonne". Condizioni estreme in cui uomini spesso denigrati in patria diedero la vita per una speranza che ai nostri occhi appare irrealizzabile.Il 10 Luglio le truppe inglesi attaccarono nuovamente in entrambi i settori cercando i medesimi obiettivi degli attacchi precedenti: Brigs Peak, Aqua Col e Victoria Cross furono prese e perse e ogni volta il prezzo da pagare fu altissimo sia per l'una che per l'altra parte in lotta. Immensi sacrifici che portarono la situazione a cristallizzarsi fino a metà del mese di marzo quando inaspettatamente le due divisioni indiane piombarono nuovamente all'assalto. La IV ebbe come obiettivo il settore sinistro mentre la V avrebbe dovuto occupare Dologorodoc sulla parte destra. L'attacco, preceduto da un violentissimo bombardamento di preparazione, anche in questa circostanza non fece registrare particolari progressi. Furono giorni di combattimenti sanguinosi, all'arma bianca, sasso dopo sasso, quota dopo quota. Il 20 marzo gli Italiani furono ridotti ad un terzo delle loro truppe mentre gli Inglesi continuarono a ricevere rifornimenti.La notte del 25 iniziò quella che sarebbe stata la fase conclusiva della più grande battaglia dell'Africa Orientale: dopo la conquista del Dologorodoc le truppe inglesi attaccarono il Sanchil. Alle 4 ebbe inizio la preparazione dell'artiglieria sulle quote 1407 e 1341, seguite dai reparti di fanteria:
la IV Divisione, ripartita su più colonne attaccò le posizioni italiane sul Sanchil e punta Forcuta
la V Divisione piombò invece sulle due quote bombardate per travolgere le difese anticarro.L'attacco ebbe successo: alle nove del mattino gli alpini dell'Uork Amba furono sopraffatti e dovettero arretrare, nonostante ciò si continuò a combattere per tutto il 26 e 27 con il generale Carmineo sempre in prima linea a combattere ed a incoraggiare i propri uomini. Fu il generale Frusci a diramare l'ordine di ritirata che fu effettuata in un ordine quasi perfetto. Questa decisione fu molto criticata dagli uomini del regime ma anche da molti storici moderni. A parziale difesa del generale va sottolineato che egli prese questa decisone quando fu informato che una colonna britannica, agli ordini del brigadiere Briggs, stava giungendo alle spalle delle sue truppe che non avrebbero potuto opporre alcuna resistenza a d un suo attacco.In otto settimane di combattimenti gli Italiani ebbero oltre 3000 caduti: i 7 battaglioni nazionali furono ridotti a poco più di 400 uomini ciascuno! Oltre a ciò andarono perduti 120 cannoni. Le truppe inglesi dovettero registrare 560 morti e oltre 2500 feriti.Dopo la sconfitta di Cheren ormai anche la fine della nostra colonia d'Eritrea è segnata. La strada per Asmara fu aperta. L'ultimo tentativo di difesa venne portato dal generale Carmineo ad Ad Teclesan ma i nostri scarsi mezzi furono presto soverchiati da quelli del West Yorkshire. Alle 10.30 del 31 marzo avviene la fine ufficiale della colonia d'Eritrea. Massaua intanto continuò a resistere fino all'8 Aprile quando in seguito ad un ennesimo attacco l'ammiraglio Bonetti si arrese al generale Heath. Con lui capitolarono anche 9600 uomini e 127 cannoni. La campagna d'Eritrea potè dirsi ufficialmente conclusa, in questo modo le eventuali minacce verso il Mar Rosso e i territori orientali inglesi furono definitivamente scongiurati tanto che gran parte delle truppe inglesi fu trasferita in Egitto per combattere la "Volpe dl Deserto".La Somalia italianaDopo la conquista italiana della Somalia inglese le truppe britanniche si concentrarono in Kenya agli ordine del generale di corpo d'armata sir Alan Cunningham, fratello minore dell'ammiraglio comandate la squadra navale nel Mediterraneo, che ne assunse il comando nel novembre del 1940. Per meglio comprendere le successive azioni ecco il quadro del suo schieramento:
XXII Divisione africana comandata dal Godwin - Austen. La divisione era composta dalla:
I Brigata sud africana
XXII Brigata est africana
XXIV Brigata della Costa d'Oro
XI Divisione africana Nell'autunno le forze a sua disposizione giunsero a 75 mila unità di cui:
27 mila Sudafricani
33 mila provenienti dall'Africa orientale
9 mila da quella Occidentale
6 mila InglesiViste le ingenti forze a disposizione fu lo stesso Churchill a sollecitare azioni offensive contro la Somalia italiana che venne considerata come una vera e propria minaccia per i possedimenti territoriali inglesi in Kenya. Fu a seguito di queste pressioni che Wavell, comandante in capo per il Medio Oriente, e Cunningham proposero un attacco alla nostra colonia pei il mese di Maggio o quello di Giugno al termine della stagione delle piogge. A causa delle impellenti necessità del fronte Occidentale di uomini e mezzi si decise di anticipare l'offensiva per il mese di Febbraio.Il confine tra Kenya e Somalia fu attraversato dalle truppe inglesi in tre punti: a Dif, Liboi e Chisimaio per raggiungere gli obiettivi della pista che collegava Afmadu e Gelid e la città portuale di Chisimaio la cui presa fu considerata essenziale per il prosieguo della campagna.Il 10 Febbraio, in seguito ai pesanti bombardamenti dell'aeronautica sudafricana, la città di Afmadu venne abbandonata dalle truppe italiane tanto che il giorno 11 la XII Divisione Africana fece il suo ingresso in una città ormai abbandonata.Contrariamente alle idee del Duca d'Aosta che avrebbe voluto concentrare le nostre forze a Chisimaio e a Dolo, le cui difese vennero perfezionate nel corso degli anni proprio per questo genere di attacchi, il generale De Simone, comandante le truppe in Somalia e che combatté a Tug Argan sette mesi prima, decise di abbandonare Chisimaio per cercare di resistere il più a lungo possibile sulla linea del fiume Giuba: un fronte di 600 Km facilmente attraversabile vista l'esigua quantità di acque che lo attraversano. La mattina del 14 Gobuin, 130 Km a sud - est di Afmadu e a soli 15 Km a nord di Chisimaio, venne conquistata, mentre nel tardo pomeriggio fu la XXII Brigata dell'Africa orientale ad entrare nella città portuale in cui la trascurabile resistenza italiana non creò alcun problema alle truppe della corona.Gli Italiani si attestarono quindi sulla sponda del fiume Giuba di fronte alla divisione sudafricana a Gobuin cercando di resistere distruggendo tutto i passaggi per l'altra sponda. Come detto, la scarsità delle acque del fiume, rese semplice il passaggio delle truppe inglesi che riuscirono ad attraversarlo poco più a monte. Nonostante il feroce contrattacco la testa di ponte riuscì a conservare la posizione permettendo ai rinforzi di affluire numerosi. Dopo alcuni giorni di combattimenti i Sudafricani riuscirono a controllare un largo tratto di fiume tanto che con una rapida puntata verso nord si unirono ad uan brigata della Costa d'Oro che traversò il fiume 130 Km più a monte.Il generale de Simone, a causa della scarsa protezione della nostra aviazione e della mancanza cronica di mezzi di trasporto per le sue truppe, non potè far altro che subire le iniziative del comandante inglese Godwin - Austen che già sette mesi prima le impartì una dura lezione a Tug Argan. Le nostre già provate truppe dovettero anche fronteggiare il tradimento di molti raparti etiopi che con il passare dei giorni decisero di abbandonare il nostro esercito sempre più alla deriva.Fu proprio la mancanza di una concreta resistenza che cose di sorpresa le truppe inglese che, come accennato prima, sopravvalutarono enormemente le nostre capacità di offesa. Un elemento di fondamentale importanza per il successo dell'operazione fu proprio la presa di Chisimaio che fu conquistata senza particolari danni alle strutture portuali e quindi permise ai rifornimenti di giungere via mare migliorando la situazione logistica.La sorprendente facilità di questa conquista indusse i vertici inglesi a continuare nell'avanzata per scacciare definitivamente dalla Somalia gli Italiani e per utilizzare come base di lancio questa terra per invadere anche l'Etiopia da sud - est.Il giorno 22 anche la posizione del generale Gazzera sul fiume Giuba fu conquistata e la strada verso Mogadiscio fu spalancata alla rapida avanzata delle truppe di Cunningham. La XXIII Brigata della Nigeria, appena trasferitasi dal Kenya coprirono i 400 Km da Gelib a Mogadiscio in tre giorni!!!.Saranno proprio questi reparti ad entrare per primi il 25 Febbraio a Mogadiscio accompagnati dal suono delle immancabili cornamuse. Nella città ancora intatti furono raccolti oltre 1.500.000 litri di benzina e 360.000 litri di carburante per aerei oltre che provviste e beni di prima necessità. Anche in questo caso il porto fu occupato praticamente intatto. La XXI Brigata dell'Africa orientale e la XXIV della Costa d'Ora si occuparono del rastrellamento delle truppe italiane mentre le altre si preoccuparono della ormai imminente azione contro l'Etiopia: ormai le valutazioni contro gli Italiani erano completamente capovolte, le grave carenze di mobilità e le scerse risorse disponibili avevano convinto gli Inglesi a chiudere nel minor tempo possibile la partito contro l'esercito italiano.EtiopiaDopo l'inaspettata conquista di Mogadiscio il generale Cunningham decise di proseguire nella sua avanzata occupando anche l'Etiopia italiana: una ghiotta occasione per chiudere prima del previsto le operazioni in Africa orientale. Due ragioni lo spinsero ad accelerare i tempi della sua azione:
L'incertezza del futuro: egli non sapeva quando avrebbe dovuto cedere parte delle sue truppe per la imminenti operazioni in Africa occidentale
Le condizioni atmosferiche: tra aprile e maggio sarebbe iniziata la stagione delle piogge che avrebbe reso impraticabile le poche strade adatte al passaggio delle sue truppe.La marcia delle truppe inglesi si svolse in maniera estremamente rapida: il 14 Febbraio cadde Chisimaio, il 26 Mogadiscio situata a circa 400 Km più a nord, due settimane dopo gli Anglosassoni si trovarono a Musthail ad oltre 1000 Km di distanza.Le truppe del generale de Simone in fuga furono inseguite dall'XI Divisione africana del maggiore generale Wetherall. Ad essa furono aggregati il 1° raggruppamento sudafricano e la XXII Brigata dell'Africa orientale. Gli Italiani, dopo la fuga da Mogadiscio, decisero di dirigersi verso Giggiga ad oltre 900 Km tra le pianure somale e le vette etiopi. In questa zona montuoso la strada si inerpica fino a quota 3000 metri di altitudine. La rincorsa inglese fu così fulminea che questa posizione dovette essere abbandonata il 17 Marzo.Il giorno 21 le artiglierie sudafricane diressero i propri colpi sulle truppe italiane in ritirata presso le posizioni da Passo Marda che fu abbandonato nel corso della notte per ritirarsi e proseguire la resistenza al Passo di Babile. L'arrivo delle truppe nigeriane fu così improvviso che le difese del passo non furono nemmeno approntate tanto che i nostri soldati dovettero retrocedere di 16 Km presso il fiume Bisidimo dal quale si ritirarono nuovamente per raggiungere la città di Harrar che fu, in seguito, dichiarata città aperta.Intanto in molti centri si verificarono gravi scontri tra la popolazione etiope e i molti Italiani che ancora vivevano e lavoravano nel paese africano: a Dire Daua , dopo la fuga del presidi italiano, molti cittadini del nostro paese furono massacrati e molte violenze vennero commesse. Gli Inglesi che assistettero all'eccidio si ricorderanno di tutto ciò quando anche Addis Abeba cadrà.Il 1° raggruppamento di brigata sudafricano arrivato nei pressi di Auasc e insieme alla XXII Brigata dell'Africa orientale colse di sorpresa la guarnigione in fuga da Dire Daua costringendola alla resa. La capitale Addis Abeba ormai distava solamente 250 Km.Vista l'impossibilità di poterla difendere il Viceré Amedeo d'Aosta decise di favorire l'ingresso delle truppe inglesi nella città etiope affinché non si verificassero le atrocità commesse a Dire Daua. Le prime truppe nemiche entrarono nel centro abitato alle prime luci dell'alba il 5 Aprile un mese prima che il Negus Hailè Selassiè vi facesse ritorno scortato dalle truppe inglesi. Il 5 Maggio a bordo di una Alfa Romeo del colonnello Wingate poté percorrere le strade della città tra due ali di folla festanti. Per l'esercito italiano dopo la caduta de l'Asmara, Mogadiscio, Addis Abeba e Harar non si prospettò più la possibilità di una vittoria ma la necessità di resistere il più a lungo possibile, sia per salvaguardare il proprio onore e quello del paese, sia per mantenere impegnate quelle truppe che altrimenti saranno inviare a combattere i "propri compagni" nel deserto libico e in Cirenaica. Alcune sacche di resistenza continuano a combattere:
Gondar : situata nel nord - ovest del paese nella regione dell'Amhara con il generale Nasi
Gimma, nella regione dei Laghi, per iniziativa del generale Gazzera
Amba Alagi,dove si raccolgono gli uomini provenienti da Addis Abeba e dall'eritrea con il Duca d'Aosta.Le speranze i vittoria delle ultime sacche di resistenza italiana erano ormai ridotte al lumicino: dopo la sconfitta di Cheren in Eritrea che permise alle truppe di Platt di invadere l'Etiopia da nord e la caduta di Addis Abeba ad opera delle forze sudafricane di Cunningham, la "tenaglia inglese" stava per chiudere la morsa contro le nostre stanche e sfiduciate truppe. La stampa del regime cerca di minimizzare l'entità delle sconfitte ma per gli uomini dell'Africa orientale non vi sono più speranze.Amba AlagiIl nome di questo ridotto è diventato uno dei simboli della lotta italiana nella Seconda Guerra mondiale: situata sulla strda che congiunge Massaua ad Addis Abeba questa fortezza naturale, la cui vetta si erge ad oltre 3000 metri di quota, venne considerata dal Duca d'Aosta ideale per l'ultima eroica resistenza delle sue povere forze. Egli infatti poté contare su poco meno di 4 mila uomini, fra i quali due compagnie di Carabinieri e un plotone di marinai giunti da Assab con alcuni avieri. Il comandante delle truppe, insieme al Viceré fu il generale Volpini.Mentre l'avanzata dei Sudafricani continuò da sud, dall'Eritrea la V Divisione indiana iniziò la propria discesa seguita da folte schiere di guerrieri abissini comandate dal tenente colonnello Ranking della Defence Force sudanese raggiungendo l'Amba Alagi il giorno 29. Dopo alcuni giorni di consolidamento, l'avanzata verso le posizioni italiane prese il via il 3 maggio quando il gruppo del colonnello Fletcher fu respinto dal Passo Falagà, una postazione estremamente fortificata e ben difesa. Stessa sorte toccò ad altri attacchi che nella giornata interessarono quel settore. Solo il giorno seguente la 29.ima Brigata indiana sostenuta da una massiccia artiglieria riuscì a conquistare le cime più occidentali: Pyramid, Whaleback e Elephant.Il 5 Maggio altre azioni presero il via dall'Elephant tra cui quella che assicurò anche il possesso di Middle Hill punto in cui, per alcuni giorni, la resistenza italiana fermò l'avanzata inglese. Anche l'avamposto di Twin Pyramids fu sottoposto a violentissimi attacchi che si infransero contro il muro difensivo che ormai si trovava allo stremo della forze.Il giorno 9 gli Inglesi riprendono le proprie azioni contro il monte Kumsà dove sono affluite le truppe che dovettero ceder sul Passo Falagà: il combattimento proseguì fino a quando non furono esaurite le munizioni dopo di che venne presa la decisione di ripiegare sul monte Corarsi che verrà abbandonato poche ore dopo dalla guarnigione ormai ridotta a 150 uomini. Da questa posizione gli inglesi mutarono tattica: avanti la "carne da cannone", cioè gli Abissini mentre le truppe regolari si limitarono ad assicurare l'appoggio dell'artiglieria.Si combattè così fino al 17 Maggio giorno in cui venne concordata la resa con l'onore delle armi di tutto il presidio dell'Amba Alagi. Il Giorno 19 il Viceré e i suoi superstiti furono ricevuti dai generali inglesi Maine e Morriot che arrestarono il Duca e gli uomini della truppa obbligandolo alla prigionia in Kenya o in India. Dopo due settimane di violentissimi combattimenti terminò l'ultima grande battaglia della campagna in Africa orientale: per l'esercito inglese fu un grande successo, nei tre mesi di guerra fece prigionieri oltre 230 mila uomini ma ancora in alcune zone la resistenza italiana continuava e avrebbe dovuto essere debellata.Il bollettino di guerra 348 del 19 Maggio diede, anche in Italia, la notizia della caduta dell'Alagi e la cattura del Duca e del suo seguito dopo " una resistenza oltre ogni limite".Mussolini, dopo la cattura del Viceré, decise di nominare comandante in capo delle truppe italiane in Africa orientale il generale Gazzera che dovette preoccuparsi di coordinare la difese delle ultime sacche di resistenza ancora presenti nella nostra ormai " ex colonia".Nel territorio del Gimma, nel cuore dell'Etiopia con i nostri soldati impossibilitati a ricevere qualsiasi tipo di aiuti, le operazioni si protrassero fino al 10 Luglio momento in cui si arrese l'ultimo battaglione italiano a Dembidollo, dopo che anche la stessa città di Gimma cadde il 17 Giugno. Al momento della resa furono presenti:
276 ufficiali
2360 nazionali, di cui 950 combattenti
1000 coloniali
18 pezzi d'artiglieria ognuno con 100 colpi a disposizione
94 armi automaticheSecondo una valutazione dello scacchiere Sud in questo settore si ebbero :
1289 vittime nazionali
6500 vittime coloniali
9947 feritiNell'Amhara invece la difesa fu organizzata in maniera diversa: intorno alla piazza centrale di Gondar vennero costruiti due ridotte periferiche:
sulle montagne dell'Uolchefit a 110 Km da Gondar in cui non fu necessario approntare difese vista la particolare conformazione del terreno. La sua difesa fu affidata al tenente colonnello Gonella.
