Antonio SOCCIAntifascisti uccisi più dai comunisti che da Mussolinitratto da: Il Giornale, 21.9.2003.Nelle polemiche sulle dichiarazioni di Berlusconi, a proposito di Mussolini e l'antifascismo, è stato dimenticato il fatto decisivo e sconvolgente che Ugo Finetti riassume così nel volume "La resistenza cancellata": "gli antifascisti italiani condannati a morte dal Tribunale Speciale di Mussolini sono stati di gran lunga meno numerosi di quanti ne vennero giustiziati nel corso dei processi di Mosca, calcolando anche i delitti terroristici da Matteotti ai fratelli Rosselli".E' vero o falso? Se ne discuta, se si hanno argomenti si confuti questa affermazione, ma rimuovere un fatto così clamoroso non si può più. Ernesto Galli della Loggia, sul ‘Corriere della sera' di venerdì scorso, invita "alle istorie" l'opinione pubblica moderata. Ed ha ragione. Ma bisognerebbe estendere l'invito a tutti, comprese le alte cariche dello Stato e i giornali. C'è infatti una retorica ufficiale - oggi incarnata specialmente dal presidente Ciampi - che in Italia da decenni celebra giustamente l'antifascismo e condanna il fascismo: condivido.Ma non è più accettabile un'ideologia ufficiale che così semplicisticamente oppone solo fascisti e antifascisti, quando si apprende che il comunismo ha massacrato più antifascisti del fascismo. Perché il "fattore K" non entra mai nel "discorso pubblico" e tanto meno nei libri degli storici "ufficiali" e nella manualistica? Vogliamo davvero celebrare l'antifascismo? Bene, ma se ha ragione Finetti perché non riflettere su questa macelleria rossa e cercarne gli (indicibili) moventi?I fatti, terribili, ebbero due scenari: Mosca e la Spagna. E si svolsero soprattutto a partire dal 1936. Ma già negli anni precedenti gli antifascisti italiani riparati a Mosca erano entrati nel tritacarne.Cito solo un caso fra quelli ricordati da Finetti: l'anarchico Francesco Ghezzi. Viene arrestato nel 1929 in Urss, dov'era esule, perché, secondo il regime, egli avrebbe organizzato attentati. Gli anarchici europei non credono alle accuse e chiedono al Cremlino le prove. A ribattere beffardamente è Togliatti che - come sempre - si schiera con Stalin. Dunque Togliatti risponde a questa richiesta di "prove" con una circolare ai comunisti all'estero che spiega una volta per sempre la concezione della giustizia che ha il capo del Pci: "per noi comunisti, la questione delle ‘prove' è una questione che non si pone: è, anzi, una questione sciocca (...). Chiedere le prove della condanna del Ghezzi vuol dire sostenere che ogni singolo atto del governo dei soviet deve essere sottoposto a un controllo pubblico. E' evidente che a una richiesta di questo genere non possono essere favorevoli che i nemici del regime dei soviet e della dittatura proletaria".In seguito alle proteste internazionali il Ghezzi viene rilasciato nel 1931, ma tre anni dopo è di nuovo arrestato e sparisce nelle tenebre del Gulag siberiano dove muore nel 1941, a Vorkuta. E' solo uno dei tanti casi. Sarà soprattutto con l'inizio del grande Terrore, verso il 1935, che l'antifascismo esule in Urss viene schiacciato da Stalin. Finetti, nel volume citato sopra (appena uscito in libreria), ricostruisce il ruolo terribile di Togliatti in questa tragedia, il suo scontro con Gaetano Salvemini e la drammatica lettera aperta che Victor Serge (anch'egli era stato in Urss, poi arrestato dal regime comunista e rilasciato solo grazie alla protesta internazionale) gli scrisse nel 1945, quando Togliatti era diventato ministro della Giustizia italiano: "Signor Ministro, che ne è degli antifascisti rifugiati in Urss?".Secondo Finetti "ancora oggi si tenta di occultare soprattutto la responsabilità diretta di Togliatti in quei procedimenti giudiziari". Un esempio è il caso di Edmondo Peluso. "Nel 1964" scrive Finetti "Guelfo Zaccaria pubblica la prima documentazione su 200 antifascisti giustiziati. Il Pci nega e ci vorranno circa trent'anni perché la cifra sia riconosciuta veritiera anche da Alessandro Natta".C'è poi lo scenario spagnolo. Una delle grandi rimozioni della storiografia è il terrore che i comunisti scatenarono, su ordine di Stalin, fra gli antifascisti anarchici, socialisti, liberali, repubblicani, trotzkisti. Nel maggio 1937, scrive Paolo Pillitteri, "i comunisti, tramite la Nkvd, procedettero alla eliminazione, nella sola città di Barcellona, di 350 persone ‘nemiche', cioè trotzkiste, ferendone 2.600". Fra gli uomini di Stalin in Spagna vi furono in primo piano Orlov, protagonista delle "purghe", e - di nuovo - Togliatti, "che dirigeva il partito comunista spagnolo e le forze militari comuniste per conto di Mosca".Particolarmente clamorose (e crudeli) le eliminazioni - da parte dei sovietici - di antifascisti importanti come Nin, Berneri e Barbieri. Tutti amici di Rosselli anch'egli eliminato in quei giorni col fratello a Parigi da una fantomatica organizzazione, oggi sospettata da ricercatori scrupolosi di aver agito per conto dei sovietici (con cui i Rosselli erano allo scontro). D'altronde, dopo la vittoria franchista in Spagna, "Stalin volle l'eliminazione di non meno di 5 mila combattenti spagnoli (antifascisti, ndr) rifugiati in Urss".Perché? Qual è lo scopo di una tale carneficina? A spiegare la guerra dei comunisti contro tutti gli altri antifascisti, secondo Pillitteri, fu proprio Togliatti su "L'Internazionale comunista" dove scriveva delle purghe staliniane. Secondo Togliatti occorreva "liberare definitivamente il movimento operaio internazionale dal lerciume trotzkista", per questo le organizzazioni operaie dovevano essere "epurate, radicalmente e per sempre, dai banditi che sono penetrati nei loro ranghi per trascinarvi direttive e parole d'ordine fasciste".Era veramente così? Erano davvero sospettabili di "fascismo" gli epurati? E' vero il contrario. Si resta di sasso quando si scopre che proprio in quello stesso periodo del 1936 Togliatti e il suo Pci lanciano l'incredibile "Appello ai fratelli in camicia nera", che comincia con queste parole: "I Comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori. Lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma. Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi... Noi non vogliamo prestarci al gioco dell'imperialismo inglese...".Questo sconcertante documento non è un imbarazzante incidente, ma esprime esattamente la strategia staliniana. A Stalin in Spagna non interessava affatto la lotta al fascismo e al nazismo. Egli perseguiva ossessivamente un altro obiettivo: l'eliminazione di tutte le possibili fonti di contagio delle idee democratiche o socialdemocratiche. E puntava a un accordo strategico con Hitler e Mussolini contro le democrazie europee.Lo constatò pure Leo Valiani in un'intervista alla "Repubblica" del 1998: "Fin dal 1937 - lo ha denunciato Trotzky - Stalin mirava a un accordo con Hitler. Avrebbe raggiunto l'intento due anni dopo con il patto Molotov-Ribbentrop". E questo infame "patto" è l'altro enorme capitolo censurato e rimosso. Sono ben pochi gli studenti italiani i quali imparano a scuola che la seconda guerra mondiale è stata scatenata da Hitler grazie al patto di alleanza stretto nell'agosto 1939 con l'Urss la quale si spartì con la Germania il bottino: la Polonia e i paesi baltici. Per ben due anni, metà della guerra, fu Stalin il grande alleato di Hitler. E i Pc europei si allinearono. Finetti ricorda il caso di uno dei fondatori del Pci, Umberto Terracini, un galantuomo, a cui ripugnava quell'alleanza col nazismo antisemita: "l'ebreo Terracini, al confino in Italia, viene espulso dal partito per aver criticato la scelta di Stalin".Fosse stato in Urss che fine avrebbe fatto? A metter fine alla sconcia alleanza nazicomunista che aveva scatenato la guerra non sarà Stalin, che avrebbe voluto intensificare il sodalizio, ma Hitler. Cosicché Tzvetan Todorov, nel suo libro sui lager, "Di fronte all'estremo", osserverà: "Che a Norimberga i rappresentanti di Stalin condannino a morte quelli di Hitler sfiora l'oscenità".A queste conclusioni ci inducono i documenti storici. Ripeto: i documenti storici. A coltivare sistematicamente la loro ignoranza e la loro "rimozione" (sono certo che Galli Della Loggia concorderà) non è l'opinione pubblica moderata, ma quella sedicente colta, quella "engagé", quella che scrive libri e articoli di storia con gli occhiali dell'ideologia.
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27/07/2007
Vittorio MESSORIFascismi e antifascismitratto da: Vittorio MESSORI, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell'avventura umana, Paoline, Milano 1992, p. 80s. Istruttive, per un cristiano, le polemiche suscitate da un'intervista a Renzo De Felice, il nostro maggior storico del fascismo, un liberale di sicure convinzioni democratiche nonché - per maggior garanzia - di origini ebraiche.Raccomanda, il De Felice, di finirla con «la retorica dell'antifascismo», dice che è ora di superare lo schema fascismo-antifascismo, usato per interpretare tutto; come se da una parte stesse tutta la Luce e dall'altra tutta la Tenebra. Leggendo l'intervista, pregustavo ironico lo stracciarsi di vesti («Ha bestemmiato!») dei professionisti dell'antifascismo di marca comunista. Ma mi chiedevo come mai De Felice desse la zappa sui piedi anche alla cultura liberal di cui è esponente prestigioso.In effetti, come da previsioni, il blasfemo è stato violentemente aggredito sia da un Paolo Spriano, storico ufficiale del Pci, che da un Giorgio La Malfa, segretario di quel partito repubblicano che si dice custode dei valori "illuministi".E' che, qui, le tradizioni politico-culturali che dominano il mondo contemporaneo dopo essersi spartita l'eredità cristiana, hanno tutte imbarazzanti scheletri nell'armadio.Lo schema fascismo (visto come sempre malvagio) e antifascismo (gabellato come sempre eccellente) è stato creato innanzitutto dall'incessante propaganda comunista (ma non solo da questa, come vedremo), che ha cercato di far dimenticare una realtà oggettiva: Mussolini e Hitler da un lato e Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot e compagnia dall'altro, sono fratelli gemelli, figli entrambi della modernità. Nazifascismo e marxismo si rifanno entrambi allo stesso maestro, a Hegel, il filosofo che fonda il mondo moderno e la cui posterità si divide in una "sinistra" e in una "destra".Dice Moshe Zimmermann, che insegna storia tedesca all'università ebraica di Gerusalemme: «Il nazifascismo è un avatar, una incarnazione dello spirito moderno. Forse, in una prospettiva provvidenziale, è venuto per mostrarci come il male possa essere potenziato dal cosiddetto progresso».Le accentuazioni del rosso e del nero sono diverse ma la radice è la stessa. I semi che hanno portato al totalitarismo (ai gulag da un lato e ai Lager dall'altro) vengono dalla stessa terra che ha un componente che prevale su tutti gli altri: il rifiuto del Dio biblico per sostituirlo con altri dèi come lo Spirito del Mondo, la Storia, lo Stato, la Razza, la Classe Operaia, il Proletariato, la Produzione.Ci ingannano, facendoci credere che ci sia una incompatibilità di fondo tra fascismo e antifascismo, soprattutto se tra gli "antifascisti" poniamo gli eredi della tradizione socialcomunista. Tra l'altro: da dove veniva