Debra Tabor a 160 Km da Gondar sulla strada che collega Addis Abeba Gondar e Dessiè. Fu protetto con un reticolato e della sua difesa fu incaricato il colonnello Angelini.Il comandante dell'intero settore fu il generale Nasi che dispose di 40 mila uomini così composti:
23 mila coloniali divisi in 15 battaglioni
17 mila nazionali divisi in 12 battaglioni
3 squadroni di cavalleria
20 batterie di cui 4 mobili
6 mitragliatrici contraeree.La resistenza fu accanita come sempre ma le nostre truppe mancano di ogni cosa: munizioni, viveri e qualsiasi sorta di approvvigionamento. La ridotta Uolchefit subisce trenta attacchi e novanta bombardamenti che costarono al perdita di 900 uomini. Si arrese il 28 Settembre.Il 27 Novembre anche la piazza di Gondar dovette ammainare il tricolore e definitivamente concludere la nostra avventura nell'Africa orientale. il generale Nasi riuscì a salvare poco più di 22 mila uomini.
Data inserimento:
25/04/2007
Roberto BIAGIONIEl AlameinQuello che spesso viene ignorato dalla gente è che nel deserto sahariano presso la località conosciuta come El Alamein, in arabo "Due Bandiere", non si consumò una singola battaglia ma una serie di azioni che si dipanarono dal 30 Giugno 1942 al 4 Novembre dello stesso anno. Quattro mesi di furibondi combattimenti che capovolsero le sorti del secondo conflitto mondiale causando la fine del sogno di Rommel e del suo Fuhrer di raggiungere l'Egitto e impadronirsi dei preziosi pozzi di petrolio che si trovavano in Iraq, Iran e Siria.La scelta di questa luogo non fu però casuale: già nel 1941 l'esercito inglese decise di erigere in questo luogo l'estremo baluardo difensivo contro gli eventuali attacchi rivolti verso Est e il Delta del Nilo. Tutto ciò, come vedremo, per evidenti regioni territoriali e logistiche:
Il Sahara egiziano in questo punto si restringe formando un passaggio di soli 60 Km. delimitato da un lato dal mare e dall'altro dalla inospitale depressione di el Qattara formata da paludi e sabbie mobili che impedivano azioni di aggiramento a largo raggio.
Una linea ferroviaria e una strada costiera la univano ad Alessandria, la principale base logistica distante poco più di 100 Km. Oltre a ciò un acquedotto portava acqua dolce direttamente sulla linea dei combattimenti facilitando in maniera sensibile lo svolgimento delle operazioni.Per comprendere la caotica evoluzione degli avvenimenti è fondamentale conoscere i due schieramenti che in quel torrido deserto si contrapposero nell'estate del 1942. Le forze italo - tedesche schierarono da nord a sud i seguenti reparti:
XXI Corpo d'Armata: Divisione di Fanteria Trento, Bologna e la 164.a ID germanica. A supporto due battaglioni di Fallschirmjager della Brigata Ramcke.
X Corpo d'Armata: Divisione di Fanteria Brescia, due battaglioni della Brigata Ramcke, la Divisione Paracadutisti Folgore e la Divisione di Fanteria Pavia.
Divisioni Corazzate erano arretrate in modo da poter intervenire nei punti in cui la linea del fronte fosse ceduta. Anche in questo caso da Nord a Sud troviamo la 15.a Panzerdivision, la Divisione Corazzata Littorio, la 21.a Panzerdivision e la Divisione Corazzata Ariete.
Divisioni Motorizzate Leichtdivision e Trieste erano schierate lungo la costa per prevenire un eventuale sbarco britannico alle spalle delle forze dell'Asse.In tutto 100 mila uomini supportati da circa 600 pezzi d'artiglieria e 500 anticarro. Altrettanti furono i carri armati, in particolare i tedeschi PzKpfw III e IV e i nostri M13. Oltre a ciò 340 aerei da combattimento completavano il quadro delle truppe italo - tedesche.L'Esercito britannico schierò invece il 30° Corpo d'Armata e il 13° appoggiati nelle retrovie dal 10° per un totale di oltre 200 mila uomini a cui si assommarono 1000 pezzi d'artiglieria, 1500 controcarro, 1200 carri medi di cui 400 Grant e i nuovissimi Sherman. Oltre a questo sostanziale vantaggio numerico le truppe inglesi poterono contare su altri due fattori che le avvantaggiarono:
L'avanzata sostenuta da Rommel aveva ridotto notevolmente la forza e l'entità dei suoi reparti che si presentarono di fronte alle linee nemiche "col fiatone"vista anche la complicata situazione dei rifornimenti. Tutto il necessario all'avanzata dovette essere trasferito dai porti della Libia che distavano centinaia di Km dalla linea del fronte, mentre l'esercito inglese poté contare su approvvigionamenti costanti da Alessandria che si trovava ad appena 100 Km.
La scoperta di Enigma e dei codici di decrittazione permise agli Inglesi di conoscere tutto ciò che veniva comunicato tra i vari reparti dell'Asse: dai rifornimenti alle operazioni più segrete, comprese quelle personali degli alti comandi tedeschi e ovviamente italiani. Questa informazione è stata resa nota pochi anni fa: prima era convinzione diffusa che la colpa dei mancati rifornimenti fosse tutta da scaricare sulle spalle del povero alleato italiano e di qualche "spione"all'interno degli Alti Comandi.La prima battaglia di El Alamein si registrò il 1 Luglio 1942 quando Rommel, nonostante fosse consapevole della scarsità di mezzi materiali e umani, tentò la fortuna attaccando le truppe inglesi a Nord del loro schieramento utilizzando la 90.ima Divisione Leggera tedesca che impegnò le truppe inglesi tra El Alamein e Ruweisat, mentre le due divisioni corazzate dell'Africa Korps e il 20° Corpo italiano tentarono l'aggiramento da Sud: le truppe di Auchinleck, il comandante inglese, si batterono egregiamente spronate dall'idea, in caso di sconfitta, di dover lasciare il suolo africano da sconfitti. L'attacco a Sud non ebbe alcun successo in quanto finì tra le truppe indiane che provocarono un arresto inaspettato alla "sorpresa"di Rommel che vide il suo piano di battaglia completamente scompaginato. Il giorno successivo, il 2 Luglio, il Feldmaresciallo inviò L'Afrika Korps in appoggio alla 90.ima Leggera nel tentativo di raggiungere la strada costiera isolando le truppe inglesi e sudafricane che però spensero, ancora una volta, ogni velleità avversaria.Nonostante anche il giorno seguente (3 Luglio) Rommel cercasse di rompere le linee nemiche, il risultato fu sempre il medesimo tanto che dovette abbandonare i propri sogni di gloria. In questo frangente la Divisione corazzata Ariete fu quasi del tutto distrutta nell'attacco a Sud riuscendo a salvare solo 10 carri M13 e alcune di centinaia di uomini, mentre l'attacco a Nord continuò senza dare alcun risultato.L'VIII armata britannica era ancora troppo scossa per raggiungere quella vittoria che sarebbe stata possibile se avesse osato maggiormente invece di temere il mito della "Volpe del deserto". Dopo tre giorni di combattimenti, ormai era chiaro che la situazione era mutata in maniera radicale.Per comprendere a fondo la situazione critica dei rifornimenti sono necessarie alcune precisazioni: quando l'Italia entrò in guerra il 10 Giugno 1940 tutti gli osservatori internazionali si sarebbero aspettati la conquista dell'isola di Malta, una base inglese ormai abbandonata al proprio destino ma che nel futuro diventerà una fastidiosa spina nel fianco delle forze dell'Asse. Nella primavera del 1942 dopo l'intervento tedesco in Italia la base fu quasi completamente distrutta e pronta da essere occupata, tanto che fu anche preparato un piano denominato "Operazione C3"e approntata la forza di sbarco agli ordine dell'Ammiraglio Vittorio Tur. Nel Giugno le forze erano pronte e schierate in Sicilia, ma fu proprio in questo periodo che le rivalità personali nell'esercito tedesco presero il sopravvento: Rommel era convinto di poter finalmente prendere Tobruck, la sua ossessione, pertanto rivolgendosi direttamente al Fuhrer ottenne che molte truppe e mezzi di Kesselring, destinati all'operazione C3, fossero trasferiti momentaneamente in Africa. Rommel avrebbe conquistato il suo obiettivo, che avvenne il 21 Giugno, poi si sarebbe dato vita alla conquista di Malta.Così non fu: dopo la sua vittoria la "Volpe del Deserto"continuò la sua avanzata fino ad El Alamein e Hitler, ormai euforico per i risultati ottenuti e da sempre avverso alle operazioni anfibie, diede l'ordine di abbandonare Malta commettendo uno dei più gravi errori della Seconda Guerra Mondiale.Gli Inglesi diedero nuova vita a quella base e con la conoscenza di tutti i piani di trasferimento convogli, grazie ad Enigma, riuscirono ad affondare numerosissimi carichi che si sarebbero rivelati di importanza capitale per le sorti dell'avanzata verso l'Egitto. Alcune stime prevedono che nei porti della Libia giungesse solo il 60% dei materiali inviati. Come detto la linea del fronte distava molte centinaia di Km, pertanto la quantità che giungeva al fronte sarà raramente superiore al 40%.Tra la fine del 1941 e quella del 1942 si stima che vennero perse:
43 unità da guerra per un totale di 30.000 t.
oltre 6.000 uomini
286 navi mercantili per un totale di 601.170 t. e 760 uomini di equipaggio.Alle perdite delle forze italo - tedesche va assommato il fatto che gli Inglesi ricevettero ingenti aiuti materiali dagli USA che alimentarono in maniera sistematica gli arsenali delle truppe di Auchinleck.Dopo alcuni giorni caratterizzati da infruttuosi tentativi da ambo le parti i due comandanti decisero di arrestare le azioni e riorganizzare le truppe. Si poté così dire conclusa la prima battaglia di El Alamein: "un tiro alla fune"continuo che se non vide vincitore l'esercito inglese, diede dimostrazione che anche quello italo - tedesco era in condizioni estremamente critiche.E'proprio in questo periodo che avvenne l'avvicendamento al vertice delle truppe inglesi: nei primi giorni di agosto Auchinleck venne sostituito da Montgomery che Churchill così definì: "come generale è formidabile ma come uomo è veramente insopportabile".Rommel intanto stava riorganizzando le proprie truppe: dalla Germania giunse la 164.ima Divisione leggera, mentre l'Italia inviò la Divisione paracadutisti Folgore comandata dal generale Frattini che lasciò molto impressionato il Feldmaresciallo. Oltre a queste unità giunse una Brigata paracadutisti tedesca: la Ramcke. Venne formata una nuova Divisione corazzata italiana, la Littorio e gli organici furono pressoché ripianati anche se le scorte ormai erano al limite, in particolare quelle di carburante.L'obiettivo della nuova azione era l'aggiramento della munita posizione di Alam el Halfa ed il raggiungimento della litoranea il più in profondità possibile, dopo di chè la Panzerarmee si sarebbe divisa in tre tronconi: uno avrebbe puntato su Alessandria, uno sul Cairo e il terzo sul Delta del Nilo. Lo schieramento prevedeva:
sull'ala destra avrebbero agito la 15.ima e 20.ima divisione corazzata tedesca e la Littorio ed Ariete italiana con in appoggio la Divisione motorizzata Trieste;
al centro la 90.ima divisione leggera tedesca affiancata dalla brigata Ramcke, la divisione Folgore e la Brescia;
a sud un contingente di paracadutisti tedeschi ed il XXXI battaglione italiano.Alle 22 del 30 Agosto Rommel iniziò l'attacco che però fu immediatamente ritardato dai numerosi campi minati, "i giardini del diavolo", che i reparti si trovarono di fronte. All'alba del 31 la sola Littorio li aveva superati, mentre gli Inglesi che erano in attesa dell'attacco contrattaccarono a loro volta dalle alture di Halam el Halfa e per Rommel questo fu la conferma che la sorpresa era irrimediabilmente perduta. Il carburante cominciò a scarseggiare tanto da obbligarlo a mutare strategia: invece di aggirare le alture preferì attaccarle frontalmente. Questa mossa che Monty si aspettava scatenò una durissima battaglia che si protrasse per tutto il giorno senza alcun risultato da entrambe le parti.Nella giornata successiva la battaglia proseguì in maniera frammentaria in numerosi settori del fronte e la stanchezza e la mancanza di lucidità convinsero Rommel a ordinare la sospensione dell'attacco che da più parti fu ritenuta incomprensibile dato che a quel momento le truppe italo - tedesche erano riuscite ad aggirare gli avamposti di quelle inglesi.La seconda battaglia di El Alamein si concluse con un forte bilancio di perdite per le truppe dell'Asse: 530 caduti, 1350 feriti, 570 dispersi nonché 490 tra carri ed altri mezzi fuori combattimento. La vittoria inglese non fu però da attribuire alla superiorità delle sue forze bensì alle notizie che Ultra intercettò da Enigma ed alle incertezze di un ormai spento Rommel.Dopo le indecisioni palesate dall'armata italo - tedesca e dal suo comandante, l'iniziativa passò nelle mani del generale Montgomery che, parafrasando le parole del generale Patton si "preoccupò più di non perdere la battaglia che di vincerla". Il comandante inglese decise di potenziare la "sua"VIII Armata, in modo da avere un rapporto di forze il più possibile favorevole. Per questo motivo non si sarebbe potuto attaccare a Settembre e dato che per l'offensiva era necessario aspettare un giorno di luna piena si optò per il 23 Ottobre. Per quel giorno tutto sarebbe stato approntato per l'Operazione Lightfoot ( Piede leggero).Un'altra ragione che indusse lo Stato Maggiore inglese a scegliere questa data fu quella che gli USA avevano in piano di inviare un corpo di spedizione contro la Germania facendolo sbarcare in Marocco ed in Algeria. L'Operazione Torch sarebbe scattata l'8 Novembre e con le truppe di Rommel impiegate ad El Alamein l'esercito USA avrebbe dovuto fronteggiare poche e demotivate truppe francesi che presidiavano le colonie africane.Montgomery grazie ai rinforzi affluiti durante l'estate poté contare su 220 mila uomini contro i 108 mila di Rommel, la metà dei quali italiana. Oltre a ciò aveva il dominio incontrastato dei cieli e 1100 carri contro i 200 Tedeschi. Ad aggravare questa situazione il 23 Settembre giunse la notizia della malattia di Rommel che venne momentaneamente sostituito dal generale Stumme.Nella terza ed ultima battaglia di El Alamein le truppe italo - tedesche erano schierate da nord secondo questo schema:
Tra il mare e la depressione di el Mireir: 7° reggimento Bersaglieri; 164.ima Divisione di fanteria tedesca; Divisione di fanteria Trento e Bologna; due battaglioni della Brigata paracadutisti Ramcke.
Tra la depressione di el Mireir e Qaret el Himeimat: Divisione di fanteria Brescia; Divisione paracadutisti Folgore rinforzata con il XXXI battaglione genio; Divisione di fanteria Pavia e due battaglioni della Brigata paracadutisti Ramcke.