Mussolini se non dal socialismo (che affermò sempre di non avere rinnegato ma portato alle sue conseguenze logiche?). E il partito di cui Hitler fu il capo non era il «Partito Nazionale e Socialista dei Lavoratori Tedeschi»? Non fu l'accordo con i Soviet che gli permise di invadere Polonia e Francia, con a Parigi il Pcf come quinta colonna a favore dell'invasore, convertendosi all'"antifascismo" solo dopo il tradimento del Führer?Nei decenni trascorsi da allora, da quella cocente delusione (Stalin non voleva credere che l'amico Hitler stesse invadendogli l'Urss), una martellante propaganda ci ha presentato il nazifascismo come il Male Assoluto, lo ha avvolto di categorie religiose, quasi non venisse dalla storia ma direttamente dall'inferno.Alla demonizzazione hanno partecipato anche le culture di "democrazia illuminata" (vedi, ancor oggi, lo scatto di nervi di un La Malfa), segretamente consapevoli che i totalitarismi rossi e neri non sono affatto abitatori del regno di Satana, ma figli delle ideologie anticristiane del Settecento europeo, dei miti giacobini, di quell'humus che ha partorito non solo nazifascismo e socialmarxismo ma anche un certo liberalismo radicale. Quello che dalle utopie dell'89 finisce nel Terrore del '93 e poi nel massacro napoleonico; quello del razionalismo agnostico e del positivismo ateo; quello del nazionalismo della Grande Guerra che ci regalerà Lenin e poi Hitler; quello di oggi, di cui il culto dell'aborto è la corona di gloria. Non soltanto alle sue estremità, ma anche al centro, tutta la modernità viene dal rifiuto, ora violento ora sprezzante, della ipotesi-Dio. Quali che siano le diverse accentuazioni, sempre troviamo la religione dell'Uomo (e delle sue molte divinità) al posto del riconoscimento del Figlio dell'Uomo.Ci pare dunque che i credenti - almeno loro - dovrebbero essere consapevoli che lo schema fascismo-antifascismo non è che fumo negli occhi: è l'eclissi del Sacro che genera i mostri; è la morte di Dio che porta inevitabilmente alla morte dell'uomo. Lo schema vero per capire la tragedia dei due secoli "moderni" è, allora: fede-ateismo, prospettiva religiosa-laicismo, Dio di Gesù - divinità politico/culturali. Come ben vide quel Pio XII, che dovette fronteggiare da vivo l'odio di fascisti e di antifascisti e, da morto, la loro diffamazione. La radice, diceva infatti papa Pacelli, è l'apostasia dell'Occidente, è l'"homo homini deus" che si rovescia, sempre, nell'"homo homini lupus".
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23/11/2005 Roberto FESTORAZZIGiolitti e Mussolini. Uno schiaffo per salvare l'Italiatratto da: Il Giornale, 28.8.2007.Giolitti e Nitti, nell'ultima ora delle libertà in Italia, avrebbero voluto scatenare l'inferno nelle aule parlamentari, provocando un incidente che potesse rovesciare Mussolini. Questo e altro è contenuto in un plico di documenti inediti della Segreteria particolare del Duce che raccontano, come meglio non si potrebbe, l'agonia dell'Aventino e le ragioni per le quali Mussolini, con l'appoggio del re, riuscì a mettere in scacco le opposizioni. Le carte, da noi ritrovate al Public Record Office di Londra, sono incluse nella cosiddetta «Italian Collection», il corpus della documentazione d'archivio del dittatore, sottratta e fotoriprodotta dai «liberatori» inglesi.Si tratta di alcune relazioni «riservatissime» redatte per Mussolini da Paolo Virgillito, un giornalista, ex ufficiale di cavalleria e amico dell'economista Maffeo Pantaleoni, che per anni raccolse notizie confidenziali nel suo ruolo «coperto» di informatore, riferendo con lo pseudonimo di «Bonaccorsi» dalla sala stampa di Piazza San Silvestro. Virgillito, che dal 1939 al 1942 operò come fiduciario diretto della Polizia politica di Arturo Bocchini, con il numero 718, nella fase cruciale dello scontro tra governo e opposizioni, tra il febbraio e il giugno 1925, scrisse e consegnò al segretario particolare del capo del governo, Alessandro Chiavolini, una serie di rapporti «esplosivi» che ebbero un notevole impatto sulle strategie difensive adottate dal dittatore in erba.Il famoso discorso del 3 gennaio 1925, dal quale si fa discendere per convenzione storica l'inizio della dittatura, in realtà rappresentò soprattutto un indicatore di percorso. Furono, piuttosto, i continui «autogol» delle opposizioni, specie quelle riunite nella secessione morale dell'Aventino, e, soprattutto, l'inerzia di Vittorio Emanuele III a convincere il Duce della necessità di procedere alla creazione della dittatura. Incalzato da Roberto Farinacci, nominato segretario del Partito fascista il 12 febbraio 1925, Mussolini si fece praticamente «dettare la linea».Ma veniamo ai documenti. Il primo di essi, datato «martedì 24 febbraio 1925», esordisce con la descrizione dell'inquietudine di un irrefrenabile Giolitti, risolutamente ostile alla soluzione aventiniana, di cui constatava ogni giorno di più i venefici effetti.Scrive l'informatore Virgillito: «Informo che l'abbandono della tattica intransigente, da parte delle opposizioni aventiniane, è fermamente voluto dall'onorevole Giolitti». L'ex presidente del Consiglio, che il 6 aprile 1924 era stato rieletto deputato in una lista democratico-liberale, cioè al di fuori del cosiddetto «listone» governativo, nel novembre successivo era passato all'opposizione, subito imitato da altri due ex capi del governo, Orlando e Salandra. Giolitti, nel febbraio 1925, aveva già capito che la partita, per i difensori delle libertà statutarie, era ormai praticamente persa, a meno che le minoranze non fossero scese dall'Aventino per animare in aula qualcosa di simile