A nord la Divisione corazzata Littorio e la 15.ima Divisione corazzata tedesca
A sud la Divisione corazzata Ariete e la 21.ima Divisione corazzata tedesca
In riserva, nel settore nord, la 90.ima Divisione leggera tedesca e la Divisione motorizzata Trieste entrambe a difesa della strada costiera.Le modeste forze aeree erano dislocate negli aeroporti avanzati di Fuka e Abu Aggag:
4° stormo caccia Macchi 202
3° stormo caccia Macchi 202 e CR 42
gruppi caccia Me 109, Stuka e Ju 88 della LuftwaffeLe forze inglesi erano schierate:
tra il mare e il costone del Ruweisat: la 9.a Divisione di fanteria australiana; 51.ima Highlands; 2.a neozelandese, 1.ima sudafricana e 4.a indiana
tra il Ruweisat e Qaret el Himeimat: la 50.ima Divisione di fanteria britannica rinforzata dalla Brigata greca; la 44.ima Divisione di fanteria britannica con la Brigata "France Libre"
A nord la 1.a e 10.a Divisione corazzata inglese
A sud la 7.a Divisone corazzata ingleseAlle 20.40 del 23 Ottobre scattò l'offensiva inglese: quasi 1000 cannoni illuminarono a giorno un tratto di 50 Km. di fronte seguiti dai 1100 carri e dagli oltre 220 mila uomini. L'incessante gragnola di colpi colse del tutto impreparati i vertici delle truppe italo - tedesche che si sarebbero aspettate un attacco a settentrione ma non in quella data: ore di completa confusione colsero lo Stato Maggiore della Panzerarmee, tutti cercavano notizie ma nessuno le seppe fornire e a completare ulteriormente il quadro ci pensò la morte del Generale Stumme.Una prima notizia fu che gli Inglesi non erano riusciti nel loro intento principale: aprire dei varchi nei campi minati del crinale di Miteirya in modo da raggiungere il deserto coi loro mezzi corazzati. Malgrado la confusione i reparti di prima linea avevano reagito con prontezza, tra queste la più provata risultava essere la Folgore che resse l'urto nel settore centrale perdendo cinque delle sue compagnie. A nord tra Tell el Elisa ed il mare gli Australiani attaccarono con scersi risultati le posizioni del 7° Bersaglieri mentre tra Tell el Elisa e il Kidney Ridge gli avamposti della "Trento"e della 164.ima dovettero cedere dopo aspri combattimenti.Fu proprio quella sera che Montgomery, sotto pressione sia da Londra che dai suo comandanti, si trovò a fronteggiare la concreta possibilità di un fallimento. Aveva previsto di sfondare in ventiquattro ore e invece la Panzerarmee aveva retto, nonostante tutto.Con la morte di Stumme il feldmaresciallo Rommel fu costretto ad un tempestivo rientro in linea e subito parti all'attacco, rinfrancato dalla notizie che preziosi rifornimenti di carburante sarebbe giunti in porto. La notizia, ovviamente, fu intercettata e le cisterne affondate.Nelle giornata del 28 riprese intenso l'attacco dell'VIII armata a Nord dove le truppe inglesi volevano superare l'altura di Kidney Ridge ma la risposta dei caposaldi nemici non si fece attendere seppur con forti perdite. A Sud l'11.ima e 12.ima compagnia della Folgore tennero le posizioni a prezzo di ulteriori perdite ma gli Inglesi abbandonarono sul campo 22 carri. Stessa sorte ebbero gli attacchi notturni che spinsero Montgomery a bloccare le offensive in quel settore e concentrarsi maggiormente in quello nord. Convinto di questo, Rommel decise di spostare in quel settore la 21.ima panzer, la 90.ima Divisione leggera e la "Trieste".Lo stesso Montgomery a causa delle gravi perdite subite dall'VIII armata decise di rallentare il ritmo delle azioni per riorganizzare i propri reparti prima dell'attacco conclusivo.Il 29 dopo due giorni di relativa calma l'VIII armata tornò all'attacco. La Divisione australiana del generale Morshead sfondò le difese tedesche della 90.ima leggera e dilagò fino alla costa accerchiando un battaglione bersaglieri e due tedeschi che riuscirono ad aprirsi un varco poche ore dopo. Dopo una settimana di lotta iniziavano a vedersi i segni della stanchezza e della mancanza di rifornimenti: i serbatoi dei carri erano quasi vuoti ma si continuava a combattere, a resistere e a morire a prezzo di gravissime perdite ed altissimi sacrifici.Furono questi atti di eroismo e tenacia che spinsero "Monty" ad attaccare nel settore Sud per cercare di sfondare le linee nemiche. All'una di notte del 2 Novembre scatenò l'attacco che in nome in codice fu definito "Supercharge": 800 carri e 360 cannoni entrarono in azione per permettere alla fanteria di raggiungere la collina di Tell el Aqqaqir, ma, nonostante le nostre truppe fossero sfibrate da giorni di lotta e mancassero completamente di acqua e cibo, gli Inglesi non riuscirono a raggiungere nessuno degli obiettivi. All'alba reparti della 15.ima e 21.ima Divisione corazzata e i resti della Littorio e della Trieste contrattaccarono senza risultati ma con gravissime perdite: la Littorio rimase con soli 20 carri mentre la Trieste perso un battaglione fanteria e quello carri. La stessa fora inglese perse in numero spropositato di carri, la sola IX Brigata ne abbandonò 47 sul terreno.Durante la mattinata Rommel prese, però, la decisione di ritirarsi lasciando ammutoliti sia il comando italiano che l'OKW tedesco che finalmente comprese quanto grave fosse la situazione. Nonostante questo l'ordine di Hitler fu "vittoria o morte"impedendo così il ripiegamento delle truppe verso Fuka e una posizione più sicura.Il giorno 4, intanto, si continuava a combattere. L'offensiva inglese riprese con nuovo slancio e vigore sia verso nord, dove gli Australiani cercarono di dirigersi verso la costa, sia al centro dove la 1.a Divisione corazzata inglese riusci a sfondare tra la 15.ima e 21.ima Divisione corazzata tedesca. A sud, invece, le divisioni Trento e Bologna cedettero di schianto e l'Ariete si consumò sul posto: celebri sono gli ultimi messaggi radio "Ariete accerchiata, Ariete continua a combattere". A sera il XX Corpo Italiani sarà annientato dopo una lotta impari contro 100 carri inglesi. Solo 200 bersaglieri riuscirono a disimpegnarsi.Soltanto la Trieste, unica ad aver mantenuto un certo equipaggiamento, riuscì a retrocedere ordinatamente, le altre divisioni, Pavia, Bologna, Trento, Brescia e Littorio ormai erano ridotte a piccole unità. Altra divisione a coprirsi di gloria fu la Folgore che solo alle 14 del giorno 6, esauriti gli ultimi proiettili da 47 e le ultime cartucce, si arrese suscitando l'ammirazione del nemico.Dopo 12 giorni di lotta per le truppe italo - tedesche iniziò il massacrante ripiegamento. Nei giorni seguenti oltre 35 mila soldati saranno fatti prigionieri. Nel suo complesso si registreranno:
9 mila morti o dispersi
15 mila feriti
400 carri distruttiI tre corpi d'Armata italiani (10°, 20° e 21°) non esistevano più mentre l'VIII armata inglese registrò 5000 morti, 9 mila feriti e 500 carri distrutti.
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25/04/2007 Roberto BIAGIONILa campagna di TunisiaL'impegno delle forze armate italiane nella Seconda Guerra Mondiale viene spesso sintetizzato con la partecipazione alla campagna in Africa Occidentale, nella sanguinosa ritirata dell'Armir in Russia e nello sbarco delle truppe alleate in Sicilia. Spesso, infatti viene dimenticata una serie di operazioni più o meno articolate che, nonostante la scarsa notorietà, ebbero una fondamentale importanza: la campagna in Africa Orientale o quella contro la Francia, le operazioni di sabotaggio dei nostri marò o le azioni belliche dei nostri sottomarini e della nostra aeronautica.Una delle campagne ormai caduta nell'oblio della memoria è quella di Tunisia: da sempre vi è un'associazione mentale che collega la sconfitta di El Alamein e la fine della guerra in Africa Occidentale. In realtà questo è assolutamente falso tanto che per oltre sei mesi le operazioni belliche in terra d'Africa continuarono con una violenza tale che alcuni storici hanno definito questa campagna "una Stalingrado africana". Nel Maggio del 1943, alla conclusione delle ostilità, gli Alleati riuscirono a catturare due intere Armate nemiche: la 5.a corazzata di von Armin e la 1.a di Messe per un totale di 248 mila uomini. Di contro le truppe anglo - americane persero oltre 70 mila soldati tra morti e dispersi riuscendo però a rendere più "semplice"l'attacco all'Italia e il successivo sbarco in Sicilia.Nella notte tra il 7 e 8 novembre ebbe inizio l'Operazione Torch con lo sbarco delle truppe alleate in tre punti strategici dell'Africa settentrionale francese:
Casablanca, sulla costa atlantica, fu affidata ad un contingente americano di 24.500 uomini comandato dal generale di divisione Gorge Patton e trasportato da una flotta navale di 102 mezzi, 29 dei quali adibiti al trasporto truppe.
Orano, sulla costa mediterranea, fu assegnata a 18.500 Americani comandati dal generale di divisione Fredendall e scortati da una forza navale inglese.
Algeri venne assegnata ad una forza da sbarco formata da 9 mila soldati inglesi e altrettanti americani comandati dal generale di divisione americano Ryder.Lo sbarco in territorio francese avvenne senza particolari difficoltà: il maresciallo Petain, a capo del governo filo - fascista di Vichy ordinò alle proprie truppe di resistere e di impedire l'approdo delle truppe alleate, mentre De Gaulle, leader esule di France Libre, le esortò ad accoglierle senza opporre resistenza. Fu propeio questa situazione estremamente confusa a permettere al contingente anglo - americano di sbarcare con relativa tranquillità affrontando qualche isolata scaramuccia con singoli reparti.Dopo la sconfitta in terra egizia il feldmaresciallo Rommel dovette affrontare una situazione drammatica: il suo piano originale era quello di organizzare una linea difensiva nella strettoia di El Agheila nelle vicinanze di Tripoli. ma proprio lo sbarco in territorio francese lo obbligò a retroceder le proprie posizioni per non restar intrappolato nella morsa dei due eserciti nemici. In realtà la volontà della "Volpe del Deserto"era quella di abbandonare l'Africa e di riportare i suoi uomini in territorio italiano dove avrebbe potuto allestire una migliore difesa. Fu lo stesso Hitler a costringerlo ad abbandonare l'idea di una "Dunkerque africana"per continuare la difesa di quel fronte che in precedenza tanto aveva snobbato: ecco l'ennesimo errore di una campagna che si sarebbe potuta concludere vittoriosamente per le truppe dell'Asse. La ritirata di El Alamein, che nei primi giorni sembrò doversi trasformare in una rotta desolante, si tramutò invece nell'ennesima dimostrazione della sapienza tattica del pupillo di Hitler. A onore del vero anche l'atteggiamento timido di Montgomery ,ancora abbagliato dalla fama del suo nemico, permise questo successo. A sua difesa occorre sottolineare come il tempo giocasse a suo favore: le truppe di Eisenhower sarebbero presto giunte a contatto con le avanguardie italo - tedesche che avrebbero dovuto così fronteggiare una nuova minaccia.Il 24 Novembre Rommel giunse ad El Agheila dove erano in fase di formazione alcune divisioni italiane che si unirono al ripiegamento: la Divisione La Spezia, la corazzata Centauro e la Divisone Giovani Fascisti. Furono giorni di inseguimenti, di coraggio e ancora di morti: con una manciata di carri le nostre truppe riuscirono a mantenere il titubante nemico a distanza e a rompere l'accerchiamento di una divisione neozelandese. Nei due me si che seguirono l'VIII Armata cercò di fermare il suo nemico per eccellenza ma sempre con scarsi risultati: solo il 23 Gennaio Tripoli, cadde abbandonata da Rommel per mancanza di mezzi e conquistata da un Montgomery ormai ridotto al limite delle proprie risorse. Nelle proprie memorie si compiacerà di questo risultato: "Sapevo benissimo che se non fossimo riusciti a raggiungere Tripoli entro dieci giorni mi sarei dovuto ritirare per mancanza di rifornimenti". Occorre tener presente che Ultra lo teneva costantemente informato di tutte le mosse del nemico, quindi era perfettamente a conoscenza del fatto che Rommel avrebbe abbandonato la città senza porre alcuna resistenza. Dopo la "conquista"della città anche per l'VIII Armata si palesò l'annoso problema dei rifornimenti: il porto di Alessandria era ormai troppo distante, ma, grazie all'abilità dei suoi genieri, riuscì a riparare in tempi brevissimi il porto di Bengasi avendo così la possibilità di ricevere quotidianamente 3000 tonnellate di materiali. Dopo la definitiva caduta della Libia, le truppe di Rommel si ritirarono in Tunisia schierandosi lungo la linea del Marhet, costruita dall'esercito francese tra il 1936 e il 1940 con una funzione difensiva nei confronti della Libia italiana, fu smantellata nel Giugno del 1940 dagli Italiani che risistemeranno questa "piccola Maginot"quando fu chiaro che l'ultima disperata difesa dell'Africa occidentale si sarebbe concentrata in Tunisia.Nel Novembre 1942, dopo la sconfitta di El Alamein e lo sbarco alleato in Algeria e Marocco, irrompe sulla scena un nuovo personaggio che avrà un ruolo fondamentale nello svolgimento delle future azioni. Il generale von Armin, a capo della V Armata corazzata, fu inviato in Africa con l'obiettivo di creare una testa di ponte in Tunisia. Oltre 65 mila uomini giunsero al suo seguito disponendosi sia per fronteggiare la minaccia proveniente da est, sia quella da ovest. A Dicembre, grazie ai rifornimenti dalla Germania e all'arrivo delle truppe in ritirata dalla Tripolitania le schiere italo - tedesche arrivarono a contare circa 100 mila unità.Il giorno seguente la caduta di Tripoli dal fronte russo fu richiamato il generale Messe che venne nominato da Mussolini comandante le forze italiane in Tunisia. Tutto ciò aprì però una nuova serie di interrogativi: il generale Messe aveva solo giurisdizione sulle truppe italiane o anche su quelle tedesche? Chi avrebbe comandato in Tunisia? Lo stesso Messe, Rommel oppure Kesselring? Proprio quest'ultimo fu scelto dai comandi italiano e tedesco quale capo delle forze armate dello scacchiere africano, mentre le due armate furono assegnate:
a von Armin V Panzerarmee
la I Armata di ritorno dalla Libia fu affidata a Messe che ebbe notevoli problemi a farsi accettare dal sempre più intrattabile Rommel.Mussolini, che fortemente volle Messe a capo della 1.ma Armata invitò il suo generale a resistere in quel lembo di terra per "riprendere l'offensiva nell'estate e riconquistare la Libia". Il nostro comandante, accorto soldato, si rese immediatamente conto dell'entità delle nostre truppe e del loro equipaggiamento: con questi soldati e senza ulteriori rifornimenti sarebbe stato impossibile mantenere le posizioni. Il Duce rispose alle sue proteste con estrema lucidità: "Occorre resistere ad ogni costo, per ritardare l'attacco contro l'Italia, che seguirà fatalmente alla nostra sconfitta in Africa".La 1.ma Armata fu quindi schierata lungo la linea del Mareth nel settore più meridionale, dovendo fronteggiare a sud l'VIII Armata inglese e ad ovest il II Corpo d'Armata americano. Per meglio comprendere le future azioni ecco il quadro delle forze a disposizione del generale Messe:
Quattro divisione di fanteria italiane: La Spezia, Pistoia, Trieste e Giovani Fascisti
Due divisioni corazzate: la nuova Centauro e la 15.ima Panzer
Due divisioni di fanteria tedesche: l'ormai mitica 90.ima leggera e la 164.ima.Dopo la disfata di El Alamein fu ricostituito e tornò in linea anche un battaglione della Folgore composto dai superstiti dell'Egitto. Le sue forze italo - tedesche furono suddivise in due Corpi d'Armata:
XX al comando del generale Orlando
XXI comandato dal generale BerardiIl settore centro - settentrionale della Tunisia fu invece affidato a von Armin e alla sua V Panzearmee, il suo schieramento comprese:
XXX Corpo d'Armata del generale Sogno: formato dalla Divisione Superga del generale Gelich e dalla 50.ima Brigata speciale del generale Imperiali
Nel settore di Gafsa - el Quettar la Divisione corazzata Centauro del generale Calvi di Bergolo
Raparti di bersaglieri del reggimento Lodi e unità di marinai della San Marco incamerati nei reparti tedeschi.Contro queste truppe erano schierate la 1.a Armata britannica del generale Anderson, il XIX Corpo d'Armata francese e il II Corpo d'Armata americano del generale Fredendall.Dopo lo sbarco alleato il primo obiettivo delle truppe anglo - americane supportate da quelle francesi fu quello di conquistare i nodi strategici di Tunisi e Biserta. Partendo dal porto di Bugia, situato tra Algeri e Bona, l'azione fu ben presto ridimensionata sia dalla scarsa collaborazione delle truppe francesi, sia dalla mancanza di coordinamento tra i vari reparti ancora poco esperti. Questa timida offensiva fu sostanzialmente favorita dall'atteggiamento molto remissivo che il generale Nehring decise di adottare; in seguito infatti, le vibrate proteste del feldmaresciallo Kesselring, portarono il 1 Dicembre i Tedeschi ad attaccare servendosi dei nuovi carri appena giunti dalla Germania. Occorre sottolineare che Hitler decise di inviare in un primo tempo i nuovi Panzer IV armati con un cannone da 75 mm. e in seguito un'arma ancora in fase di studio: i carri, modello Tigre, dotati di cannone da 88 mm. e un peso di 56 tonnellate. Furono i Tedeschi, quindi, ad assumere l'iniziativa obbligando le inesperte truppe alleate a retrocedere perdendo sempre più terreno e posizioni. Con l'arrivo di von Armin la situazione degenerò tanto che, anche a causa del maltempo, l'offensiva prevista da Anderson si impantanò permettendo alle truppe tedesche di rioccupare, entro il giorno di Natale, le precedenti posizioni e facendo si che "la corsa verso Tunisi"fosse vinta proprio da questi ultimi.L'idea di intrappolare Rommel tra l'VIII Armata inglese e la !.a Armata di Tunisia dovette per il momento essere abbandonata.All'apparenza la mancata conquista fu una sconfitta, in realtà si rivelerà la più grande vittoria su questo fronte per le truppe anglo - americane: in caso di immediata riuscita dei piani sia Hitler che Mussolini avrebbero dovuto abbandonare l'Africa e ritirare gran parte degli uomini in Sicilia rendendo così "quasi impossibile"l'ingresso in Europa. In questo situazione furono, invece, inviati numerosissimi rinforzi che si troveranno a dover fronteggiare "un mare di nemici"che con il passare del tempo acquisiranno esperienza e soprattutto consapevolezza della loro superiorità tecnica schiacciante.Nonostante la linea del Mareth fosse ottimamente difesa sia a sud che a ovest da paludi salate, Rommel si convinse che la soluzione migliore sarebbe stata quella di retrocedere sull'altopiano roccioso dell'Akarit: "in Africa non c'è linea difensiva che non possa essere aggirata sul fianco"spiegò a Messe durante un incontro il 2 Febbraio nel nuovo quartiere generale di Zelten in Tunisia. Questa idea fu però bocciato dallo stato maggiore italo - tedesco che preferì continuare a mantenere le posizioni avanzate del Marhet.In questo nuovo frangente Rommel, seppur malato, riprese vigore e decise di intraprendere una nuova operazione contro le forze americane di Fredendall. Questa nuova "voglia di fare"creò moltissimi inconvenienti al Comandante il fronte africano; il feldmaresciallo Kesselring: nei primi giorni di Febbraio, grazie all'azione della 21.ima Panzerdivision, von Armin riuscì a conquistare il Passo di Faid controllato dalle truppe francesi e ad ottenere la possibilità di attaccare in maniera massiccia le truppe americane che lo fronteggiavano. Lo stesso Rommel, come abbiamo accennato, avrebbe voluto "dare una lezione"ai nuovi arrivati sfruttando però un piano sostanzialmente differente rispetto a quello del suo rivale. Fu proprio Kesselring a risolvere questa situazione tramite un accordo tra i due contendenti in base al quale:
Von Armin avrebbe attaccato il 12 Febbraio presso Sidi Bou Zid.