a una battaglia ostruzionistica.Il piano di Giolitti, che illumina aspetti prima sconosciuti della sua attività di avversario costituzionale del fascismo, era stato da questi illustrato, in colloqui segreti, ai capi aventiniani, Turati, Treves e Amendola. Il progetto, rivela l'informatore di Mussolini, consiste in buona sostanza in un'offensiva parlamentare tale da provocare i fascisti, dimostrando in tal modo l'impossibilità di un ordinato funzionamento dell'assemblea. Conseguenza inevitabile: la caduta del governo. In tale situazione, il re sarebbe stato obbligato a intervenire, indicendo nuove elezioni. Virgillito così descrive il diabolico piano di Giolitti: «Le opposizioni tutte, discendendo nell' aula, debbono agitare con violenza, dalla tribuna parlamentare, tutti i noti argomenti concertati, contro il governo fascista. Scopi: a) poterne parlare sui giornali della "catena", per tornare ad agitare e rimontare l'opinione pubblica. b) esasperare la maggioranza fascista, per costringerla ad escandescenze e violenze, dietro le quali aver il pretesto calzante di abbandonare l'aula tutti in massa, compresi i santoni e soci, dando così uno spettacolo decisivo e "risolutivo" al Paese, per la demolizione definitiva e irrimediabile (secondo l'uomo di Dronero!) del governo nazionale».Tale strategia avrebbe dovuto condurre Mussolini al «bivio delle elezioni» e (secondo un'espressione testuale dello stesso Giolitti) «scatenare l'inferno» nel Paese. Stando alle parole del confidente di Palazzo Chigi, l'ex presidente del Consiglio insistette nel rappresentare ai suoi colleghi aventiniani la necessità di provocare i fascisti in aula, fino a determinare «possibilmente un fattaccio nuovo, parlamentare, in seguito al quale (per frase dominante, ora, fra le opposizioni) "un solo schiaffo dato da un fascista a un oppositore"» avrebbe potuto causare la caduta del governo.Paolo Virgillito appare assai bene informato, non sappiamo da chi. Ma le «talpe», nella maggioranza e nello stesso governo, non si contano. Tutti, pur nella segretezza, parlano con tutti. Il giornalista-informatore, del resto, più volte afferma che molti sono i traditori che si annidano nelle file fasciste, pronti a passare dall'altra parte. Ma appare intuitivo che Virgillito riceve le sue notizie-bomba da elementi aventiniani.Un'altra considerazione riguarda l'attivismo di Giolitti che, interpretando le sue responsabilità di «uomo di riserva» della corona, quale ex presidente, all'età di 83 anni trama nell'ombra per abbattere Mussolini. Il vecchio volpone elabora un piano per rovesciare il governo in carica, ma agisce nella massima riservatezza. Regista occulto di un'operazione a rischio, si affida ai capi dell'Aventino (Modigliani, Treves, Amendola, Chiesa), ma cerca anche il sostegno di elementi di provata lealtà monarchica, come Luigi Albertini.Dagli altri rapporti del superinformatore del Duce si evince che l'ascendente che Giolitti riesce a esercitare sulle minoranze è notevole. In quelle settimane decisive per le sorti dell'Italia, la «grande manovra» dello statista di Dronero è talmente avvolgente da coinvolgere un altro ex presidente, Francesco Saverio Nitti, che si trova in Svizzera. Nitti incoraggia la strategia giolittiana e la accredita, da sinistra, negli ambienti della finanza internazionale, della massoneria, del socialismo europeo.La domanda da porsi, a questo punto, è la seguente. Se il progetto di far cadere Mussolini fu così ben orchestrato, perché non ebbe successo? Una possibile risposta può essere riconducibile al fatto che gli aventiniani non furono mai convinti dell'opportunità di abbandonare la loro trincea di sterile protesta morale, ritornando nelle aule parlamentari. Inoltre, colui che forse può essere ritenuto il principale leader della secessione parlamentare, Giovanni Amendola, nel suo lealismo monarchico, coltivò fino all'ultimo la convinzione che il re, con un suo intervento, potesse ristabilire la legalità violata.Invece, il sovrano non mosse un dito, pur trovandosi più volte nella tentazione di agire. Come ha scritto Renzo De Felice, egli temeva da un lato la reazione fascista a un suo atto ostile contro Mussolini, e dall'altro dubitava della lealtà monarchica di molta parte degli aventiniani. In buona sostanza, Vittorio Emanuele riteneva che da un suo atto risoluto sarebbero potuti derivare più svantaggi che vantaggi. Con l'effetto di destabilizzare il già precario equilibrio sociale e politico, determinando uno sbocco nel caos. In breve: il Re non voleva aprire le porte alla repubblica. Sua Maestà non intendeva neppure profittare di una circostanza che militava a favore di un avvicendamento alla guida del governo: la malattia di Mussolini, che per alcune settimane, tra il febbraio e l'aprile del '25, tenne il Duce lontano dagli impegni quotidiani. Non al punto, tuttavia, da sottovalutare l'importanza dei maneggi compiuti da Giolitti. Il capo del fascismo prese molto sul serio i contenuti delle informative di Virgillito, tanto è vero che diede mano libera a Farinacci, il quale, sul suo giornale, "Cremona Nuova", tra febbraio e aprile reiterò la richiesta della decadenza del mandato parlamentare per gli aventiniani invocando perfino l'arresto dei capi dell'opposizione. L'Aventino restò dunque agonizzante fino alla metà del 1925, quando la decisione di non luogo a procedere emessa dall'Alta corte di giustizia del Senato assolse il capo della polizia e comandante generale della milizia, Emilio De Bono, dalle sue responsabilità nel delitto Matteotti e in altri crimini. A quel punto, la secessione antifascista esalò l'ultimo respiro.