Rommel dopo due giorni si sarebbe concentrato sull'oasi di Gafsa.Al termine del colloquio sarà lo stesso Kesselring a liquidare la "Volpe del deserto": "Lasciamo a Rommel la sua ultima occasione di gloria prima che se ne vada dall'Africa".Il 14 scatta l'offensiva di von Armin: si lanciarono all'attacco la 21.ima Panzerdivision rinforzata da un contingente della 10.a. La sorpresa delle truppe americane fu totale, grazie ad un'abile manovra a tenaglia di due contingente della 10.a Divisione il gruppo di combattimento A e C furono annientati, mettendo così fuori uso due battaglioni di carri.Lo stesso Eisenhower corse il rischio di cadere prigioniero in questi scontri.L'obiettivo dell'attacco di Rommel fu invece Gafsa che venne occupata senza sparare un colpo dalla Divisione Centauro in quanto il nemico la evacuò prima del loro attacco. Gli Americani e gli Inglesi ormai si trovarono nel panico tanto che Feriana e i campi d'aviazione di Thelepte furono conquistate. Furono bruciati i magazzini di Tebessa e la confusione ormai si impadronì dei singoli reparti. Rommel iniziò a cullare il sogno di una spettacolare azione di tutte le sue forze verso Tebessa per cercare di far retrocedere "il grosso delle truppe alleate dall'Algeria". La "Volpe del deserto"cercò di forzare il passo di Kassarine per poter finalmente puntare su Tebessa.Fu però von Armin a ostacolare questi piani essendo riluttante ad imbarcarsi in un'azione di questa portata tanto che ritirò la 21.a per paura di sguarnire troppo le sue difese. Rommel è furibondo: contatta il Comando Supremo Italiano che solo la sera del 18 concesse il "via libera"all'operazione con entrambe le divisioni corazzate. L'attacco dovette però essere condotto verso Thale ed El Kef anziché Tebessa. Secondo Rommel questa decisone fu "un incredibile esempio di miopia".La 6.a Divisione corazzata inglese con a sostegno numerosi contingenti di fanteria e artiglieria USA fu posizionata a Thala. Il 20 la 10.a e 15.a Panzer Division conquistarono il passo di Kassarine infliggendo alle truppe americane una pesantissima serie di perdite.Oltre 4000 Americani furono fatti prigionieri, 200 carri e centinaia di mezzi bruciavano illuminando la notte africana, mentre i reparti dell'Asse fecero incetta di ogni genere di razione e armamento che questi inesperti soldati avevano a disposizione. Eisenhower inferocito dalla grande sconfitta sostituì Fridendall con l'energico Patton.Ormai la vittoria era a portata di mano: le truppe americane vacillavano e nelle retrovie si iniziavano a bruciare magazzini e depositi di carburante, proprio in questa occasione, però, Rommel decise di ritirasi e tornare sulla linea del Mareth indiavolato per l'occasione perduta. Rientrato sulla nuova linea del fronte Rommel ricevette la nomina a Comandante al gruppo armate in Africa che non fece altro che aumentare la confusione nelle linee gerarchiche delle forze dell'Asse. La sua nomina fu, però, solo una "trappola"per un suo successivo trasferimento in Italia ma, contrariamente a quanto auspicato da Kesselring, decise di assolvere al suo ruolo nel miglior modo possibile, ovviamente pretendendo l'obbedienza sia di Messe che di von Armin che in realtà avrebbe voluto prendere ordini solo da Kesselring.Dopo il parziale successo dell'"Operazione Brezza di Primavera"Rommel riunì tutti i suoi generali a Uadi Akarit il 28 Febbraio per elaborare un nuovo piano d'attacco contro l'VIII Armata di Montgomery. Cinque ore di discussioni tra ripicche, dispetti e proposte in antitesi resero il clima incandescente fino a che si giunse ad un compresso ancora una volta favorito da Kesselring: si sarebbe superata la catena montuosa del Mattata per attaccare in direzione di Medenine.L'Operazione Capri però nacque sotto i peggiori auspici in quanto Ultra aveva già decrittato tutti i piani d'attacco delle forze dell'Asse, mentre Montgomery attendeva ansioso l'attacco che Rommel tanto bramava. Nelle sue memorie per l'ennesima volta si vanterà delle proprie abilità: "mi attaccò all'alba, iniziativa del tutto insensata. Avevo fatto disporre 500 pezzi anticarro da 75.6 mm; disponevo di 400 carri e buone fanterie che tenevano i principali capisaldi, appoggiate da un pesante sbarramento di artiglierie. Rommel deve essere matto". Il generale inglese potè contare su queste forze:
4 divisioni di fanteria
400 carri armati
350 cannoni
470 cannoni anticarro.Rommel potè invece contrapporre:
3 divisioni corazzate: 10.a; 15.a; 21.a
160 carri armati, meno di quanti ne avrebbe avuto una divisione al completo
200 cannoni
10.000 soldati di fanteria.All'alba la "Volpe del deserto"lanciò i suoi carri in azione, ma il tiro incrociato dei pezzi anticarro, i campi minati e la mancata sorpresa ne fecero un facile bersaglio obbligandolo alle 17 a interrompere l'operazione e a ritirarsi. In questa azione perse circa 50 carri anche se il numero delle vittime umane fu relativamente contenuto: 645.Nei giorni seguenti, in seguito alle critiche dello stesso Furher per il suo comportamento in battaglia, Rommel decise di abbandonare l'Africa per "iniziare immediatamente la sua cura". Il 9 Marzo la "Volpe del Deserto"lascerà il continente che lo rese celebre promettendo di tornare nel caso in cui le cose si fossero messe male. La situazone peggiorò ma Rommel non metterà più piede in terra d'Africa.Con la partenza dell'ingombrante feldmaresciallo vennero ridefinite le gerarchie:
von Armin fu nominato al comando "Gruppo Armate d'Africa"
Messe ottenne il comando effettivo della I Armata
Von Vaerst il comando della V PanzerarmeeDopo aver ordinato un primo ripiegamento sulla linea di Uadi Akarit von Armin annullò il proprio ordine obbligando la I Armata italo - tedesca a mantenere la posizione sulla linea del Marteh. Le truppe del generale Messe erano schierate dal mare verso l'interno in questo modo:
XX Corpo d'Armata del generale Orlando
Divisione Giovani Fascisti comandata dal generale Sozzoni
Divisione Trieste comandata dal generale La Ferla
90.ima Divisione leggera tedesca comandata dal generale Sponeck
XXI Corpo d'Armata del generale Berardi
Divisone La Spezia comandata dal generale Pizzolato
Divisione Pistoia comandata dal generale Falugi
164.ima Divisione leggera tedesca comandata dal generale Liebestein
Raggruppamento Sahariano comandato dal generale Mannerini
Nel settore di Gafsa infine, era schierata la divisione corazzata Centauro comandata dal generale Calvi di Bergolo con il 7° Reggimento bersaglieri.Montgomery in preparazione all'attacco che avrebbe dovuto permettere all'VIII Armata di ricongiungersi con la I Divisione schierò:VIII Armata, che comprendeva:
il XXX° Corpo d'Armata
il X° Corpo d'Armata con 1.a e 7.a divisione corazzata
il Corpo Neozelandese, l'8.a Brigata corazzata
il Raggruppamento francese di LeclercContro il settore di Gafsa, c'era il II° Corpo d'Armata americano del generale Patton.Proprio in questo settore il 17 Marzo le truppe americane attaccarono gli scarsi reggimenti italiani con un vantaggio di 4 uomini a 1. Patton potè contare su 88 mila uomini, ben 4 divisioni, contro i circa 800 Tedeschi e 7850 Italiani facenti parte della Divisione Centauro. Dopo un inizio promettente, in cui gli Americani riuscirono ad impossessarsi di Gafsa senza alcun combattimento, le truppe italo - tedesche si ritirarono in una zona montagnosa in cui gli attacchi americani sortirono scarsi effetti, tanto che Patton sostituì il comandante della 1.a Divisione corazzata Ward per gli insuccessi ottenuti.Il 20 Marzo 1943 prese il via l'operazione "Pugilist Gallop"con la quale l'VIII Armata inglese di Montgomery avrebbe dovuto attaccare frontalmente le posizioni italo - tedesche lungo lo Uadi Zigazou. Anche in questo caso la resitenza dei difensori fu eroica: l'urto del XXX Corpo d'Armata fu contenuto tanto da annullare il tentativo di creare una testa di ponte da parte della 50.ima Divisione. Ancora una volta le nostre misere fanterie si immolarono per resistere un giorno in più, forse un'ora. La Trieste e i Giovani Fascisti si dissanguarono ma il nemico non passò, la sproporzione di mezzi corazzati fu imbarazzante: 620 a 94.Monty è incredulo: tentò ancora la carta della sorpresa, l'aggiramento dal deserto inviando la II Divisione neozelandese giungendo alle spalle del nemico. Appoggiata dall'8.a brigata carri e dal raggruppamento francese di Leclerc e Koenig poteva contare 175 carri ai quali si aggiungeranno quelli della I Divisione corazzata inglese. La sorpresa però non riesce ed a El - Hamma si concentrarono le misere divisioni corazzate 15.ima e 21.ima appoggiate dalla 164.ima di fanteria che riuscirono a bloccare le truppe alleate consentendo al grosso di ripiegare.Il 26 finalmente von Armin decide per il ritiro sulla linea dell'Uadi Akarit a circa 15 Km a nord di Gabes, dove molte migliaia di fanti italiani il giorno seguente saranno catturati dalle truppe inglesi. Il 5 Aprile iniziò l'attacco alle nuove posizioni.Un massiccio bombardamento precedette la battaglia dell'Akarit: 450 cannoni aprirono il fuoco sulla linea tenuta dalle truppe dell'Asse ormai ridotte allo stremo. Contro i 500 carri di Montgomery le nostre lacere divisioni poterono opporne solamente 15. Nonostante questa disparità di mezzi la battaglia fu "violentissima e selvaggia". Contrastato un primo attacco della 1.a Armata al prezzo di ingentissime perdite, nelle successive ondate le truppe italo - tedesche non riuscirono a contenere l'impeto degli Alleati. Sei varchi vennero aperti nella nostra linea, tanto che von Armin fu costretto a far retrocedere il suo esercito da sud a nord di circa 300 Km sulla linea di Enfidaville.Concluso il ripiegamento il 13 Aprile le nostre truppe si prepararono, come scrivere Messe, "a combattere la nostra ultima battaglia". L'ultima difesa fu organizzata tra i colli del Garci e del Takrouna dove giunsero anche numerosi rinforzi dalla Germania, tra cui la Divisione corazzata Goering, ma ormai era troppo tardi.Il 19, i rombi dei cannoni annunciarono l'inizio dello scontro. L'urto più duro ancora una volta venne concentrato nei settori presidiati dalle nostre forze: sul Takrouna si distinsero i reparti della Trieste e i paracadutisti della Folgore tanto che gli stessi Inglesi, poco propensi ai complimenti alle nostre forze, lo riconobbero. "Gli Italiani si batterono come i Tedeschi"scriverà Liddle Hart nelle sue opere. Il giorno 20 cadde il caposaldo di Dj Bir tenuto dalle truppe tedesche che chiamarono "mettere una pezza"i fanti della Trieste. L'insuccesso sul Takrouna portò gli Inglesi ad affermare che "l'Italia in questo luogo ha fatto affluire le sue migliori truppe".Il 21 ancora attacchi: la prima ad essere travolta fu la Folgore poi , verso le 17 fu la vota della Trieste che inviò questo messaggi: "la stazione è assalita da elementi nemici". Si concluse così l'ennesima pagina di resistenza delle nostre povere truppe spesso sottovalutate e denigrate dall'opinione pubblica e dai vertici militari di molti paesi. Il generale Messe scriverà nelle sue memorie: "Sul Takrouna la lotta è veramente epica; i centri di fuoco sulle falde dell'altura continuano a fulminare i reparti nemici che vengono letteralmente decimati; anche i nostri elementi sono assoggettati al fuoco concentrico nemico e al tiro di cecchinaggio da parte di elementi annidatisi nelle case sulla vetta del cucuzzolo, vero torrione quasi inaccessibile. Contro questi partono all'attacco, col classico slancio dei paracudisti, le compagnie del battaglione di formazione Folgore. Per tutto il pomeriggio fino a sera e nella notte è una vera caccia di casa in casa, di sasso in sasso; le perdite sono micidiali per entrambi i contendenti".Il 22 si distinsero i reparti Giovani fascisti e la Divisione Pistoia che resistettero fino al 1 Aprile quando la prima parte della battaglia di Enfidaville poté dirsi conclusa. La strada per Tunisi, nella valle del Mejerda, sorge un colle roccioso che dagli Alleati fu nominato "Longstop". Ampie trincee e campi minati lo circondavano tanto che non riuscirono a forzare l'ingresso. Il 23 Alexander lanciò all'attacco la 78.ima Divisione corazzata che, grazie al sostegno dell'artiglieria, riuscì a giungere in cima. L'urto degli Alleati divenne insostenibile: a Mateur attaccarono gli USA, nella valle del Mejerda e a Enfidaville gli Inglesi mentre a Pont du Fahs i Francesi.Tra il 5 e 6 Aprile la situazione precipitò: il solito devastante attacco delle artiglierie si concentrò su un tratto di appena 3 Km nella regione del Medjer el Bab, le linee tedesche crollarono e dal varco i carri della 5.a e 6.a Divisione corazzata invasero l'interno come un fiume in piena.Il 7 Tunisi fu conquistata, le truppe dell'Asse intanto cedettero sia a ovest che a est della valle del Mejerda. Da Tunisi la 7.a Divisione corazzata si gettò all'inseguimento della 15.a Panzer Division fino a Biserta,. A Pont du Fahs anche i Francesi sfondarono, mentre a combattere rimase solo l'VIII Armata sulla costa di Enfidavile.Il grosso delle truppe di von Armin affluì a Capo Bon per organizzare l'ultima difesa.La battaglia inizia il 9 ma l'11, dopo una spettacolare azione della 6.a Divisione che riuscì a separare i vari contingenti in molte sacche di resistenza, la battaglia finì. I reparti italiani, 5° e 10° bersaglieri e il battaglione Befile della San Marco, aggregati alla V Armata tedesca continuarono a combattere fino all'esaurimento della munizioni.Il generale Messe continuò la propria lotta per arrendersi solamente all'VIII Armata. Se i suoi uomini fossero caduti nelle mani delle truppe francesi il loro destino sarebbe stato segnato. Sarà lo stesso Mussolini ad invitare il generale ad arrendersi con un comunicato telegrafico del 12 Maggio che così recitò: "Poiché gli scopi della resistenza possono considerarsi raggiunti, lascio V.E. libera accettare onorevole resa. A voi e agli eroici superstiti della Prima Armata rinnovo il mio ammirato vivissimo elogio". Messe fu inoltre nominato Maresciallo d'Italia.Alle 12.30 del giorno seguente. Dopo aver distrutto tutte le armi pesanti, le ostilità cessarono.Riportiamo quanto scritto nel bollettino di guerra italiano numero 1083 del 13 Maggio: "La 1.a armata italiana, cui è toccato l'onore dell'ultima resistenza dell'Asse in terra d'Africa, ha cessato per ordine del Duce il combattimento...".La campagna di Tunisia poté dirsi conclusa: negli ultimi mesi di guerra su questo fronte le truppe dell'Asse persero circa 300 mila uomini, nonché la possibilità di opporre una valida resistenza nel prossimo sbarco alleato in terra di Sicilia.Bibliografia:A. Petacco, l'Armata nel deserto, MondadoriG. Bocca, Storia d'Italia nella guerra fascista, MondadoriB. Liddle Hart, Storia militare della S.G.M., MondadoriG.Messe, La mia armata in Tunisia, RizzoliAA.VV, Enciclopedia S.G.M
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25/04/2007 Gianni SANTAMARIADe Felice e l'assurdo storico di un'Italia divisa in duetratto da: Avvenire, 25.3.1999.Esce in rivista il testo di una conferenza dello studioso su "La Resistenza e il Regno del Sud" Dalle tempestose vicende seguite all'8 settembre del 1943 uscirono due Italie? Da un lato, a Nord, quella della Resistenza, "frattura" rispetto al fascismo, dall'altro il Sud liberato e le vicende del governo Badoglio, da vedere invece sotto l'aspetto della continuità? Non era così per Renzo De Felice che giudicava questa ripartizione uno "squilibrio assai evidente e significativo", anzi, un vero e proprio "assurdo storico". Lo sosteneva in una conferenza dal titolo "La Resistenza e il Regno del Sud", tenuta a Salerno nel 1971 nell'ambito degli incontri tra storici italiani e tedeschi promossi dall'Istituto internazionale per i libri scolastici di Braunschweig. Il testo dell'intervento - di difficile reperibilità e testimonianza unica di riflessione sul tema da parte dello storico reatino morto tre anni fa - viene riproposto nel quaderno di «Nuova storia contemporanea» in uscita. Pubblicandolo la rivista rende omaggio a De Felice nel settantesimo dalla nascita. Un testo che il direttore, Francesco Perfetti, definisce "naturalmente datato" e per molti aspetti anche superato dalla riflessione defeliciana successiva, ma non per questo privo di interesse.La distorsione di prospettiva storiografica, a quel tempo ancora poco sanata, era, infatti, per lo storico spiegabile con la visione della Resistenza, "come momento eroico, purificatore e reintegratore della coscienza nazionale italiana", diceva. E preferita, perciò, alle "«grigie» vicende del Sud e dei primi governi romani". Inoltre, era a lui chiaro come "l'egemonia politico-culturale di alcune forze politiche abbia avuto un ruolo decisivo anche sugli studi storici, orientandoli verso il periodo in cui queste forze avevano avuto un ruolo determinante". In realtà, sosteneva, "piaccia o no, storicamente - così come il fascismo non fu né una frattura né una parentesi - la Resistenza non fu una frattura". Così come, pur vedendola allora come un movimento spontaneo e diffuso - giudizio che, nota l'allievo Perfetti, avrebbe rivisto nel suo ultimo volume, postumo e incompiuto «Mussolini l'alleato II. La guerra civile», asserendo l'impossibilità di definirla un movimento popolare di massa - non le attribuiva autonomia, data la decisiva presenza militare anglo-americana.Non dunque due storie, ma un contesto unico, nel quale giocarono un ruolo decisivo l'appoggio degli alleati (con i sovietici) a Badoglio e la diversa situazione dei partiti politici nei due tronconi della penisola. "Nella situazione postarmistiziale, gli alleati erano interessati soprattutto che nelle zone occupate vi fosse un governo italiano sulla cui legittimità non vi fossero dubbi, in modo da poterlo autorevolmente contrapporre, in Italia e all'estero a quello della Rsi e da scoraggiare eventuali tentativi di dar vita in un secondo momento a governi provvisori". Dal canto loro, i rinascenti partiti al Sud erano disorganizzati, malvisti dagli alleati e scollegati dalla popolazione che il fronte di guerra aveva frustrato. "A mettere nel '43-'45 in moto la partecipazione attiva di larghissimi settori del popolo italiano alla lotta politica", nota il biografo di Mussolini "furono, salvo eccezioni non caratterizzanti, l'occupazione tedesca e la Resistenza". L'unità ritrovata dopo la svolta di Salerno, fu un momento per lo studioso più significativo dei due successivi governi Bonomi. Venne costituito infatti tra partiti tanto diversi un compromesso, "una piattaforma politica (e in ultima analisi statale) abbastanza solida da poter assorbire senza troppe scosse la realtà delle regioni in quel momento ancora impegnate nella lotta di liberazione". Un nodo che secondo lo storico è di grandissima importanza e che "non fu sciolto neppure nel '47-48, neppure nel periodo degasperiano". Anzi, "ha condizionato tutto il successivo corso della politica italiana sino ad oggi". Il 1971, informa Rudolf Lill in una postilla al testo, fu l'ultimo anno in cui quei colloqui italo-tedeschi ebbero luogo. Quattro anni dopo scoppierà la querelle intorno all'«Intervista sul fascismo», che viene puntigliosamente ricostruita nel fascicolo da un intervento di Giovanni Belardelli. Ancora una volta De Felice si muoveva contro visioni e ideologie sovrapposte alla storia, alla sua complessità e alla fatica di applicarne i metodi di ricerca.
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22/04/2007


Augusto DEL NOCELa tragedia dell'8 settembre. L'inizio d'una revisione nell'opera di Batolitratto da: Il Tempo, 26.11.1983.Rispetto al fascismo del ventennio si è passati dalla polemica al giudizio storico, che necessariamente non può essere di parte, e che perciò non è né fascista né antifascista. Ma sembra che questo passaggio si sia arrestato davanti alle due date del 25 luglio e dell'8 settembre; rispetto alla cronaca dei fatti è stato scritto il possibile, ma l'interpretazione storica sinora è mancata. Colmare questa lacuna, attenuando perciò sino al limite del possibile le passioni per collocarsi davanti alla prospettiva della storia, è stato l'intendimento di Domenico Bartoli in questo suo libro «L'Italia si arrende. La tragedia dell'8 settembre 1943» (Editoriale Nuova, Milano, L. 16.000). Difficilmente chi lo accosta, riesce a interromperne la lettura, almeno questo è accaduto a me. Naturalmente, trattandosi di un'opera che è agli inizi di una revisione storica, l'ho letta come libro stimolante piuttosto che conclusivo; e dirò degli stimoli che ne ho ricevuto e del consenso con giudizi che divergono dall'opinione corrente. "Triste cosa è sempre la disfatta del proprio Paese anche per chi non abbia accettato le ragioni e gli scopi della guerra; ma la sconfitta diventa ancora più pesante se i vinti sono costretti a invocare la protezione dei vincitori di fronte ai propri alleati, come accadde agli italiani dell'estate del ‘43", scrive Batoli (p. 70) definendo così perfettamente il primo aspetto della tragedia. La «protezione dei vincitori» aveva trasformato l'armistizio dell'8 settembre in un rovesciamento di fronte per cui l'Italia passava dalla parte di chi già allora appariva con pressoché assoluta certezza vincente.Cortigiano della vittoriaNelle grandi opere della nostra letteratura, da Dante in poi, ci sono due immagini dell'italiano, quella che lo richiama all'ideale che dovrebbe incarnare, di erede della maggiore tradizione occidentale di civiltà e di cultura, e quella che lamenta la sua condizione reale di «cortigiano della vittoria» quale che sia la parte vittoriosa. Sembrava che nell'estate del '43 la seconda immagine avesse definitivamente prevalso. Vengono in mente i versi scritti da Malaparte nel 1949, che lo stesso Batoli riporta: "L'otto settembre è giorno memorando - volta la fronte all'invasor nefando - l'Italia con l'antico suo valore - alla vittoria guidò il vincitore - l'otto settembre è memorabil data: volte le spalle all'infausta alleata - già col ginocchio a terra - corremmo a vincere coi nostri nemici - arditamente quella stessa guerra - che avevamo già perso con gli amici". Di quel Malaparte che di parte cambiò molte volte, non però per opportunismo, ma per uno spirito di contraddizione che lo spingeva a mettere in luce la parte di verità che i giudizi prevalenti, o gli ufficiali, riuscivano a occultare. Parziale, perciò, sempre; ma quella parte di verità che il suo discorso conteneva merita di essere discussa.L'accusa di «tradimento» deve perciò essere affrontata, ed è quel che Batoli fa. La sua risposta mi sembra però indulgere talvolta troppo al modulo tradizionale: "Col nazismo la Germania si era collocata al di fuori della civiltà moderna. Non si poteva trattare con essa come un altro Paese occidentale dei nostri tempi. Non restava che tentare di ingannarla" (p. 219). Mi pare che con ciò si dimentichi che chi si allea con un malfattore, quando la fortuna lo favorisce, e poi contribuisce al suo arresto quando le sorti cambiano, non cessa perciò di essere un traditore. Prescindiamo dal fatto che nessuno in Italia sapeva allora delle camere a gas e dei campi di sterminio; di quel genocidio premeditato che sarebbe stato indubbiamente ragione moralmente obbligante per rompere l'alleanza. Ma fino alle battaglie perdute di Alamein e di Stalingrado, fino, insomma, al nuovo corso che prendeva la guerra, il consenso c'era stato; e non è certo difficile cercare gli atti di adesione dell'Asse, e le interpretazioni storiche che cercavano darne, di intellettuali che dopo l'8 settembre si presentarono come maestri di antifascismo; ed è da osservare che si trattava di atti molte volte non richiesti, e perciò a loro modo da considerare sinceri, spiegabili, ancor più che con ragioni interessate, con il fascino indiscutibile che esercita la tentazione di unificare «causa giusta» e «vittoria». So bene che si parla oggi del criptoantifascismo dei GUF o della rivista «Primato»; ma si tratta di leggende, per non dire di favole. Vano è cercare una causa morale nel rovesciamento delle alleanze; la ragione è una sola, la guerra perduta (col che non si vuol certo negare l'esistenza di una minoranza antifascista, ferma nel restar tale anche dopo un'eventuale trionfo nazista; ma la sua azione veniva del tutto neutralizzata e paralizzata, finché si vinceva, dai successi, argomento sentito dai più come decisivo).Risparmiare nuovi luttiE, tuttavia, non di «tradimento» si deve parlare, ma di «tragedia». In quei primi di settembre del '43 erano infatti possibili due ragionamenti in nessun modo mediabili. Il primo può venire così riassunto: quando la guerra si presenta come irrimediabilmente perduta, è dovere del Sovrano cercare di risparmiare al suo popolo nuovi lutti e nuove distruzioni; e perciò non continuare la guerra fino al momento della «debellatio»; e non importa se l'alleato, alla cui volontà è preciso dovere non essere subordinati, sia d'altro parere; occorre perciò cercare un'uscita dalla guerra che eviti, per quanto possibile, il rovesciamento di fronte. E' il giudizio cui si attenne con la più scrupolosa coerenza il re Vittorio Emanuele III, a cui molti precedenti errori possono essere imputati, ma non questo atteggiamento. E Batoli, che ha il merito di chiarirlo in maniera esemplare, riferisce, condividendolo, il giudizio del generale tedesco von Senger, il difensore di Cassino, secondo cui "Vittorio Emanuele ordinando di concludere l'armistizio fece quel che avrebbe dovuto fare come nella prima guerra mondiale, dopo Caporetto, quando invece aveva energicamente impersonato la volontà di resistenza e di ripresa" (p. 43). La tesi della «fuga ignominiosa» è calunnia priva di alcun fondamento: era proprio invece il dovere del Sovrano a esigere la «fuga a Pescara» per la salvezza della continuità dello Stato. Quel dovere che può talvolta esigere da un re la morte eroica, può talvolta richiedere di salvarsi, magari nelle vesti del fuggiasco, e nel rischio di esser giudicato tale.Rottura delle alleanzeE' però da aggiungere che il re, pur agendo con una coerenza che deve oggi non esser più messa in discussione, e per una sincera devozione alla causa del suo popolo, si atteneva ad una concezione tradizionale della guerra e delle alleanze, quella per cui «la pace separata» era concepibile; ma nell'impostazione della guerra comune alle due parti, come rivoluzione mondiale, la rottura dell'alleanza era destinata inevitabilmente a diventare quel rovesciamento di fronte che il re non voleva. Così che nella forma in cui coincidevano l'armistizio prima, la cobelligeranza poi, gli alleati mostravano di considerare gli italiani secondo quel giudizio deteriore che prima ho detto.Non bisogna dimenticare che la storia dell'Italia nel ventennio era caratterizzata dal progressivo avanzare di una diarchia, di una doppia sovranità, del re e del duce, diretta, la seconda, all'erosione progressiva, sino all'estinzione, della prima così che la monarchia finiva con l'apparire come un organo mal tollerato, del regime fascista; situazione che il re aveva sopportato, molto a malincuore, per il timore di quel maggior male che sarebbe stata la guerra civile. Ora questo regime aveva stretto un patto d'acciaio con la Germania, tale che in linea di principio non poteva essere infranto in una guerra che aveva assunto, da entrambe le parti, il carattere di guerra «di religione senza religione», quanto a dire di guerra di sterminio. La resa senza condizioni voleva dunque dire, per gli italiani, accettazione di farsi strumento per quella sorte da riservare all'alleato tedesco che i nuovi alleati avrebbero preferito; forse anche quella, e la proposta fu avanzata, di ridurre il popolo tedesco alla pastorizia.Date queste circostanze, non stupisce che molti, in nome dell'onore e della fedeltà, giudicassero che la guerra , anche se quasi certamente perduta, dovesse essere combattuta sino alla morte. E Bartoli riconosce che dalla parte di Salò si schierò "gente in buona fede, illusa dal mito della fedeltà all'alleato"; anche se ritrovò in compagnia di avventurieri senza scrupoli e di fanatici ottusi, ma questi non mancano mai, da una parte e dall'altra, in ogni guerra civile. Egli deve riconoscere a questo punto la singolarità di un fatto su cui non si è portata sinora sufficientemente l'attenzione. Il 25 luglio, il fascismo era crollato senza resistenza; dopo l'8 settembre la Repubblica Sociale trovò un numero consistente di aderenti. Continuazione, per usare una distinzione che si è fatta ormai consueta, del fascismo movimento, dopo che il fascismo regime si era spento? Non direi; non era tanto il mito del duce ad animare questo nuovo fascismo , quanto quello appunto dell'«onore della fedeltà», dei «pacta sunt servanda», e la preoccupazione di allontanare dall'Italia la taccia del costante tradimento. Nella situazione nuova che si era venuta a creare dopo l'armistizio coesistevano questi due opposti giudizi; e la tragedia italiana stava appunto nella lacerazione interiore che tale compresenza determinava.Crolla il mito della grande potenzaPossiamo cercare di definire in una frase il significato dell'8 settembre? Direi che fu la tragedia in cui doveva finire la diarchia che aveva a condizione del suo funzionamento il successo. Il 25 luglio sembrava che la monarchia avesse in qualche modo riassorbito la crisi diarchia attraverso l'autoliquidazione del regime fascista sancita dal Gran Consiglio; ma la crisi scoppiò dopo l'8 settembre, dando luogo alla guerra civile. Se è regola di ogni monarca temere la guerra civile più di qualsiasi guerra esterna, è forse la fedeltà a essa il filo che permette di intendere l'intera politica che Vittorio Emanuele praticò durante tutto il suo regno, incluso l'intervento nella prima guerra mondiale. Presago probabilmente che la guerra civile avrebbe determinato le condizioni per la fine della monarchia, come avvenne. Prende infatti inizio con l'8 settembre il processo che per la monarchia si conclude il 2 giugno, punto che Batoli mette giustamente in rilievo.Nell'epilogo egli scrive che l'8 settembre fu il crollo del mito dell'Italia grande potenza; mito non nato col fascismo, ma già presente nel Risorgimento, e poi alimentato dal contributo che l'Italia nella prima guerra mondiale aveva dato all'abbattimento dell'impero asburgico (lasciamo da parte il discorso, oggi facile ma pronunziato con quanto ritardo, sulle disastrose conseguenze di questo evento), e poi portato alle estreme conseguenze dal fascismo. Sotto questo riguardo si può forse dire che l'8 settembre fu la conclusione di un'avventura iniziata con l'intervento nella prima guerra mondiale; in quella che mi si permetterà di giudicare «suicidio di Europa» e «inutile strage».Ma l'idea di una grande potenza ha due aspetti, il materiale e il morale. Ora, l'aspetto morale avrebbe potuto essere meglio custodito, se anziché cedere, negli onesti, ai miti dell'autoredenzione rispetto all'uno o all'altro degli alleati, o alle varie volontà rivoluzionarie, azioniste o comuniste o anche repubblicane di Salò, oppure negli opportunisti all'ambizione di inserirsi nel nuovo ordine o alla ricerca di far dimenticare i trascorsi fascisti, accendendo così l'esca della guerra civile, gli italiani si fossero uniti in una volontà di pace. E' mia convinzione che se si fosse seguita questa linea, non soltanto si sarebbero evitati molti lutti, ma si sarebbero stabilite migliori condizioni per i decenni seguiti alla guerra.