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06/09/2007 Turi VASILEIl paragone impossibile tra torti del fascismo e orrori del comunismotratto da: Il Giornale, 09.10.2004. Confesso di essere piuttosto disorientato da quel che sento dire in questi tempi già di per sé confusi. Non mi resta che accusare la mia pochezza se non riesco a capacitarmi dei giudizi che sento esprimere -tra l'altro uno da parte di un'autorità altissima- su un periodo di cui presumevo, per averlo vissuto, di essere stato testimone diretto o indiretto.Vero è che i contemporanei non sono in grado di interpretare il significato delle proprie attualità; tutto, o quasi tutto, accade a loro insaputa e non per mancanza di informazioni, talvolta disponibili oggi addirittura per eccesso, ma per la natura sommersa dei fenomeni in svolgimento. Persino gli storici, con giudizi spesso cangianti a seconda del momento, traggono dalle loro indagini verdetti incerti. Ciò detto, risulta difficile, per un uomo comune, sprovvisto di approfondita dottrina qual è chi scrive, accettare del fascismo la sentenza di male assoluto e del comunismo quello di male necessario e perciò relativo.Chi ha vissuto il periodo fascista non si rese conto di nefandezze del regime tali da renderle pari a quelle del nazismo che, con i suoi milioni di vittime innocenti immolate in nome di principi contro natura, quali quelli del razzismo, ha meritato obiettivamente il diabolico brevetto di male assoluto. I giovani degli ultimi anni del fascismo non furono testimoni di scellerate ecatombe; essi poterono svolgere le loro attività soprattutto culturali con una certa libertà, al punto che oggi viene riconosciuto un antifascismo in camicia nera principalmente negli universitari di allora. Queste fila espressero poi i nuovi antifascisti che si unirono ai vecchi antifascisti... ante marcia, con non minore impegno democratico nonostante provenissero addirittura da scuole di mistica fascista.Uguale sconcerto desta l'attenuante, se non proprio l'assoluzione, concessa al comunismo grondante sangue dai suoi esordi al suo tramonto, dall'eccidio dei contadini alle vittime dei gulag, ai massacri ordinati da Stalin. Tra lui e Hitler abbiamo assistito a un'ignobile gara che si direbbe chiusa in parità se il nazismo non fosse durato solo dodici anni e il comunismo ottanta. Si può obiettare che la sanguinaria Rivoluzione francese fu un male necessario affinché si diffondessero i principi di fraternità, uguaglianza e libertà, così come le vittime del comunismo possono essere il prezzo pagato alla diffusione del principio di uguaglianza sociale. E' difficile tuttavia, per una mente ordinaria, rassegnarsi al concetto che il bene sia raggiungibile attraverso il male che in questo caso diventerebbe necessario, con questo criterio, anche a proposito del nazismo.Quel che accresce il mio disorientamento è che il fascismo sia giudicato «male assoluto» da parte di chi per vocazione o per elezione dovrebbe apprezzare i fermenti covati nel suo seno e che il comunismo venga in un certo senso giustificato dall'altissima autorità che contribuì alla sua caduta. E qui francamente l'enigma non solo è irrisolvibile ma anche incomprensibile da parte di chi è intimidito dalle reazioni apologetiche che solo brevi brani di un libro in uscita l'anno venturo hanno suscitato. Vengono subito chiamati in causa Aristotele e San Tommaso; nessun accenno a Platone e a Sant'Agostino che pure hanno i loro cultori. Non è la Divina Provvidenza da ritenersi uguale per tutti? Non è l'uomo padrone del suo libero arbitrio che lo rende responsabile nel bene e nel male? A noi, nell'effimera durata della nostra vita, non sarà consentito di aver conferma dell'ardua sentenza.
Data inserimento:Augusto DEL NOCEL'antifascismo di comodotratto da: Corriere della Sera, 31.12.1987 (poi in Litterae Communionis, febbraio 1988, p. 51).L'intervento di Augusto Del Noce nella polemica su fascismo e antifascismo suscitata dall'intervista dello storico Renzo De FeliceLa tesi di De Felice secondo cui è privo di senso pensare la situazione di oggi in termini di antagonismo tra antifascismo e fascismo ha suscitato reazioni che mi riesce difficile spiegare.Quel che emerge è il contrasto tra due interpretazioni del fascismo; una sorta nel periodo della lotta e ben comprensibile in relazione a quel clima, ma che oggi dovrebbe essere diventata oggetto di storia, mentre invece ancora tiene il campo nella cultura ancor più che nella politica, non tanto intermini di affermazione diretta quanto nelle valutazioni che ne dipendono; l'altra per cui si tratta di render conto di un passato.Secondo la prima ci sarebbe identità di natura tra tutti i fenomeni autoritari di destra; il carattere che li unirebbe sarebbe un particolare tipo di violenza, quella repressiva, che sarebbe da distinguere dalla violenza rivoluzionaria, invece giustificabile come necessità, anche se può trascorrere in eccessi e colpire innocenti. Tale violenza repressiva porterebbe a identificare il fascismo con la forma che assume la reazione nel nostro secolo; i ceti che si trovano oltrepassati dal processo di modernizzazione sempre più accelerato della storia di questo secolo si raccoglierebbero in «fasci» e affiderebbero la loro guida ad avventurieri capaci di sollecitare le tendenze più basse delle masse.Alla violenza repressiva questi movimenti sarebbero condannati dalla loro assenza di cultura («dove c'è fascismo non c'è cultura, dove c'è cultura non c'è fascismo», si è detto), dalla incapacità dunque di discussione e di dialogo. Manca loro anche quel tanto di positività culturale che sussisteva nei reazionari dell'epoca della restaurazione. Sarebbe dunque una violenza che nasce dalla barbarie intellettuale; in ragione di questa barbarie troverebbe giustificazione, almeno in linea di principio, la norma costituzionale del partito fascista. Questi movimenti si diversificherebbero in relazione alle tradizioni dei vari Paesi; ma il loro logico esito finale sarebbe il nazismo e i suoi campi di sterminio.Ora la ricerca storica (non solo quella di De Felice, che è il maggiore storico del fascismo, ma quella di molti autorevoli studiosi del ventennio tra le due guerre), ricerca per nulla influenzata da pregiudizi favorevoli del fascismo, o anzi orientata a raggiungere una sua condanna razionale e non emotiva, ha portato a risultati che divergono da questo modo di vedere. Così, rispetto alla natura comune di fascismi, e limitiamoci al rapporto tra fascismo e nazismo, considerati oggi dalla maggior parte degli studiosi fenomeni affatto eterogenei, e questo per la diversa posizione che essi assumono rispetto al comunismo.Secondo la giusta frase di Ernst Jünger il nazismo è «una rivoluzione contro la rivoluzione», espressione che si può intendere come designante una rivoluzione totalmente subalterna, nell'opposizione, al suo avversario comunista; una sorta di decalco naturalistico per cui alla classe sostituisce la razza. Si sarebbe portati a dire che il nazismo incarna quella «rivoluzione in senso contrario» che De Maistre additava ai controrivoluzionari della sua epoca come l'esempio che doveva essere assolutamente evitato. Invece il fascismo voleva presentarsi come la vera rivoluzione del nostro secolo, ulteriore alla marx-leninista, perché adeguata a Paesi per cultura e per civiltà più maturi della Russia.La sua storia è certo storia di un fallimento, ma ciò non toglie che in esso non siano implicati i più alti vertici della cultura dei due decenni del nostro secolo. «Errore della cultura», come diceva Giacomo Noventa, non «errore contro la cultura».Che qualche espressione di De Felice (p. es.: «grottesche norme») sia stata forse troppo a punta, non ho difficoltà ad ammetterlo. Ma mi chiedo quale controproposta i suoi critici possano avanzare. Forse stabilire come assioma fondamentale, principio della Costituzione, quella tale interpretazione del fascismo come pura barbarie? Ho troppo rispetto per pensarlo ma non mi riesce di vederne altra. Pericoli per la libertà, e ancor più direi per la «vita buona» (uso questo termine nel senso in cui ne parlava quel finissimo spirito che fu Felice Balbo, differenziandola dal «benessere»), ce ne sono in questo scorcio di secolo ed estremamente gravi; ma non hanno origine nel fascismo, non fosse altro perché gli strumenti di oppressione di cui esso si serviva erano, rispetto a quelli che la tecnica di oggi può offrire, infantili. O che vogliano vedere in esso, e di più nel fascismo italiano, quel «male assoluto», che purtroppo nella storia non si dà; dico purtroppo, perché in tale caso sarebbe relativamente agevole decapitarlo, e farla finita con lui per sempre.