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22/04/2007 Lettere del gen. Usa Smith al gen. Castellanotratto da: 30 Giorni, anno XXI, aprile 2003, p. 59-61.5 dicembre 1943.Caro generale Castellano,oggi ho compilato per conoscenza personale del generale Eisenhower una relazione sulle circostanze nelle quali si svolsero le conferenze ed i negoziati che portarono alla firma dell'armistizio.Vi sono alcune circostanze in relazione con questi negoziati che non sono state ancora rese note a voi e sono sicuro che v'interesserà conoscerle dato che convinceranno voi e dovrebbero convincere il governo italiano del valore dei servizi resi da voi all'Italia e delle difficoltà sotto le quali avete lavorato.Precedentemente al nostro primo incontro a Lisbona, il capo del servizio informazioni aveva preso i necessari provvedimenti per identificarvi con esattezza e per conoscere la vostra posizione nelle forze armate italiane. Si sarebbe potuto prevedere che le trattative sarebbero state condotte inizialmente da un ministro del governo italiano ma la vostra posizione di capo dell'Ufficio Piani e le vostre relazioni col generale Ambrosio ci fecero credere che voi eravate un logico emissario sul terreno militare.Eravamo pure stati informati che voi eravate un rappresentante autorizzato del maresciallo Badoglio.Il generale Eisenhower aveva completa fiducia nell'onestà degli intendimenti del maresciallo e posso affermare che dopo le nostre conversazioni con voi, tanto io che il generale Strong fummo convinti della vostra onestà. Lo zelo con il quale avete cercato in tutti i modi di salvaguardare l'onore militare e gli interessi politici dell'Italia ci ha confermato in questa opinione.Benché fossimo convinti, come ho detto, della vostra lealtà e di quella del maresciallo che voi rappresentavate, non eravamo per nulla sicuri che le trattative potessero terminare senza che i tedeschi ne venissero a conoscenza. Ed abbiamo avuto la sensazione che vi fosse il gran pericolo di un colpo di Stato da parte dei tedeschi, ciò che avrebbe reso impotente il governo italiano. Per questo motivo nulla mi avrebbe convinto a dare alcuna dettagliata informazione sui nostri piani, i quali, come voi sapete, erano già stati concretati.Inoltre l'arrivo del generale Zanussi a Lisbona dopo la vostra partenza, fece nascere in noi qualche sospetto e confermò la decisione di non dare alcuna informazione che potesse rivelare i nostri intendimenti operativi.Voi comprenderete che restava sempre nella nostra mente l'ipotesi che la vostra visita fosse uno stratagemma di guerra, un audace tentativo per carpire informazioni sui nostri intendimenti, senza alcuna intenzione però di attenersi a quanto concordato.Nessun soldato può mai scartare questa ipotesi, per quanto personalmente possa avere assoluta fede nella lealtà del nemico con cui sta trattando.Ho l'impressione che voi siete stato criticato per non essere riuscito ad ottenere informazioni sulla data ed il luogo dei nostri prestabiliti sbarchi. Vi assicuro che nessuna considerazione mi avrebbe indotto a rivelare queste notizie e avrei troncate le trattative piuttosto che fare ciò.Fin dal nostro ultimo incontro in Sicilia ho dato molto peso al fallito piano di lanciare una divisione paracadutisti presso Roma.Dopo d'allora le truppe italiane che sono state impiegate a nord di Napoli contro i tedeschi si sono comportate onorevolmente.Quindi, tanto io, che gli ufficiali del nostro Ufficio Piani, restiamo convinti che quel piano avrebbe potuto essere attuato con successo se a capo delle divisioni dislocate attorno a Roma vi fosse stato un ufficiale coraggioso, energico, deciso e convinto anche lui della possibilità del successo.Ciò non deve essere interpretato come una critica nei riguardi dei comandanti italiani. Non vediamo tutti le cose allo stesso modo e, come vi ho detto prima, io stimo il valore combattivo delle unità italiane più di quanto non lo apprezzino alcuni italiani. Voi sapete che durante la scorsa grande guerra io ho comandato un reparto costituito quasi completamente da italo-americani, reparto citato diverse volte per il suo comportamento nel corso di varie azioni.Può anche essere che io non abbia valutato accuratamente la situazione esistente al 3 settembre scorso.Infine desidero che voi sappiate che sebbene non vi fosse alcun sentimento di vendetta da parte delle Nazioni Unite contro il popolo italiano, le condizioni che intendevano inizialmente proporre erano alquanto più dure di quelle sulle quali si è in seguito raggiunto l'accordo. Ciò fu dovuto in parte alla vostra insistenza, in parte al sentimento di fiducia ed onestà di intendimenti che ci avete ispirato.Tanto il generale Strong che io, nel ricordare gli avvenimenti precedenti e posteriori all'armistizio, abbiamo affermato parecchie volte che voi avete ben meritato da parte del vostro governo e del popolo italiano.Io non credo che nessuno, tranne [un] onesto e rispettabile soldato, avrebbe potuto concludere con noi l'accordo che voi avete concluso, se si considera il fatto che le nostre forze d'assalto erano già in alto mare e che nulla avrebbe potuto farci ritardare o arrestare le nostre progettate operazioni.Credo che questi fatti dovrebbero essere per voi una fonte di soddisfazione.Molto sinceramente,Smith,Capo di Stato Maggiore Usa.21 gennaio 1946.Caro generale Castellano,le invio i miei ringraziamenti per i suoi gentili ed affettuosi auguri di capodanno; ho molto piacere di saperla in buona salute e le auguro ogni bene per l'anno nuovo.Lei sa quanto mi abbia fatto piacere la sua visita a Francoforte e che sarà sempre il benvenuto, dovunque io sia.Sono contento di cogliere questa occasione per ringraziarla sugli eventi che condussero all'armistizio con l'Italia. Il timore che non possa essere pienamente apprezzata dal popolo italiano la grande parte da lei avuta in quei negoziati mi ha procurato molta sorpresa e spero che la sua accurata e completa relazione gioverà molto a dissipare ogni ombra.Ella ha fatto per il suo Paese più di quanto ogni altro negoziatore sarebbe riuscito a fare in quelle circostanze. Se non fosse stato per la fiducia che ella personalmente ispirava, può essere sicuro che i delegati delle potenze alleate sarebbero stati molto più freddi e sospettosi e molto propensi a concedere promesse ufficiali di cooperazione.Io rimpiangerò sempre che noi non potemmo, per l'atteggiamento del comando militare italiano di Roma, intraprendere la nostra progettata operazione aviotrasportata per la sicurezza di Roma e dintorni. Ella stesso sa con quanta decisione e buona volontà fu preparata quella operazione, io personalmente credo che avrebbe avuto successo, e sono sicuro che ella sarà d'accordo con me.Spero che quando pubblicherà il suo libro vorrà farmene avere una copia, in modo che io possa avere un completo ricordo dei grandi eventi di cui siamo stati partecipi.Cordialmente,W.B. Smith,Tenente generale, U.S.Army.
Data inserimento:Eugenio DI RIENZOTraditi dai partigiani, uccisi dai tedeschitratto da: Il Giornale, 4.9.2007.Otto settembre 1943. La firma dell'armistizio tra Italia e Nazioni unite e il conseguente ribaltamento delle alleanze provoca la furiosa reazione dell'esercito tedesco contro le nostre truppe. Molti i casi di sbandamento dei militari in grigioverde, ma molti anche gli episodi di eroica resistenza, come quello della divisione «Perugia», che siamo in grado di narrare sulla scorta di una ricca documentazione inedita conservata presso l'Archivio dello Stato maggiore dell'Esercito.La divisione «Perugia», con sede del comando ad Argirocastro, era dislocata nel Sud dell'Albania, in prossimità del confine greco, e presidiava alla data dell'8 settembre la zona di Permeti, Klisura, Tepeleni, distante qualche centinaia di chilometri dal canale d'Otranto. Secondo il diario del colonnello Giuseppe Adami, vice-comandante della divisione e responsabile del settore di Tepeleni, la notizia dell'armistizio viene accolta «con calma e disciplina» da ufficiali e soldati. A differenza di quanto accaduto a Cefalonia, la decisione di opporre resistenza è unanime e induce Adami a prendere contatto con le autorità civili e religiose della regione per assicurarsi «il loro appoggio per la tranquillità della popolazione». Nel primo pomeriggio dell'8, l'intimazione tedesca di consegnare le armi viene respinta con decisione e alcune postazioni smantellate dalle truppe naziste vengono prontamente ricostituite, in pieno accordo con il generale comandante Chiminello. Poche ore più tardi, filtrano però notizie inquietanti sulla volontà delle formazioni partigiane albanesi di sopraffare i presidi italiani di Permeti e di Klisura, che sono costretti a ripiegare su Tepeleni, nelle cui vicinanze si accendono scaramucce con i ribelli. Adami ordina la «difesa ad oltranza» contro questa nuova aggressione ma allo stesso tempo decide di intavolare una trattativa con le bande nazionaliste, tra le cui file risulta essere presente anche un ufficiale di collegamento britannico. La situazione si aggravava ulteriormente tra il 10 e l'11 settembre, quando anche Argirocastro viene circondata dagli albanesi e il comando di divisione lascia libero Adami di «operare di sua iniziativa, secondo situazione contingente».L'obiettivo di organizzare un'«azione concorde contro i tedeschi», a fianco dei resistenti, viene faticosamente raggiunto, il giorno 12, dopo alcuni atti di buona volontà da parte italiana, tra i quali il ricovero nell'ospedale di partigiani feriti, la cessione di parte del materiale sanitario, il rifiuto di fornire copertura di artiglieria a colonne germaniche attaccate dagli insorti, nonostante le «minacce di ritorsione» del comando tedesco. Se le bande nazionaliste si impegnano a non ostacolare il ripiegamento dei nostri battaglioni verso Tepeleni, quelle comuniste si dichiarano addirittura favorevoli ad un accordo di cooperazione, che dovrebbe prevedere un «attacco simultaneo e concomitante (italiano e albanese) contro forze tedesche» e la «messa in opera di due interruzioni stradali sulla strada Valona-Argirocastro». La notizia dell'afflusso di un reparto corazzato della Wehrmacht, proveniente dalla Grecia, smorza però la combattività degli albanesi, che dichiarano al nostro comando di non «sentirsi di affrontare nuovi rinforzi tedeschi». I panzer, superati i blocchi dei partigiani, «rivelatisi di scarsissima efficacia, praticamente nulli», prendono posizione alle porte di Tepeleni, mentre i nostri soldati contemplano «le luci dei ribelli che si allontanano».Nella mattina del 13, le truppe italiane vengono bombardate da una squadriglia di Stuka. Nelle stesse ore, giunge notizia che il ripiegamento dei nostri presìdi viene arrestato nella valle della Vojussa dalle formazioni nazionaliste, che riprendono le ostilità, in spregio agli accordi pattuiti. All'attacco si aggiungono anche le bande comuniste, che operano in prossimità di Tepeleni, sotto lo sguardo impassibile delle truppe germaniche. La sensazione di Adami è che sia conclusa una scellerata alleanza tra albanesi e tedeschi, a danno delle nostre truppe, che si asserragliano nell'antico forte della cittadina albanese, con «poche munizioni, pochi viveri». Accerchiato tra due fuochi, Adami decide, il 14 settembre, di accettare la proposta tedesca di confluire verso il porto di Valona, dove si afferma «essere già in corso le operazioni di imbarco delle truppe italiane verso l'Italia». La marcia verso il mare della Perugia avviene ordinatamente, con propri mezzi, al completo di tutto l'armamento pesante e leggero. Questa misura salva le nostre truppe dall'annientamento, quando il giorno 15, esse vengono investite da un violento attacco albanese. Sottoposte ad un fitto tiro di mortai, gli italiani riescono a sfuggire all'imboscata combattendo, ostacolate nell'operazione di sganciamento «da truppe tedesche che sparano contro di noi per impedire l'allontanamento degli italiani». Giunta a Valona, la colonna Adami attende invano l'arrivo delle navi italiane, che penetrate nella rada sono state cannoneggiate dai tedeschi e respinte, ed è costretta ad accettare una nuova offerta del comando germanico, relativa al suo trasferimento «senza scorta», per ferrovia, verso Trieste. Durante il tragitto, l'itinerario viene proditoriamente cambiato e «si giunge a Vienna dove reparti delle SS salgono in treno ed effettuano disarmo ufficiali e soldati, dichiarandoci prigionieri».Durante la reclusione in Germania, Adami apprende da alcuni sopravvissuti la sorte dei reparti della «Perugia» restati sotto il comando di Chiminello. Rotto l'accerchiamento albanese dopo un violento scontro fuori Argirocastro, anche questa parte della divisione raggiunge la costa, presso Porto Palermo, alla fine di settembre, dove, invece delle navi della Regia marina, trova «reparti tedeschi che mitragliano e bombardano le nostre colonne». «Dopo due giorni di dura resistenza» - continua il diario di Adami - «le truppe italiane, prive di viveri e di munizioni, nonché scarse di armi e ostacolate dai ribelli, vengono sopraffatte dai tedeschi e catturate». Successivamente alla resa, inizia la mattanza. «Gli ufficiali, separati dalla truppa, vengono imbarcati a otto alla volta su battelli, trasportati al largo e gettati in mare, non si sa se previa fucilazione», mentre «i soldati dalla spiaggia assistono impotenti a questo inumano massacro».Più di 150 ufficiali e molti graduati periscono nella strage. I militari di truppa «vengono invece avviati verso la Grecia, senza viveri: chi per la stanchezza si ferma è ucciso». Non meno triste sorte toccherà ai pochi scampati alla cattura. Secondo la testimonianza di un altro ufficiale sopravvissuto, il colonnello Giovanni Rossi, «gli uomini della "Perugia" datisi alla montagna per sfuggire ai tedeschi, specie gli ufficiali, vennero fatti oggetto da parte dei partigiani albanesi di rappresaglia e parecchi vi lasciarono la vita, mentre altri furono derubati e spogliati in buona parte dei loro indumenti». In questo modo, «i ribelli vollero vendicarsi su inermi dello scacco loro inflitto dalla divisione "Perugia", il 14 settembre, ad Argirocastro, in un combattimento da essi stessi provocato e svoltosi nel mondo più regolare».
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05/09/2007 Emilio BIAGINILa distruzione Monte Cassinotratto da: effedieffe.com.[...] Molto spesso chi perde, sia perché vittima della sindrome di Stoccolma, sia per ingraziarsi il vincitore, sia perché già prima trescava col nemico, diventa il più accanito propagandista della storia «ufficiale».Il professor Manfred Schick tenta meritoriamente di contrastare questo perverso processo in un libro sulla distruzione di Monte Cassino ("Monte Cassino. Ein Ruckblick nach 60 Jahren", Verlag «Buchdienst Sudtirol», 2004).Lo fa sulla base di una serrata documentazione che include, oltre alle sue personali memorie, anche quelle di decine di altri testimoni oculari dei fatti, non solo suoi commilitoni, ma anche di ex combattenti nemici, di osservatori neutrali, di civili.Dopo la guerra, il professor Schick si è affermato come geografo di riconosciuto valore.Al tempo dei fatti narrati era radiotelegrafista della 44a Divisione di fanteria «Hoch-und Deutschmeister», gloriosa erede della tradizione dei cavalieri teutonici, un ordine formato dai cavalieri crociati tedeschi nel 1190.Dopo la perdita di Gerusalemme nel 1226, l'imperatore Federico II, mediante la «bolla aurea» di Rimini conferì loro l'incarico di colonizzare ed evangelizzare le terre ad est della bassa Elba.Nel 1525 il margravio del Brandeburgo Albrecht, che era pure «alto maestro» (hochmeister) dell'Ordine, abiurò il cattolicesimo per farsi protestante, così che il Brandeburgo cessò di essere uno Stato dell'Ordine e divenne uno Stato laico.I rimanenti cavalieri si fusero con i deutschmeister cattolici dell'Impero e nacque così, nel 1530, l'Ordine degli «Hoch-und Deutschmeister», sulla base del quale venne costituito dal conte palatino Franz Ludwig il reggimento imperiale detto «Teutschmeisterregiment», nel quale militavano eredi degli antichi cavalieri e nuove reclute.Il conte pose il reggimento a disposizione dell'imperatore, il quale ne fece buon uso, dal 1696 in poi, nelle guerre contro i turchi, sotto la guida del principe Eugenio di Savoia.La bandiera del reggimento fu preparata personalmente dall'imperatrice Eleonora.Si trattava ovviamente di un corpo di élite, che si batté eroicamente nella battaglia di Zenta e nella liberazione di Belgrado (1717).Proprio a membri del reggimento è dovuta la composizione del canto celebrativo «Prinz Eugen, der edle Ritter» (il principe Eugenio, nobile cavaliere).Nel tormentato periodo dal 1732 al 1761, che vide farsi sempre più minacciosa la potenza prussiana, il reggimento fu sotto il comando del principe elettore Clemente Augusto, della casata bavarese dei Wittelsbach.Alla morte di costui, l'unità passò alle dirette dipendenze dell'Impero, allora sotto lo scettro della grande imperatrice Maria Teresa; inizialmente fu comandato da Carlo di Lorena, cognato dell'imperatrice, e dal 1780 in poi, sempre da prìncipi della casata di Asburgo.Questa unità scelta si distinse costantemente per onore ed eroismo in tutte le guerre europee, partecipando alle vittorie di Kolin contro Federico il Grande di Prussia, e di Aspen contro Napoleone.Combatté poi nel 1849 contro l'Ungheria, nel 1864 contro la Danimarca, nel 1866 contro la Prussia.Durante la prima guerra mondiale fu sul fronte russo, dove il suo comandante, il colonnello von Holzhausen cadde al primo scontro, e su quello italiano.Nel 1936, nel ricostituito esercito austriaco, nacque un nuovo reggimento «Hoch-und Deutschmeister», il quale, nel 1938, dopo l'Anschluss, fu incorporato nella 44a divisione di fanteria, prevalentemente formata da viennesi.Dopo aver partecipato alle campagne di Polonia e di Francia, la divisione combattè sul fronte russo e finì annientata nella sacca di Stalingrado.Con i pochi sopravvissuti e con nuove reclute, venne ricostituita nei pressi di Anversa, in quelle che erano state le Fiandre austriache, la nuova 44a divisione «Hoch-und Deutschmeister».Veterani e reclute si amalgamarono presto e la grande unità fu pronta ad entrare in azione dal 1° giugno 1943.Venne schierata sul fronte italiano, e le vicende della guerra la portarono a combattere nella zona di Terelle, a nord di Cassino.Qui, tra il dicembre 1943 e il maggio 1944, gli «Hoch-und Deutschmeister» presero parte alle quattro battaglie di Cassino, fronteggiando, senza copertura aerea, nemici appoggiati da una potente aviazione, quattro volte più numerosi e dieci volte superiori in fatto di artiglieria e mezzi corazzati.Grazie non solo al loro valore, ma anche alla loro ingegnosità, le truppe germaniche riuscirono a fermare l'avanzata nemica per ben sei mesi, infliggendo al nemico perdite assai superiori alle proprie, ritirandosi solo dopo che le soverchianti forze avversarie erano riuscite a sfondare il fronte nella zona di Terelle, aggirando il colle dell'abbazia.Soldati di moltissime nazioni presero parte alla battaglia dalla parte degli alleati.Oltre ad americani e britannici vi erano polacchi e francesi, indiani e nepalesi, neozelandesi e nordafricani.Si distinsero per ferocia i marocchini, i quali consideravano tutte le donne che incontravano come loro legittima preda, non esitando a massacrare mariti, fratelli e padri che cercavano di difendere le loro donne.Il martirio della popolazione nella cittadina di Esperia viene ancora ricordato con orrore, e nei raduni di reduci, che raccolgono regolarmente, in spirito di riconciliazione, i veterani dei contrapposti eserciti, i nordafricani non vengono invitati per motivi di indegnità e per evitare disordini.Fra i soldati di tutte le nazionalità che presero parte ai combattimenti, quelli che hanno lasciato ricordi migliori nelle popolazioni locali sono senza dubbio i germanici, i cui reduci vengono tuttora accolti col massimo favore.I tedeschi dividevano i loro scarsi viveri con le popolazioni italiane; dai ricchissimi americani avanzanti, la popolazione ricevette 100 grammi di farina a testa.La venerabile abbazia di Monte Cassino, casa madre dei Benedettini, fondata dallo stesso san Benedetto nel 529, e fulcro del monachesimo occidentale, venne a trovarsi sulla linea del fuoco.[...]Il comandante della Quinta Armata statunitense, il generale Mark Clark, si opponeva infatti alla distruzione del venerabile monumento, caldeggiata dai suoi colleghi britannici, ma doveva fare i conti con loro perché il primo attacco sul fronte di Cassino era stato respinto e la 36ª divisione del Texas aveva dovuto esser ritirata nelle retrovie a causa delle ingenti perdite subìte, così che l'armata americana, in mancanza di riserve, era stata costretta a schierare, proprio di fronte a Monte Cassino, il corpo d'armata del generale britannico Bernard Freyberg, formato da una divisione neozelandese e da una indiana.Freyberg era un protetto del primo ministro britannico Winston Churchill e del maresciallo Montgomery, che da lui si aspettavano una rapida vittoria.Freyberg e il suo sottoposto neozelandese, generale Tucker, sostenevano che l'abbazia fosse la maggior responsabile della situazione di stallo imposta dai tedeschi alle forze alleate in Italia.Infine Tucker trovò in una libreria di Napoli un libercolo nel quale si diceva che nel secolo IX l'abbazia era stata fortificata: in quella lontana epoca, infatti, era indispensabile proteggersi dalle frequenti e mortali scorrerie dei saraceni.[...]Le fatiche bibliofile di Tucker non restarono senza risultato.In base al dato storico secondo cui l'abbazia era stata fortificata oltre un millennio prima, e forti del fatto che le truppe in prima linea erano le loro, Freyberg e Tucker insistettero tanto da persuadere Clark — che aveva inizialmente definito «insensata» l'idea del bombardamento — ad ordinare l'attacco aereo.Questo ebbe luogo il 15 febbraio 1944 e devastò il venerabile edificio, uccidendo 400 degli oltre 1500 profughi, in gran parte donne e bambini, che vi avevano trovato rifugio.In tanto disastro, l'unico raggio di luce era il fatto che le truppe della Wehrmacht, nonostante la scarsità di mezzi e le continue incursioni aeree alleate, avevano messo in salvo in Vaticano la maggior parte dei tesori d'arte dell'abbazia.Il comando germanico, conscio dell'inestimabile importanza spirituale e culturale dell'abbazia, l'aveva dichiarata territorio neutrale e non aveva permesso che alcuno dei propri reparti vi entrasse.Anche il generale Clark, nel suo libro dal titolo «Calculated Risk», riconobbe che il bombardamento fu un «tragico errore», ed affermò: «dico questo con piena coscienza della controversia che ha infuriato intorno a tale episodio giacché c'erano prove irrefutabili che nessun soldato tedesco si trovava all'interno del monastero».Lo stesso giorno del bombardamento i britannici attaccarono il colle di Montecassino: se fossero riusciti a prenderlo avrebbero dimostrato che l'ostacolo all'avanzata era proprio l'abbazia e che avevano avuto ragione a volerla distruggere. In realtà non furono proprio i britannici ad attaccare: mandarono allo sbaraglio neozelandesi, gurkha nepalesi, e la divisione indiana che fu pressoché annientata. Subito dopo la distruzione dell'edificio, i tedeschi non si erano ovviamente più ritenuti vincolati dall'accordo, che avrebbe dovuto servire a tutelarne l'integrità, così che i paracadutisti della 1ª divisione vi si erano asserragliati.Le rovine offrivano cavità e rifugi ideali per combattenti esperti.Nelle profonde grotte formate dai vani bombardati fu perfino possibile ricavare rifugi per artiglierie semoventi d'assalto che, subito dopo aver fatto fuoco, vi si ritiravano regolarmente al sicuro prima che gli avversari avessero il tempo di aggiustare il tiro per eliminarle.Le pur esigue forze tedesche, sebbene in grande maggioranza non addestrate alla guerra di montagna, e a corto di mezzi e rifornimenti, resero la vita un inferno a tutti i reparti alleati che tentavano di conquistare la vetta di Cassino e tutte quelle circostanti, causando loro enormi perdite.La distruzione di Monte Cassino, oltre che una tragica macchia sugli alleati, fu anche un imperdonabile errore strategico e tattico.Non solo i pesantissimi bombardamenti di artiglieria e i violentissimi e sanguinosi attacchi della fanterie alleate, nei quali furono coinvolti soldati di ben sedici nazioni, non intaccarono minimamente il caposaldo germanico, ma i paracadutisti tedeschi, annidati nelle rovine dell'abbazia, si ritirarono solo tre mesi dopo, perché minacciati di accerchiamento, dato che la 44a Divisione «Hoch-und Deutschmeister» nella zona di Terelle, a nord dell'abbazia, dopo un'eroica resistenza, sopraffatta da soverchianti forze nemiche, aveva dovuto ritirarsi, mentre la testa di ponte di Anzio era stata grandemente rafforzata dall'afflusso di uomini e mezzi.[...]
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19/10/2007

Viktor SUVOROV1939, anche Stalin voleva la guerratratto da: Avvenire, 19.7.2000.Intervista di Fulvio ScaglioneParla lo studioso russo Viktor Suvorov"Nel secondo conflitto mondiale, prima che i tedeschi attaccassero a sorpresa, l'Urss si preparava ad invadere in forze la Germania" Uno scoppiettìo di cifre, date, nomi. Qualche risata a raffica, l'improvviso ripiegamento in un attimo di malinconia. Poco marziale nei modi, Vladimir Bogdanovic Rezun, classe 1947, che però paga con tutto il resto il debito alla sua storia di soldato. Figlio di un ufficiale dell'Armata Rossa ("Mio padre era di stanza in Estremo Oriente, ho visto le prime persone senza mostrine all'età di 7 anni. E a 11 anni le ho indossate io, le mostrine, entrando all'Accademia Suvorov e proseguendo gli studi bellici per 13 anni"), si è laureato alla Scuola militare superiore di Kiev, ha partecipato all'invasione della Cecoslovacchia (1968), nel 1970 è entrato nel Gru (servizi segreti dell'esercito), e nel 1978, come racconta lui, "ho detto «dozvidanija» a tutti, ho smesso di collaborare con quel regime criminale". Nell'esilio lo ha seguito una condanna a morte dell'Urss, mai annullata dalla Russia, e la memoria degli studi: dal 1978 il suo nome è Viktor Suvorov, come il generale cui era intitolata la prima Accademia.Suvorov è diventato autore di libri (di storia? Strategia militare? Politica? Difficile dirlo...) che sono best-seller in Russia e altrove, e che da settembre, pubblicati da Spirali (primo volume: «La rompighiaccio»), potranno far parlare di sé anche in Italia. E se ne parlerà, vista la tesi: all'inizio degli anni Quaranta Stalin si apprestava a invadere la Germania e fu preceduto solo di qualche settimana dall'attacco di Hitler. Attacco che non aveva speranze e infatti fallì, ma impedì a Stalin di realizzare il proprio obiettivo: assoggettare l'Europa occidentale. L'ennesima, spettacolare acrobazia revisionista?"Qualcuno può anche non credermi, ed è una cosa davvero buffa. L'Occidente, nel dopoguerra, ha speso cifre colossali per difendersi da Khruscev e da Brezhnev. Secondo voi, questi due erano più astuti e aggressivi di Stalin? E se avevate paura di loro, pensate che cosa avrebbe potuto fare Stalin con la Germania impegnata a far la guerra a Francia e Gran Bretagna, gli Usa lontani, nessuna minaccia di ritorsione atomica...".Non sempre, però, l'occasione politica si trasforma in iniziativa concreta. Lei ha lavorato su documenti d'archivio?Viktor SUVOROV: "Gli archivi militari di Russia sono chiusi agli studiosi. Fatto curioso, non le pare? Tutti i grandi protagonisti di quella guerra sono ormai scomparsi, di quei tank e di quei cannoni si è perso anche il ricordo: perché dunque gli archivi restano chiusi? E stiamo parlando della "grande guerra patriottica", per i russi la guerra più giusta che si possa immaginare. Restano chiusi perché Stalin si apprestava ad approfittare della crisi dell'Europa".Quanto ai documenti?Viktor SUVOROV: "Ho lavorato su materiali d'archivio, ma per scrivere i libri mi sono servito solo di fonti rintracciabili, aperte, dai giornali dell'epoca all'opera omnia di Stalin. Perché voglio essere come il bambino che grida "il re è nudo" e fa vedere agli altri ciò che pure avevano sotto gli occhi".Per esempio?Viktor SUVOROV: "Il 22 giugno del 1941 Hitler invade l'Urss. Il giorno dopo, nella stazione Bjelorusskij di Mosca, si esibisce il Gruppo musicale Aleksandrov che canta una canzone per la guerra patriottica. Ho parlato con Aleksadrov, che mi ha raccontato quanto segue: nel febbraio del 1941 viene convocato da Stalin, che gli chiede di scrivere un inno alla guerra contro la Germania, quella appunto che veniva cantata il secondo giorno di guerra. Altro esempio, dai ricordi di un ex ufficiale dell'Armata Rossa. Nel 1940, il «Vojenkomat» (il commissariato bellico, centro di arruolamento e smistamento delle truppe) di Kiev riceve tre enormi pacchi sigillati, che restano lì fino al 1941. Hitler attacca e da Mosca arriva un ordine: bruciare i pacchi 1 e 2, aprire il pacco 3 e distribuire in tutte le sedi militari. Quel pacco conteneva «Rodina mat' zaviot» (La madre patria chiama) di Erakl Taidze, il famoso manifesto con la donna dal braccio levato che invita alla difesa della patria. Manifesto preparato ben prima dell'invasione".D'accordo. Ma tutto questo non bastava per invadere l'Europa.Viktor SUVOROV: "Al momento dell'attacco nazista, a Brest l'Urss aveva ammassato 800 locomotive, di quelle col passo ridotto europeo, quando da noi si usava il passo largo: perché? Lungo il confine occidentale i nostri generali avevano raccolto 25 mila vagoni di munizioni e viveri: perché? Tutti i nostri campi d'aviazione erano a ridosso del confine, i caccia decollavano e prendevano quota quasi a Varsavia: perché, se non in vista di un'offensiva? Basta confrontare i dati per capire che qualcosa non quadra nella versione "ufficiale": il 23 agosto 1939, quando fu firmato il Patto Molotov-Von Ribbentrop, l'Urss aveva 98 divisioni di fanteria; il 22 giugno 1941, quando Hitler ruppe il Patto, ne aveva 196. E così via, 0 divisioni corazzate nel 1939 e 63 nel 1941; 1 divisione meccanizzata contro 29. Stalin lanciò la campagna di riarmo dopo aver fatto amicizia con Hitler. Il figlio di Stalin era artigliere nel Settimo corpo meccanizzato, e si lamentava della mancanza di carte geografiche con cui regolare il tiro. Eppure lungo il fronte occidentale erano stati distribuiti 8 milioni di carte: purtroppo erano carte della Polonia e della Germania, in vista di un'invasione, e non del territorio sovietico su cui a sorpresa l'Armata Rossa si trovava a combattere. Stalin era pronto alla guerra ma non a quella guerra".Se le cose stanno così, fu vittoria o sconfitta per l'Urss?Viktor SUVOROV: "L'Urss fu aggredita di sorpresa, perse subito quasi tutti i quadri professionali dell'esercito, dei tre centri di produzione di carri armati Kharkov fu distrutta, Stalingrado chiusa in uno scontro feroce che fermò tutto, Leningrado bloccata dall'assedio. Eppure l'Armata Rossa arrivò fino a Berlino, a dimostrazione dell'enorme potenza di fuoco che Stalin aveva preparato. In questo senso, vinse. Ma perse rispetto all'obiettivo già delineato da Marx e da Lenin: battere i sistemi delle altre nazioni, imporre con la guerra la rivoluzione mondiale perché altrimenti il modello socialista sarebbe sempre stato in pericolo. Previsione, come si è visto, del tutto azzeccata".La pena capitale, che dai tempi sovietici pende sulla sua testa, non è mai stata ritirata. Che cosa pensa di fare?Viktor SUVOROV: "Bisognerebbe presentare una domanda di grazia ma non ho intenzione di farlo. Io so di dover chiedere perdono ai miei connazionali per quello che ho fatto in passato. Ma questo regime deve farlo ancor più di me, per aver dato al popolo russo il record mondiale di detenuti, di alcolizzati, di figli non nati. Da loro non voglio nulla".
Data inserimento:1941, Hitler contro l'Armata rossatratto da: Avvenire, 6.9.2000.Paul Carell, che militò nella Seconda guerra mondiale presso il comando supremo della Wehrmacht, ha scritto la storia dello scontro tra Hitler e Stalin in «La Campagna di Russia. 1941/1944. La più gigantesca campagna militare del nostro secolo nel racconto degli sconfitti» in due volumi di 768 e 700 pagine editi nella Bur Rizzoli («Operazione Barbarossa», dal 1941 al 1942 e «Terra bruciata» dal 1942 al 1944). Carell è autore anche di volumi sullo sbarco in Normandia («Arrivano! Sie kommen!»), sulla campagna d'Africa dell'Afrikakorps e dell'esercito italiano («Le Volpi del deserto») Scrive nell'introduzione Raimondo Luraghi che Carell "dà un quadro ampio, minuzioso e obiettivo dell'immane tragedia, dal punto di vista militare". Il racconto è dunque da parte tedesca, "divisione per divisione", dal 22 giugno 1941 dell'attacco di Hitler all'Armata Rossa alla ritirata dalla Russia dell'agosto 1944.