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23/11/2005
Domenico SETTEMBRINIQuel marxista di nome Mussolinitratto da: Avvenire, 29.8.2001.Le radici affini di fascismo e comunismo: parla Domenico Settembrini«Il Duce non si ispirava a Franco ma a Lenin. Era antiborghese, anticapitalista e rivoluzionario» «Tutta la cultura politica italiana ha avversato il pluralismo. E oggi gli eredi delle due ideologie hanno lo stesso disagio ad accettare l'alternanza»Intervista di Maurizio Blondet Mussolini disse nel 1921: «Conosco i comunisti. Li conosco bene perché parte di loro sono miei figli spirituali». Ed era vero. Tanto che Gramsci, almeno fino alla svolta di Mussolini dal neutralismo all'interventismo, lo chiamava «nostro capo».Scritte nero su bianco dallo storico Domenico Settembrini nel suo saggio «Fascismo controrivoluzione imperfetta», frasi come quelle - rivelanti l'affinità in radice di fascismo e comunismo - fecero sì che la cultura del Pci criminalizzasse il libro. Il marxista Paolo Alatri lo accusò di «restituire una patente di nobiltà» al fascismo. Era il 1978, la cultura comunista era assolutamente egemone in Italia, e il libro di Settembrini anticipava troppo le scoperte di De Felice, Nolte e Zeev Sternhell sulle radici marxiste del fascismo. «Mai aver ragione in anticipo», sorride ora Settembrini: «Non solo i comunisti mi stroncarono, ma De Felice finì per non recensire il mio libro, perché la sua idea, allora, era che Mussolini fosse stato un marxista d'accatto. Io invece ricostruivo la vicenda marxista di Mussolini, e dimostravo che, tra i politici di allora, pochi conoscevano Marx bene come lui».Oggi il suo «Fascismo controrivoluzione imperfetta» viene ripubblicato (Edizioni Seam, pagine 500, lire 45.000): e ancora stupisce leggere fino a che punto Mussolini volle essere marxista.«Intendiamoci - avverte Settembrini -, era un politico, cioè un pratico. Per giungere al potere fece tutti i compromessi necessari: con la monarchia, con il capitale, con la Chiesa. Ma il fascismo ufficiale e conservatore che lui stesso ha creato, non gli piace. Non vuole diventare un Franco, sogna di essere un Lenin. Dice frasi come: "Il corporativismo, se è serio, è socialismo". Si affanna a costruire, nella gioventù, l'"uomo nuovo". E difatti molti dei giovani fascisti che hanno creduto con sincerità, passano al Pci, spesso venendo dal combattentismo repubblichino».È vero: molti fascisti repubblichini diventano comunisti.Domenico SETTEMBRINI: Uno dei più coerenti, Camillo Pelizzi, riconosce a Mussolini un merito agghiacciante: "aver capito", dice Pelizzi, "che per cambiare il mondo ci vogliono milioni di morti". Il sogno totalitario di Lenin.Insomma Mussolini avrebbe voluto essere Lenin?Domenico SETTEMBRINI: Un momento. Al duce va riconosciuto il merito di essere vissuto in questa contraddizione: resta anticapitalista, è uno dei pochissimi che segue attentamente le riviste marxiste e l'esperimento collettivista di Lenin in Urss; proprio per questo, perché sa bene quale disastro è il comunismo in Russia, vive nella ricerca della "terza via", per evitare i milioni di morti.Oggi, le pare che l'idea che il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario, anticapitalista e antiborghese come il comunismo sia passata nel senso comune?Domenico SETTEMBRINI: Non direi proprio. E basta guardare la condizione dei due partiti che furono eredi di fascismo e comunismo, ed oggi hanno cambiato panni. An, l'ex Msi, oggi è al governo, i Ds, ex Pci, oggi all'opposizione. Ma guardi come entrambi si somigliano nel comune disagio ad accettare fino in fondo la democrazia liberale. Gli uni devono farsi prestare l'identità da Berlusconi; gli altri non sanno decidersi tra socialdemocrazia e sovversivismo anti-istituzionale, a rimorchio degli antiglobal, e non riescono ad accettare il concetto dell'alternanza.Questo che cosa significa, secondo lei?Domenico SETTEMBRINI: Che tutta la cultura italiana, fascista o comunista, è stata rivoluzionaria. E questa eredità non è mai stata superata.Non esagera?Domenico SETTEMBRINI: No, e veda l'esempio della Spagna: ha avuto una guerra civile enormemente più sanguinosa della nostra, soffre ancora oggi di un terrorismo basco molto più grave di quello delle Brigate Rosse, eppure è diventata una normale democrazia dell'alternanza. L'Italia invece no.Perché?Domenico SETTEMBRINI: Perché appunto gli intellettuali italiani, la nostra cultura politica, è stata sempre all'opposizione rispetto a liberalismo e capitalismo. Veda Norberto Bobbio: sacralizzato come "guru" del liberalismo progressista, esempio di antifascismo moralistico. S'è scoperto che scriveva lettere a Mussolini: insomma stava a guardare, era opportunista rispetto al fascismo; se il fascismo avesse vinto, lui ci si sarebbe adattato.Errori giovanili, si dice.Domenico SETTEMBRINI: Ben altro che errori. Per decenni, i missini hanno esibito come merito il fatto di aver combattuto i comunisti. Quanto al Pci, s'è identificato nel merito di aver "vinto il fascismo" inteso come guardia armata del Capitale, e poi la Dc "borghese".Intende che nessuno dei due ha mai vantato d'aver lottato per il pluralismo? Ma non c'erano solo quei due sulla scena italiana, c'è stata anche la Dc.Domenico SETTEMBRINI: Ma anche nella Dc c'è l'elemento statalista, antiborghese. Quando s'è dissolta la Balena Bianca, la sinistra Dc ha rivelato tutta questa avversione al liberalismo, all'alternanza, al pluralismo. E guardi gli antiglobal.Anche loro avversi al capitalismo, ma non comunisti.Domenico SETTEMBRINI: Però sono gli eredi ultimi di Togliatti, senza saperlo. Togliatti ha avuto la capacità di incanalare nel suo Pci tutto il sovversivismo della cultura politica italiana, che alimentava anche il fascismo. Togliatti è quello che chiama i fascisti "fratelli in camicia nera". Per Togliatti la parola "sovversivo" era una parola positiva. Il sovversivo, per lui, è il rivoluzionario. Il sovversivismo italiano poi riemerge nel '68, e anche oggi in certe punte antiglobal.Conclusione?Domenico SETTEMBRINI: Il vuoto di senso che attanaglia la politica italiana, deriva dal fatto che le élites intellettuali non hanno mai fatto l'esame di coscienza fino in fondo. Per i comunisti, o ex, è tragico. Togliatti aveva fatto un uso così sapiente del mito sovietico, che questo mito era diventato per milioni di italiani la fede, un surrogato della fede cattolica. Ecco perché a sinistra c'è tanto vuoto di senso: è caduta la religione. Ad Occhetto non hanno ancora perdonato di aver liquidato il passato togliattiano. Ma non sono solo i Ds a non aver fatto l'autocritica. Nemmeno i postfascisti, nemmeno i cattolici. Nessuno, voglio dire, vuol riconoscere l'elemento comune, italianissimo, che li unisce al fascismo rivoluzionario, marxista di Mussolini. Non possono riconoscere questa comune identità, e continuano a proiettare sull'avversario, in fondo, l'accusa di "aver tradito la rivoluzione". È questo che rende difficile l'alternanza, in Italia.