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20/09/2007 Viktor SUVOROVLa storia non è quella dei vincitori (Stalin e l'invasione di Hitler)tratto da: intervista di M. Quadri tratta da La Nuova Europa, n. 1, 2001.Nel giugno di quest'anno si compiranno sessant'anni da quel drammatico 22 giugno 1941 in cui le truppe tedesche invasero l'Unione Sovietica, dando alla guerra una svolta fatale per il nazismo, e creando involontariamente il cliché della "lotta antifascista" guidata dal socialismo. Su questa guerra non è stato ancora scritto tutto: troppe reputazioni da difendere, da una parte e dall'altra, hanno contribuito a tenere nascosti molti fatti anche essenziali. L'interpretazione della guerra di cui disponiamo è quella manichea dei vincitori; per questo, a sessant'anni di distanza, siamo ancora intenti a scavare negli avvenimenti nascosti, grazie al fatto che poco alla volta cadono alcuni divieti. Un contributo originale in questo senso è stato dato da uno scrittore russo, Viktor Suvorov, ex funzionario dei servizi segreti militari sovietici e storico autodidatta, è uscito anche in Italia il suo primo libro su Stalin e la seconda guerra mondiale, "Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale". Il libro sostiene una tesi a dir poco rivoluzionaria: l'attacco a sorpresa di Hitler all'Unione Sovietica nel 1941 fu in realtà un'estrema reazione per prevenire l'attacco di Stalin. Una simile tesi comporta un vero ribaltamento della storiografia del '900, che normalmente considera l'opposizione antifascista dell'URSS socialista (e la lotta antifascista della sinistra in genere) come il nodo cruciale del XX secolo. Se veramente Stalin si preparava a invadere l'Europa, significa che la sua opposizione a Hitler era solo strumentale, in vista del più ampio scontro con le democrazie dell'Europa occidentale. La tesi di Suvorov è dunque di quelle che suscitano polemiche infuocate. Viktor Suvorov è lo pseudonimo di Vladimir Bogdanovich Rezun, nato nel 1947, figlio di un ufficiale dell'Armata Rossa. Ha compiuto studi militari all'Accademia Suvorov e alla Scuola militare superiore di Kiev. Dopo aver partecipato all'invasione della Cecoslovacchia nel '68, nel 1970 è entrato nel GRU (i servizi segreti militari) e in questa veste ha risieduto a Ginevra dal 1974 al 1978. Quello stesso anno ha chiesto asilo politico in Inghilterra ed è stato condannato a morte in Unione Sovietica. Ha scritto diversi libri sulla vita nell'esercito e sull'intelligence sovietica. Ma ha raggiunto la fama con la serie di libri (già cinque) sul problema della guerra fra Hitler e Stalin. In Russia i suoi libri hanno venduto 4 milioni di copie; grande successo hanno avuto anche in Germania, Polonia, Bulgaria, Inghilterra e Francia. In Italia è appena uscito il primo volume della serie, che in russo s'intitola "La rompighiaccio".Per cercare di ricostruire la vicenda delle sue ricerche, ci dica quando ha visto la luce per la prima volta il libro.Viktor SUVOROV: Nel 1981 il libro era già pronto per la stampa, ma allora non trovai un editore, erano ancora i tempi di Brezhnev. Con l'inizio della perestrojka capii che era venuto il mio momento e incominciai a pubblicare degli stralci su varie riviste. Ad esempio il settimanale "Russkaja mysl'" di Parigi ne pubblicò alcuni capitoli nel 1985. Ma il libro completo è uscito solo nel 1989 in Germania; in Russia è stato pubblicato nel 1992. La prima tiratura era molto limitata (320.000 copie) ma la seconda ha raggiunto i due milioni. E poi ci sono state altre edizioni.Il libro ha provocato molte reazioni in Russia?Viktor SUVOROV: Tantissime. A casa ho 16 metri cubi di lettere da parte dei lettori. Sono molto orgoglioso del fatto che mi scrivano per confermare la mia tesi; moltissime lettere, oltre che dalla Russia, provenivano anche dalla Germania. In questo modo mi sono trovato in possesso del più grosso fondo di manoscritti sulla seconda guerra mondiale esistente oggi; sono testimonianze di ex militari o dei loro figli, che hanno affidato le proprie memorie a me e non ai centri di ricerca. La reazione in Russia è stata enorme; il libro ha avuto più di tremila recensioni, da quelle osannanti a quelle assolutamente negative. Alcuni dicevano che ho completamente ragione e che non c'è niente da discutere. Altri dicevano che copro di fango la mia patria, che è inutile rivangare cose così spiacevoli. Ma io penso che quando si scrive di storia non ha alcuna importanza che sia piacevole o spiacevole; se teniamo conto di quello che piace o non piace, di quel che serve o non serve, immediatamente usciamo dall'ambito della storia ed entriamo in quello della propaganda. Non mi considero uno storico, io semplicemente cerco di fare chiarezza su ciò che è successo. Il mio unico criterio è quello di scoprire se una cosa è vera oppure no, se si tratta di un fatto o di un'invenzione. Io ho usato solo fonti accessibili; l'ho dichiarato sin dalla prima pagina: tutto quello che dico può essere verificato da chiunque sui giornali "Pravda" e "Krasnaja zvezda", negli scritti di Lenin e Marx, nei discorsi di Stalin e dei nostri marescialli, Zhukov, Konev, Rokossovskij. E' tutto scritto nero su bianco. Io per principio non uso documenti segreti. Alcuni giornalisti, proprio qui in Italia, hanno scritto che Suvorov ha accesso a materiali segretissimi, ma non possiamo essere sicuri che questi materiali esistano veramente. In realtà io ho detto esplicitamente sin dalla prima pagina che non ho nessun documento segreto; chiunque può verificare tutto di persona.Può dirci in breve da cosa è nato il suo interesse per questo argomento?Viktor SUVOROV: Il mio interesse è iniziato da alcune considerazioni molto semplici. 1941, inizia la guerra. Hitler attacca e sbaraglia l'esercito regolare sovietico, 5 milioni di uomini. Il nostro esercito si sbanda immediatamente. Noi sovietici abbiamo 24mila carri armati, Hitler ne ha solo 3.000. In più i carri sovietici sono molto migliori di quelli tedeschi. Eppure Hitler sgomina tutte queste forze in pochissimi giorni. E la nostra propaganda dice che siamo stati degli idioti, che non abbiamo saputo combattere, eccetera. La cosa strana è che poi tutti questi idioti sono tornati capaci e hanno sconfitto Hitler, hanno vinto la guerra e hanno occupato Berlino, metà Europa e un pezzo di Asia. Ma un idiota non può diventare intelligente. Il maresciallo Zhukov nel '41 è un incompetente e nel '42 è il grande generale di Stalingrado. Il fatto è che non si tratta di idiozia ma di qualcos'altro. Un altro elemento ancora. La nostra propaganda aveva un ritornello costante: "tutto va per il meglio". La nostra agricoltura prosperava, il nostro esercito era il più forte, il nostro balletto era il migliore; persino i cataclismi naturali erano un segreto di Stato. Questa regola ha una sola eccezione: sul 22 giugno del 1941 la nostra propaganda ha detto di tutto, che i nostri carri armati erano pessimi, che il nostro esercito era stato decapitato e non c'erano comandanti in capo competenti né buoni ufficiali; che i nostri aerei erano delle carrette e che insomma eravamo stati degli incapaci. Quand'ero all'Accademia militare mi fu detto che non si doveva parlare né occuparsi della grande sconfitta sovietica subita nell'ottobre del 1941 nella regione di Kiev. Nel 1942 c'era stato un altro rovescio militare presso Char'kov, e poi ancora in Crimea; inoltre nella primavera dello stesso '42 il generale Vlasov con la II armata d'assalto fu preso in una sacca mentre cercava di liberare Leningrado e venne fatto prigioniero.Su tutti questi episodi da noi non si è mai fatta parola. Invece, della sconfitta del 1941 si davano anche i particolari: quanti aerei avevamo perso, quanti carri armati, eccetera. Era su tutti i giornali. Prendiamo ad esempio la battaglia di Stalingrado che pure ci ha visti vincitori: dove mai si è detto quante perdite abbiamo avuto? Era un segreto. Invece le perdite del giungo 1941 non erano un segreto. Come mai i fatti dell'ottobre '41 erano stati nascosti, mentre quelli del giugno '41 erano sbandierati in tutti i modi? Tutto questo mi incuriosiva. E finalmente ho intuito che il fatto di ripetere pubblicamente quanto eravamo stati stupidi era il classico atteggiamento di chi cerca di nascondere la propria responsabilità. La nostra propaganda ha insistito sull'incompetenza di Stalin, dei generali e della truppa, sulla pessima qualità dei carri armati e degli aerei, per nascondere il progetto d'aggressione. Per questo ho incominciato a interessarmi del problema e ho trovato diversi dati documentari.Quando studiavo all'Accademia militare, ciascuno di noi doveva scrivere una tesina su qualche argomento riservato, perché gli insegnanti potessero giudicare se era adatto al lavoro di ricerca, all'insegnamento o a qualche altro impiego. Io per distrarre l'attenzione ho trattato vari argomenti, ma poi mi sono scelto in particolare il tema dell'anno 1941. Le informazioni le ho poi raccolte in una serie di libri (cinque in tutto), di cui quello uscito ora in italiano è solo il primo.Per fare qualche esempio: ho trovato una carta militare tedesca della zona di confine, tracciata nel giugno 1941; dalla carta si può capire la distribuzione delle forze alla vigilia dell'invasione tedesca: a destra e a sinistra della linea di confine si osservano forti concentramenti di truppe, rispettivamente dell'Armata Rossa e della Wehrmacht. Il concentramento delle truppe tedesche è comprensibile, visto che stanno per attaccare; ma quello delle truppe sovietiche? Parecchi chilometri più a est del confine, dietro la linea di fortificazione sovietica, che si chiamava «linea Stalin», non ci sono truppe. Nessuno difende queste fortificazioni, mentre tutto il nostro esercito sta sul confine. Qui le fortificazioni senza esercito, dall'altra parte l'esercito senza fortificazioni. Non sembra molto strategico. I nostri aeroporti si trovano a ridosso del confine, a volte a 8-10 chilometri di distanza, il che vuol dire che basta un puntatore scelto tedesco per distruggere a cannonate gli aeroporti e il nostro stato maggiore. In più negli aeroporti gli aerei stanno uno vicino all'altro, basta colpirne uno con una granata per farli saltare tutti (come di fatto è avvenuto). Anche l'esercito è disposto in modo strategicamente illogico: ci sono concentrazioni di truppe in due zone avanzate in territorio nemico, così da avere i tedeschi su tre lati, basta che questi sfondino da una parte per creare immediatamente una sacca (come di fatto è avvenuto). Inoltre il mar Nero, con i suoi porti e l'accesso al bacino carbonifero del Donbass, non hanno nessuno che li difenda. Allora mi sono reso conto che dal punto di vista difensivo siamo all'assurdo, ma guardando la situazione dal punto di vista offensivo ci troviamo una certa logica. Ad esempio a sud, dov'è concentrata una grossa parte dell'Armata Rossa, passa l'oleodotto che porta il petrolio dalla Romania alla Germania. Allora non si tratta di un macroscopico errore, ma dei preparativi per invadere l'Europa. Del resto consideriamo la situazione nella prima metà del '41: il nostro continente è dilaniato da una guerra intestina, l'America è neutrale, anzi aiuta l'Unione Sovietica sul piano militare. Per Stalin si presenta l'occasione ideale per cercare di prendersi l'Europa. Nessuno ha ancora le armi atomiche, quindi nessuno potrebbe fermare l'Armata Rossa in quel modo; Stalin aspetta solo il momento giusto per farsi avanti. Ecco perché l'Armata Rossa è uscita oltre la linea di difesa e si è portata sul confine; ecco perché è concentrata verso sud: si prepara a tagliare la via del petrolio romeno. Nei mesi precedenti all'entrata in guerra, in URSS viene pubblicato un libretto dal titolo "Breve manuale di conversazione militare russo-tedesco per soldati e sottufficiali", Mosca, 29 maggio 1941 (ne ho trovata casualmente una copia in un mercatino a New York). Ce ne sono anche altre edizioni fatte a Leningrado il 5 giugno; a Kiev il 7 giugno, a Odessa, a Minsk. In tutto 5 milioni di copie. Ho visto per la prima volta questo libriccino quando studiavo all'Istituto superiore. Avevamo un'enorme biblioteca, con un'intera sezione di vocabolari in tutte le lingue del mondo. Io studiavo inglese e tedesco, ed ero andato a cercare qualcosa di piccolo da leggere per rinfrescare il mio tedesco. Così scoprii questo manuale e la sua lettura mi lasciò esterrefatto. Tra le frasi suggerite ai soldati sovietici (frasi che figurano prima in russo, poi tradotte in tedesco ma traslitterate in cirillico, e infine in tedesco vero e proprio), troviamo ad esempio: "Come si chiama questa città?", "Come si chiama questa stazione?", frasi che suonano ben strane in bocca a dei soldati che si preparano alla difesa del suolo nazionale. Più avanti troviamo anche questa frase: "Non avete niente da temere, presto arriverà l'Armata Rossa". Ancora un altro elemento. Quando incominciò la guerra, venne fatto prigioniero il figlio di Stalin, Jakov Dzhugashvili, che era comandante di una batteria d'artiglieria. Abbiamo il verbale degli interrogatori che gli fecero i nazisti. Gli fu chiesto come mai l'artiglieria sovietica, che era la migliore al mondo, combattesse così male. E lui rispose che mancavano le carte per fare i puntamenti; senza le carte non si poteva combattere, neanche l'aviazione poteva farne a meno. In realtà ho trovato i documenti a comprova che sul confine l'Armata Rossa abbandonò 4 milioni di carte. Non però quelle del territorio sovietico dove si stava combattendo, ma carte militari molto precise della Prussia orientale, della Cecoslovacchia, della Polonia; tutte stampate nel marzo 1941. Quando i tedeschi invasero, i nostri non erano in grado di difendersi sul proprio territorio. La propaganda insisteva nel dire che non eravamo pronti alla guerra, invece lo eravamo, solo non a una guerra difensiva, ma a una offensiva. Alcuni lettori mi hanno inviato alcune di queste carte militari, ritrovate fra i ricordi di guerra del padre, o del nonno. Ad esempio una carta della Prussia orientale mi è stata mandata recentemente da un tenente colonnello della polizia ucraina; suo padre aveva fatto la guerra e l'aveva conservata. Queste carte sono una specie di paradosso: ma come, ci prepariamo alla difesa e abbiamo una carta del territorio nemico? Molti, che hanno letto i miei libri, mi mandano documenti che hanno in casa e che confermano in modo circostanziato la verità delle mie asserzioni.E un altro fatto ancora: Hitler aveva preparato 4.000 paracadutisti, Stalin ne aveva preparati un milione, che non usò mai. Era una cosa fatta alla luce del sole, se ne scriveva apertamente sui giornali, negli anni '30, sulla "Pravda", su "Krasnaja zvezda"; era una psicosi nazionale, tutti si lanciavano col paracadute. Ma perché prepararne così tanti? Nel paese si faceva la fame, ma Stalin aveva comprato dall'America la seta per i paracadute. Poi iniziò la guerra e non li usarono mai più. Perché allora li avevano preparati? Per attaccare alle spalle l'Europa. Hitler aveva conquistato tutta l'Europa, Cecoslovacchia, Belgio, Olanda, Polonia, Francia. Stalin aveva aiutato Hitler a distruggere tutta l'Europa, usandolo come una rompighiaccio. Lo stesso aveva fatto all'interno del paese, ordinando a Ezhov di distruggere tutti i nemici, e questi lo aveva fatto. Poi Stalin aveva ammazzato Ezhov, dicendo che la repressione era tutta colpa sua. Hitler era per Stalin uno strumento uguale riguardo all'Europa. Voleva fargli distruggere tutto: combattere contro i partigiani jugoslavi, probabilmente contro l'America, combattere in Africa contro gli inglesi; doveva sbarcare in Inghilterra. Ma alle spalle di Hitler, l'Armata Rossa sarebbe uscita dai suoi confini. Per questo erano pronti gli aeroporti sul confine; avevamo persino dei carri armati aviotrasportati. Nessuno aveva questi mezzi negli anni '40. Ma quando Hitler sferrò l'attacco Stalin non li poté usare, come non usò mai i paracadutisti, o i carri armati veloci, perché tutto questo sul territorio sovietico era inutile. La data prevista per l'invasione era stata fissata al 6 luglio del 1941. Hitler riuscì a precederla di un paio di settimane.Tutti questi fatti verificabili dovrebbero però trovare delle conferme anche nei documenti segreti conservati negli archivi...Viktor SUVOROV: Sì. Dopo la pubblicazione del mio primo libro in Russia c'è stata una forte reazione, e molti storici che hanno accesso agli archivi hanno cercato e trovato conferme alla mia tesi, conferme di cui si è parlato anche sulla stampa. Ad esempio, nel giugno del 2000, quando avevo appena finito di scrivere "Il suicidio", il mio ultimo libro su Hitler, dagli archivi del presidente della Federazione Russa è stato riesumato un documento super-segreto (in copia unica, manoscritta) in cui è esposto il piano del maresciallo Zhukov per l'attacco alla Germania, datato 15 maggio 1941. Un'altra storica, Tat'jana Semënovna Bushueva, ha trovato dei documenti importantissimi. Attualmente gli archivi sono accessibili con più libertà, diversi storici ci lavorano e poi mi comunicano i frutti delle loro ricerche.La decisione di Stalin di invadere l'Europa fu una sua idea o aveva radici più profonde?Viktor SUVOROV: Karl Marx riteneva che la rivoluzione socialista dovesse essere solo mondiale, ha sempre parlato solo di rivoluzione mondiale; anche Lenin pensava che la rivoluzione dovesse essere mondiale. Lenin creò la Terza internazionale come stato maggiore della rivoluzione mondiale, e diceva sempre che doveva vincere o l'uno o l'altro fronte, e aveva ragione. L'Unione Sovietica era una società che non poteva esistere accanto a un'altra normale, che avrebbe costituito l'esempio di una vita diversa. Per questo anche Stalin riteneva che bisognasse diffondere questo regime a tutto il mondo, altrimenti l'Unione Sovietica si sarebbe disintegrata e non avrebbe potuto sopravvivere. E aveva perfettamente ragione. Quando Hitler lo attaccò, Stalin era convinto che la guerra fosse persa e nel 1945 era ancora convinto di aver perso; nel '45 si rifiutò di assistere alla parata della vittoria. E a chi gli chiedeva perché, rispose: "Voi non lo capite ma noi abbiamo perso la guerra, prima o poi l'Unione Sovietica si disintegrerà perché non siamo riusciti a conquistare non dico il mondo, ma neanche l'Europa". Quindi alla sua domanda rispondo che Stalin non aveva vie d'uscita; qui non c'entra l'imperialismo russo. Non è questo. La differenza è che l'impero russo poteva fermarsi nella sua espansione (tant'è vero che hanno rivenduto l'Alaska), mentre l'Unione Sovietica non si poteva fermare, doveva diffondersi a tutto il mondo o morire.
Data inserimento:
26/10/2005





19/09/2007





04/09/2007





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