Data inserimento:
12/10/2007
Giovedi 7 Maggio, 2009
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Mario CERVILe dittature non sono tutte ugualitratto da: Il Giornale, 20.09.2003Ho sentito dire e ribadire, nella polemica sul fascismo imperversante in questi giorni, che tutte le dittature sono uguali. Ossia che vale, per giudicarle, solo un principio solenne e assoluto: hanno soppresso la libertà? Se l'han fatto, non si può stare a sottilizzare sul numero dei morti e sull'entità e ferocia della repressione. Importante, più che le modalità dell'azione, è l'ispirazione dell'azione stessa, e questo accomuna ogni dittatura. Sono stati conculcati i diritti individuali, è stata condizionata o impedita l'espressione di idee che non coincidessero con quelle del potere? Se sì il problema è risolto. Il fascismo fu uguale al nazismo, il nazismo fu uguale allo stalinismo, il divario tra chi ha ammazzato all'ingrosso e chi ha ammazzato al minuto - e quasi non ha ammazzato per nulla - scompare. La fede democratica esige che la condanna sia paritetica e implacabile: cosicché il sostenere che Mussolini fu - sul metro dei regimi totalitari o autoritari - benigno e non sanguinario diventa profanazione dei sacri valori dell'antifascismo e della Resistenza.Questa è secondo me una tesi infondata. Lo dice uno che non ha mai avuto simpatie per il ventennio e che nel suo «Storia della guerra di Grecia» ha scritto una delle più dure requisitorie contro il fascismo. Ma la demonizzazione ossessiva e furibonda del fascismo - che caratterizzò una certa stagione del dopoguerra e che ora riemerge colorandosi di acredine antiberlusconiana - finisce per essere rituale, stucchevole e nella sua rievocazione della realtà mistificatrice. Mistificatrice, anzitutto, nella voluta confusione tra il fascismo del ventennio e il nazifascismo della Repubblica di Salò le cui ignominie e le cui mattanze non possono essere ricondotte all'uomo che impersonò il fascismo, Mussolini, che era stato ridotto a un patetico fantasma del passato. Le dittature non sono tutte uguali: come non lo sono le democrazie, alcune delle quali portano prosperità, altre miseria e degrado anche quando siano rispettati i principi di libertà.No, le dittature non sono tutte uguali. Ho già osservato di recente che i capi comunisti italiani - Gramsci, Giancarlo Pajetta e tanti altri - scontarono pene pesanti per le condanne obbrobriose di quel Tribunale Speciale che era la negazione della vera giustizia. Ma ebbero salva la vita. Non l'ebbero salva molti comunisti italiani che per sfuggire al fascismo si rifugiarono in Unione Sovietica, e che là furono fucilati. C'è una differenza non solo quantitativa - e già conta molto - ma anche qualitativa tra il fascismo e il nazismo.Le leggi razziali furono un'abbiezione servile di Mussolini, adattatosi a imitare Hitler. Ma nella Francia occupata, o dovunque vi fosse la presenza di truppe italiane, lì gli ebrei cercavano scampo all'orrore nazista. Non dipese soltanto dal buonismo nazionale, dipese anche dai contenuti delle norme che militari e funzionari dovevano applicare. Ieri a Borgo San Dalmazzo il presidente Ciampi ha ricordato le centinaia - ma forse erano migliaia - d'ebrei di ogni nazionalità che erano stati «salvati e protetti dall'esercito italiano nella Francia occupata». Le leggi razziali tedesche miravano all'eliminazione degli ebrei. Le scimmiottanti leggi razziali italiane - pur con la vergogna di provvedimenti discriminatori e punitivi contro cittadini la cui sola colpa era l'appartenenza religiosa - questo scopo non l'hanno mai perseguito.I maggiorenti del fascismo che il 25 luglio 1943 votarono contro il loro Duce avevano di sicuro contribuito, con le squadracce manganellatrici, a uccidere la libertà in Italia. Ma non possono essere coinvolti in stragi e rappresaglie atroci di tutt'altra fase storica: quella delle razzie nel ghetto di Roma e della Risiera di San Sabba a Trieste. Penso anch'io che sia inutile fare la conta dei meriti e demeriti del fascismo. Un regime che, proclamandosi guerriero, toglie la libertà a un popolo e lo porta alla catastrofe non può invocare, come attenuante, le colonie marine e montane per l'infanzia o la bonifica dell'agro pontino. Semmai può invocare il consenso quasi plebiscitario che durante alcuni anni lo sorresse.Ma non si tratta, per carità, di riabilitare il fascismo. Si tratta d'usare nella storia lo stesso buon senso che si usa nella vita, e che invece va a volte perduto per passione faziosa o per calcolo politico. Il confino fascista non era una villeggiatura, d'accordo. Ma lo era, e come, se raffrontato ai gulag staliniani o ai lager nazisti. L'esistenza dei gulag e le atrocità sovietiche non impedirono alla classe dirigente italiana - incluso Alcide De Gasperi, allora presidente del Consiglio - di profondersi in elogi commossi - per non dire dei ditirambi comunisti - dopo la morte di Stalin. Capita anche a un grande statista come De Gasperi di dire qualcosa di «inappropriato e di disinformato»: per usare le espressioni con cui il direttore dell'associazione ebraica Anti-Defamation League, da cui Berlusconi sarà premiato, ha commentato i giudizi dello stesso Berlusconi sul fascismo. Nessuno è perfetto.
Data inserimento:
25/11/2003
Un complotto anti-Benito?tratto da: Avvenire, 14.1.2000C'era un complotto per uccidere Benito Mussolini dopo il 25 luglio 1943? Un diario inedito del giornalista Roberto Suster, all`epoca direttore della «Stefani» (l'agenzia di stampa fascista), rivela nuovi particolari su quel concitato Gran Consiglio. Due giorni dopo la destituzione di Benito Mussolini, avvenuta nella drammatica seduta notturna del 25 luglio, era pronto un piano per uccidere il Duce a colpi di pistola nel suo ufficio a Palazzo Venezia. L'idea dell'esecuzione era maturata nel comando supremo delle forze armate, ma fu impedita dall'intervento diretto del re Vittorio Emanuele III sui congiurati. Il documento, conservato all'Archivio Centrale dello Stato, è stato trovato dal giornalista Sergio Lepri, che ne parla su «Nuova Antologia». Suster scrive sulla base delle confidenze di alcuni gerarchi e riferisce che il colpo di Stato militare era stato "fissato il 5 luglio" e "doveva sfociare nell'assassinio di Mussolini il 27 luglio". Incaricato dell'esecuzione - da compiersi "a revolverate" a Palazzo Venezia - sarebbe stato il generale Giuseppe Castellano.
Marcello FREDIANIIl caso De Felicetratto da: Marcello FREDIANI, Mandiamo in revisione il motore della storia, in Il Sabato, 4.3.1989, n. 9, p. 49-53.I miti intoccabili erano molti. Crollano con il fragore dello scandalo. A minarli sono stati loro: gli storici «revisionisti». [...] I revisionisti non costringono solo a riscrivere i libri di storia, ma mettono in questione i capisaldi dell’esperienza del nostro tempo. Insomma è gente che ridesta dal sonno. Ecco i casi De Felice, Furet, Nolte: hanno divelto i monumenti del fascismo-antifascismo, della rivoluzione francese, del Male Assoluto nazista. [...]Tornato di vivissima attualità l'anno passato con l'intervista rilasciata a Giuliano Ferrara sull'anacronismo del tabù antifascista a quasi cinquant'anni dalla Liberazione, lo storico entra nell'occhio del ciclone nel 1975 con la pubblicazione, per i tipi di Laterza, dell'«Intervista sul fascismo». In tempi di acque agitate dalle forti tensioni ideologiche e dall'imponente avanzata elettorale comunista, l'interpretazione controcorrente di De Felice arriva nel panorama editoriale storiografico come una bomba. Fa scalpore la distinzione tra fascismo-regime e fascismo-movimento che accredita l'ipotesi, ai tempi scandalosa, del fascismo come fenomeno rivoluzionario e come «democrazia totalitaria». Proprio mentre il Pci conquista per la prima volta il ceto medio, De Felice reinterpreta il fascismo come la «rivoluzione dei ceti medi». Apriti cielo. «L'Espresso» (del 29 giugno), anticipando l'uscita del libro, organizza una tavola rotonda sul caso con lo stesso De Felice, Giuliano Procacci e Giuseppe Galasso. I due contraddittori di De Felice si dicono «stupefatti», soprattutto della distinzione tra fascismo e nazismo («il comune denominatore è minimo», sostiene De Felice). Distinzione, ma anche rovesciamento nella prospettiva di De Felice: è il fascismo che guarda avanti (è una rivoluzione), mentre il nazismo guarda indietro. Non sono bruscolini, ma veri e propri macigni che feriscono l'orgoglio, insieme alla retorica e alle false certezze, dell'Italia antifascista. Ma la bomba è ormai innescata e i suoi effetti devastanti li produce tutti. Il monolitico fronte antifascista mostra le prime crepe: Giorgio Amendola, con un fondo sull'«Unità», denuncia l'assenza di una storia dell'antifascismo. De Felice ha colpito: il problema si è spostato dal fascismo all'antifascismo. Amendola salva solo i comunisti, gli unici ad avere avuto il coraggio nell'ambito del movimento antifascista di scrivere la propria storia, fatta anche di errori. Luigi Firpo parla addirittura di latitanza dell'antifascismo prima del 1940.Anche Leo Valiani, tra i fondatori del Partito d'Azione, è costretto ad ammettere: «In quelle condizioni chi non avrebbe commesso degli errori?». Con De Felice è il tabù stesso della Costituente a scricchiolare. Oggi i libri recentissimi di De Felice, quelli sul Duce e sulla questione ebraica nel Ventennio son quasi «de chévet».
Data inserimento:
08/11/2007
28/04/2005
giovedì 7 maggio 2009
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